Chi viveva per i fatti suoi – vabbeh – poteva mangiare quello che gli pareva, fermi restando i digiuni nei giorni di digiuno e i divieti da rispettare nei giorni di astinenza.
Chi viveva in una comunità monastica, invece, poteva mangiare (letteralmente!) quel che passava il convento, e nulla più.
Da un certo punto di vista, si presupponeva che un monachello avesse altri scopi nella vita, oltre a quello di ingozzarsi; da un altro punto di vista, molto banalmente, il monachello viveva in comunità: se il cuoco prepara un certo menù, non puoi nemmeno pretendere di stravolgerlo o di chiedere doppia porzione. E quindi, frati e monaci seguivano una dieta abbastanza rigida, sia nei giorni di Quaresima che in quelli “normali”. La norma era mangiare due portate al giorno: una pranzo, ed una cena. Se dopo il piatto caldo avevi ancora fame, potevi finire di riempirti lo stomaco spiluccando un po’ di frutta – ma nulla più.
Certo è che – per N valide ragioni – talvolta può giustamente capitare di aver voglia di mangiare quel tantinello in più. Lasciamo perdere il caso di malattia (i frati ammalati avevano una dieta a parte; non mangiavano certo nel refettorio): molto banalmente, può capitare che tu abbia voglia di mangiare un po’ di più… perché quel giorno c’hai fame, perché sei triste e la Nutella ti fa da antidepressivo, perché è una ricorrenza personale importante e ti va di onorare il giorno, perché hai appena concluso un grosso lavoro e adesso hai voglia di festeggiare.
Ebbene: in questi casi – ravvisando cioè questi casi particolari in uno dei suoi confratelli – il Priore del convento aveva facoltà di concedere al fraticello una meritata porzione extra. E gliela concedeva in via del tutto eccezionale in un provvedimento del tutto ad personam: il destinatario di questo “dono” non poteva decidere di spartire il cibo con un amico, o di tenerselo per il giorno dopo. No: la concessione doveva essere usata solo quella volta lì, solo da quella persona lì. Perché era quella persona lì, in quel momento lì, a trovarsi nelle condizioni di non poter sopportare la dieta rigida: mica un altro.
Sapete come si chiamava la porzione extra che poteva essere concessa ai frati in questa circostanza?
Si chiamava pietanza.
O meglio: era la pietanza, se ci pensate; era esattamente la “pietanza” nella nostra accezione, cioè una seconda portata servita dopo il primo piatto.
E sapete come mai la pietanza si chiama proprio con questo nome? Facile: si chiama così, perché il termine deriva da pietas.
“Pietà”.
Pietà in senso buono, naturalmente: pietà nel senso in cui vedi tuo figlio che torna a casa da scuola immusonito per una giornata brutta, e cerchi ci tirarlo su di morale con un piatto di patatine e hamburger in dose extra.
Una volta tanto, in via eccezionale, il “premio di consolazione” ci sta benone. E quindi… via alla pietanza, per quei frati che, in via eccezionale, dimostravano di abbisognarne.
A me ha sempre fatto riflettere un sacco, questa cosa.
Quella portata che noi diamo per scontata – perché un pranzo non è un vero pranzo, se non ha almeno un contorno – in origine era una portata extra, veramente eccezionale, per chi era in condizioni così… pietose da avere bisogno di un rinforzino in più.
Ma solamente una volta tanto.
E solo se la giornata era veramente speciale, o veramente storta.
Non so a voi, ma a me ha fatto riflettere un sacco, questa cosa. Quando l’ho letta per la prima volta ho sgranato gli occhi… e ho pensato “mannaggia come ci siamo abituati bene, ormai!”.
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