La comida del hambre

Si asciugò con un panno le mani bagnate d’acqua; poi, indossò di nuovo il suo mantello.
Alzò il capo, lentamente, e lanciò un’occhiata silenziosa ai dodici apostoli che ricambiavano il suo sguardo, ancora confusi per quel gesto assurdo di cui erano appena stati  fatti oggetto.

La cena era già pronta: la brocca con il vino e le pagnotte infarinate stavano già al centro del tavolo, debolmente illuminate alla luce delle candele. Ma prima di avvicinarsi a tavola, Gesù volle guardare ancora una volta i dodici compagni che lo avevano seguito fino a quel punto.
Si allontanò di un passo, per poterli abbracciare tutti quanti con lo sguardo. E poi posò i suoi occhi su ognuno di loro, lungamente, e nel silenzio: guardò l’anziano Pietro, assieme a Giacomo e Giovanni; guardò Bartolomeo e Tommaso, che sedevano vicini. Il suo sguardo si posò su Filippo e poi scivolò su Matteo, Giuda Taddeo e su Giacomo. Accennò un sorriso a Simone, che lo stava guardando ancora confuso, e poi fissò a lungo l’Iscariota. Lo guardò senza dir niente; e lui abbassò lo sguardo.
Rimase immobile per qualche secondo, come a voler imprimere per sempre nel suo cuore il volto di quelle persone che avevano camminato assieme a lui, lasciando tutto ciò che avevano per seguirlo e farsi suoi.
Forse è esagerato, dire che era commosso.
Però, ci si avvicinava.
Quando parlò, la sua voce vibrava di affetto, di solennità, ed anche di riconoscenza. “Ho desiderato moltissimo mangiare questa Pasqua assieme a voi”, disse piano, “prima della mia passione”.

***

Lo chiamano popolarmente la comida del hambre, “il pasto dell’affamato”.
In effetti, la fanesca porta su di sé un ingrato compito: dev’essere sufficientemente ricca per sostenere i commensali durante il durissimo digiuno che li attende: il Venerdì Santo bussa già alle porte.

Piatto tipico della cucina ecuadoriana, la fanesca è tradizionalmente consumata alla sera del Giovedì Santo.
Sia chiaro: di piatti consumati alla sera del Giovedì Santo, è pieno il mondo: fin da quando si è cominciato a digiunare, si è sentita l’esigenza di consumare un ultimo pasto – nutriente il più possibile – alla sera del Giovedì. E poi, a ben vedere… cosa c’è di più di adatto di una cena, per commemorare… beh… una Cena?

Generalmente, dando prova di apprezzabile creatività gastronomica, le cucine popolari hanno pensato bene di commemorare l’Ultima Cena dando origine a un menù a base di pane e vino.
La fanesca, invece, mi ha incantata proprio perché è un piatto originale: consumata il Giovedì Santo, non contempla l’uso di vino e nemmanco di farinacei…
…ma bensì di pesce.
Di legumi, e pesce.

La natura degli ingredienti, a dirla tutta, non è neanche così importante.
Il “pezzo forte” del piatto dovrebbe essere il baccalà – ma al limite si può sostituire con un qualsiasi altro pesce, a seconda di come ci piace.
I legumi dovrebbero essere legumi tipici dell’Ecuador (e, di conseguenza, piuttosto introvabili da queste parti). Gli ecuadoriani immigrati negli U.S.A. hanno riadattato la ricetta secondo le disponibilità del mercato occidentale, e suggeriscono ad esempio la seguente sfilza di ingredienti: mais, piselli, arachidi, chicchi di riso, nonché lenticchie, fave, chicchi di grano, abbondanti ceci, e, infine, semi di lupino bianco. Ad essi si aggiungono, un po’ da intrusi, fette di zucca, cavolo, e rondelle di zucchini.
Ma anche questo, al limite, può esser stravolto senza problemi: l’importante non è usare proprio quei dodici ingredienti lì – l’importante, semmai, è usarne proprio dodici.

Dodici legumi diversi.
E il pesce.
Cominciate ad intuire?

: proprio così.
La fanesca – a differenza di tanti piatti consumati il Giovedì Santo – non rievoca l’Ultima Cena attraverso quei due ingredienti che l’hanno portata alla Storia: il pane e il vino.
La fanesca rievoca l’Ultima Cena ricordando le persone che erano persenti lì a quel tavolo: dodici tipi di verdure, che simboleggiano gli apostoli, radunate attorno a un pesce. Che ovviamente, simboleggia il Cristo.

E allora, preparare la fanesca diventa quasi una preghiera… o, quantomeno, una meditazione assorta su quei dodici apostoli che hanno formato la prima Chiesa.

Erano tipi semplici, di per sé. Gente “da poco”.
Se io volessi preparare un piatto che ricordi i Dodici, sceglierei magari, per dare loro il massimo onore, dodici tipi di formaggi prelibati, o di affettati succulenti. Ma sbaglierei: se gli Apostoli fossero cibo, in effetti, me li vedrei bene come legumi.
Un cibo semplice, dimesso… indubbiamente buono, eh!; ma senz’altro non è caviale.

La fanesca è una zuppa: i dodici legumi vengono fatti cuocere, poi vengono uniti al pesce, e, infine, legati assieme con una salsa… ma, secondo la tradizione, i dodici legumi vanno fatti rigorosamente cuocere in dodici pentolini diversi: uno per tipo. Non bisogna mescolarli mai, prima di versare tutti gli ingredienti nella zuppa vera e propria.
“Che spreco di energia”, direte voi.
“Che significato splendido”, ribatto io. La tradizione vuole che i dodici legumi vengano fatti cuocere a parte – ognuno nel suo pentolino – proprio perché la gente si ricordi che la Chiesa non è una massa informe in cui tutti i fedeli si fondono in un magma indifferenziato (e magari anche un po’ sciapito). La Chiesa è un insieme di persone prese nella loro meravigliosa singolarità: tanti carismi diversi, tante inclinazioni differenti, tanti sapori inconfondibili. Che poi si uniscono tutti quanti per dar vita alla Chiesa, certo: ma che sono sempre diversi e singoli, pur nell’unità.

E poi, il pesce.
Simbolo per eccellenza del Signore Gesù Cristo, il pesce sta in mezzo ai Dodici, insaporisce l’intera zuppa, e fornisce al piatto una valida ragion d’essere.
Perché… sì, diciamolo: un’accozzaglia di verdure e di legumi mescolati assieme – beh – non è certo nouvelle cuisine.  D’accordo, è commestibile: ma si tratta pur sempre di un’accozzaglia di legumi, che son finiti lì per caso e che non son certo ‘sta meraviglia immensa.
Ma se prendi questi ingredienti e ci aggiungi dell’ottimo pesce… beh… allora sì che l’intera cosa comincia ad avere improvvisamente un senso.

In buona sostanza, per chi volesse provare, il procedimento è questo: i legumi, puliti, vengono fatti cuocere separatamente; le verdure, pulite, vengono fatte cuocere separatamente; si prende il pesce, lo si fa cuocere, e poi lo si taglia a pezzettini. Si crea una crema molto semplice, a base di latte, spezie, e dado vegetale, e si versano al suo interno tutti quanti gli ingredienti, affinché il gusto si amalgami. Alcuni, a questo punto, aggiungono anche una punta di formaggio, per insaporire ulteriormente il tutto. E infine, un altro ingrediente che non può mancare mai è, naturalmente, l’uovo, dar prendere già sodo e da tagliare in grosse fette. Simbolo pasquale riconosciuto in tutto il mondo, l’uovo allude, ovviamente, alla Resurrezione che si avvicina.

I Dodici e il Signore, uniti a tavola ancora una volta, nella sera del Giovedì Santo, per ricordarci simbolicamente quella che è stata la prima Chiesa.

I piatti tipici per il Giovedì Santo sono infiniti, e tutti quanti molto belli. Ma questo, in particolare, mi sembrava anche originale… e, per il suo significato, splendido.

10 risposte a "La comida del hambre"

  1. rosenuovomondo

    Veramente un significato particolare… MI piace molto, non il piatto, certo, ma quello che rappresenta. Che meravigliose usanze ci sono in giro per il mondo! Il mio Giovedì Santo sarà a base di pizza, di là c’è l’impasto che aspetta di essere steso…

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    1. Lucyette

      Vero?
      A me piace tantissimo scoprire questi piatti particolari che hanno tradizioni simili alle spalle… è proprio vero che la cucina è una forma di cultura!
      A proposito di piatti tipici con significati particolari: mi ero divertita tantissimo anche nello scoprire la storia dei Tredici Dessert di Natale, che sono una tradizione natalizia tipica della Provenza.
      Anche lì, ogni ingrediente ha una sua simbologia…
      …e anche lì viene tirata in ballo l’Ultima Cena, guarda coincidenza 😉

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  2. Daniele

    Approfitto dell’occasione per fare gli auguri 🙂
    Questo piatto è veramente bello come significati, non è che mi ispirino molto i legumi in sè a dire il vero, anche se fanno pure bene 😛 Però il significato dietro a questa preparazione è veramente bello 🙂

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    1. Lucyette

      Idem 🙂
      I legumi non mi hanno mai detto un granché, soprattutto in zuppa, e dopo una intera Quaresima sono così esasperata dal mangiar pesce che mi viene il disgusto solo a pensarci 😀
      Però il significato è veramente bello, sì.

      Grazie per gli auguri!!
      Io te li faccio già in anticipo, poi li ripeterò giustamente a Pasqua! 🙂

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  3. Denise Cecilia S.

    Come ho visto questo bel piattozzo nella mail di aggiornamento già mi stavo sciogliendo.
    Non si fanno queste cose, una persona fragile può rimanerci per la troppa acquolina!! 😉

    E’ veramente una tradizione splendida, oserei dire tanto per il suo significato quanto per il suo sapore, che non fatico ad immaginare.
    Originale e ricca, ma estremamente semplice; come poi sono le cose più gustose.

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    1. Lucyette

      Eeehh, e tu pensa al tormento mio di scrivere post “gastronomici” per quaranta giorni, dibattendomi fra ricette e fotografie di piatti, in un periodo in cui o facevo digiuno o facevo astinenza o tutte e due le cose messe assieme!
      LOL!
      😀

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  4. Denise Cecilia S.

    Beh, ora che leggo gli auguri di altri mi rendo conto di non averteli fatti.
    Mi infastidiscono le formalità, ma te li faccio sinceramente, a te ed a Claudio prima di scordarmene.
    Ho la testa nel pallone, confesso che questa Pasqua più che viverla me la sto trascinando: sono durata lucida appena la prima settimana di Quaresima! O.o

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    1. Lucyette

      Ma sai che pure io l’ho vissuta un pochino sottotono rispetto ad altre, nonostante tutte le buone intenzioni?! Però mi sto riprendendo alla grande nei giorni del triduo: proprio vero che la liturgia (e il digiuno) aiutano tantissimo in tal senso! 😉

      Auguri di cuore a te e a tua mamma, Cecilia! Un abbraccio e buona Pasqua, in anticipo di una manciata d’ore! 🙂

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