“In un modo che resta per me sconcertante, e che mi pare a tratti avere del miracoloso: mentre meditavo sulle tante cose miserabili del nostro tempo standomene al buio nel cuore della notte nella canonica di Liztelstetten, nella stanza d’angolo del secondo piano (quella che si affaccia sul giardino): all’improvviso tutto mi fu chiaro e l’intera grammatica della lingua volapük prese forma in un istante all’interno della mia mente”.
Sul finire della sua vita, Martin Schleyer utilizzò questa suggestiva immagine per descrivere il momento in cui si mise a tavolino per creare la grammatica della prima lingua artificiale ad aver effettivamente trovato applicazione pratica tra un discreto numero di parlanti. Correva l’anno 1879 e vedeva la luce la lingua volapük, che (proprio in virtù della sua genesi “miracolosa”) fu spesso considerata dai suoi fan alla stregua di un idioma ispirato da Dio.
E diciamolo pure: Martin Schleyer si prestava piuttosto bene a vestire i panni di profeta, nell’immaginario collettivo. Tanto per cominciare, era un sacerdote, e già questo è un discreto punto di partenza.
Nato nel 1831 a Oberlauda, graziosa cittadina nel sud della Germania, Martin iniziò a coltivare fin da adolescente la sua passione per le lingue estere. Non fece mai studi universitari, dedicandosi piuttosto alla frequenza del seminario che lo portò a diventare sacerdote; e tuttavia, studiacchiò da autodidatta un’ottantina di lingue e di dialetti, arrivando a padroneggiarne almeno una cinquantina.
Un bel giorno, quand’era ormai un prete di mezza età con cura d’anime in un paesino di montagna, don Martin ricevette lo sfogo di un suo parrocchiano che soffriva a causa della lontananza del figlio, il quale era emigrato negli Stati Uniti in cerca di fortuna. A farlo soffrire, non era tanto la lontananza fisica del ragazzo, che del resto si stava felicemente costruendo altrove una nuova vita, quanto più la difficoltà logistica di comunicare con lui, a così grande distanza. Il parrocchiano si diceva certo di come alcune delle lettere indirizzate al figlio fossero andate disperse alla frontiera, sicuramente a causa dell’incompetenza dei postini americani che (a suo dire) non erano capaci di leggere correttamente l’indirizzo di destinazione, perché scritto “alla tedesca”.
Suppongo che don Martin abbia avuto bastevole intelligenza per fare pat-pat sulla spalla del parrocchiano senza fargli notare che era ben difficile che un postino non fosse in grado di leggere un indirizzo solo perché era stato scritto da un Tedesco. E tuttavia quello sfogo lo fece riflettere, portandolo a pensare, in senso più ampio, a tutte le difficoltà che si trovava ad affrontare la brava gente che emigrava all’estero e che si trovava costretta a vivere in uno Stato di cui non conosceva la lingua nazionale.
Con la maggiore facilità di trasporto, la crescente tiratura dei libri a stampa e la rapida espansione dei fenomeni migratori, davvero (si trovò a pensare il sacerdote) una lingua artificiale sarebbe stata in grado di far la differenza. Una lingua dalla struttura semplice, agevole da studiare e con un vocabolario che si memorizza facilmente; un idioma che nessuno padroneggia fin dalla nascita, ma che tutti possono apprendere partendo da zero. Oh, quanto sarebbe stato più equo! Oh, quanto avrebbe facilitato la mobilità di idee e di persone!
Parte Martin stava meditando proprio su questi temi quando, nel 1879, fu illuminato da quella folgorazione che ho già descritto. Nell’arco di pochi giorni, il sacerdote aveva fissato su carta la grammatica, la morfologia e la sintassi di una lingua artificiale, alla quale diede anche un nome battezzandola Volapük.
***
L’alfabeto era composto da ventisei lettere, otto delle quali erano vocali; a ognuna di esse corrispondeva un suono. Nello stilare il suo alfabeto, don Martin aveva volutamente evitato la sterile aggiunta di lettere non strettamente necessarie: ad esempio, il Volapük non conosce la W, per evitare inutili sovrapposizioni con la lettera V che, invece, è ampiamente usata. Allo stesso modo, l’inventore della lingua cercò di evitare l’utilizzo di fonemi che avrebbero potuto creare confusione alle orecchie degli studenti che provenivano da certe aree linguistiche: della R, ad esempio, fece un uso molto ridotto, perché Schleyer aveva l’impressione che gli asiatici tendessero a confonderne il suono con quello della L.
La grammatica del Volapük è perfettamente regolare, palesemente influenzata da quelle greca e latina: la lingua inventata presenta quattro casi (nominativo, genitivo, dativo e accusativo, con la possibilità di aggiungere un vocativo) e include modi verbali come l’ottativo e il dubitativo, tanto cari (?) a chi è uscito dal liceo classico.
Giusto per mescolare un po’ le carte, don Martin decise di dare al Volapük una morfologia che non si trova nelle lingue indoeuropee ma è presente negli idiomi orientali e in quelli ungro-finnici (oltre che nel Quenya, per i fan di Tolkien). Il Volapük, infatti, è una lingua agglutinante: vale a dire che le parole si compongono di morfemi combinati l’un sull’altro come piccoli mattoncini Lego. Ogni morfema veicola un significato, ed è proprio l’unione di questi ultimi a determinare logicamente il significato della parola.
Ad esempio, a partire dal vocabolo pük (linguaggio) è possibile ottenere a suon di combinazioni una infinità di varianti come pükot (chiacchierata), nepük (silenzio), tapük (contraddizione), pükelik (oratorio), pükedavod (proverbio) e pükav (filologia). Naturalmente, deriva dal medesimo morfema anche il nome stesso di Volapük, un pük che si parla in tutto il vol, in tutto il mondo: una vera lingua universale.
Il vocabolario prendeva ispirazione da parole presenti nelle lingue europee (perlopiù, Tedesco e Inglese), anche se le rielaborava a un livello tale da rendere spesso irriconoscibile la radice di partenza. Per dare qualche esempio, e accostando al termine italiano la traduzione in Inglese e in Volapük:
donna (woman) diventa vom
famiglia (family) diventa famül
madre (mother) diventa mot
cosa (thing) diventa din
isola (insland) diventa nisul
ma abbiamo anche esempi latineggianti come
capo (head) che diventa kap
***
Noi moderni tendiamo a guardare con freddezza a queste lingue artificiali, che ci sembrano anche insopportabilmente artificiose. Incredibilmente, il Volapük ebbe invece un buon successo tra gli intellettuali e la media borghesia: per qualche anno, realmente parve essere la possibile soluzione a un problema che era all’epoca assai sentito. La sua grammatica perfettamente regolare la rendeva più facile rispetto al Francese o all’Inglese, le due grandi lingue franche del momento; perdipiù, il non essere legata ad alcuna nazione specifica evitava che gli studenti vi si approcciassero animati da pregiudizi di natura geo-politica.
Entro la fine degli anni ’80 dell’Ottocento (e cioè, a una dozzina d’anni appena dalla sua invenzione dell’idioma), erano stati stampati in lingua volapük trecentoottantaquattro libri e venticinque periodici; nel 1887, fu fondata un’Accademia Internazionale nata con lo scopo di promuovere in tutto il mondo la diffusione della nuova parlata.
Proprio in quello stesso anno, Ludwig Zamenhof si metteva a tavolino per creare la grammatica dell’Esperanto – e, per farla breve, fu proprio questa nuova lingua a sancire il fallimento dell’esperimento di don Martin Schleyer.
Perché, se il Volapük era una lingua facile da imparare, l’Esperanto lo era ancor di più; e quando alcuni membri dell’Accademia Internazionale Volapük proposero alcune versioni semplificate del linguaggio, il fondatore le rigettò con durezza ribadendo che la lingua doveva restare quella che lui aveva creato: assolutamente! Verrebbe da dire che fu proprio lui, con la sua intransigenza, a mettere fine a un esperimento linguistico che, per breve lasso di tempo, sembrò davvero in procinto di poter sfondare: oggigiorno, esiste ancora qualche cultore che studia il Volapük (ed esiste persino una versione di Wikipedia in questa lingua); e tuttavia, se si parla di idiomi artificiali, è certamente l’Esperanto quello che per primo ci viene in mente.
A conti fatti, neppure l’Esperanto ebbe un gran successo… ma – come si suol dire – questa è un’altra Storia.
Una Storia che, per la cronaca, è ben descritta in un libro di recentissima pubblicazione a cura del Massachussets Institute of Technology: Imaginary Languages. Myths, Utopias, Fantasies, Illusions, and Linguistic Fictions a firma di Marina Yaguello. Direi imperdibile, se la materia vi appassiona.
sircliges
Ed è subito Tolkien
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Lucia Graziano
😛
Credo però che le lingue di Tolkien abbiano una morfologia e una sintassi un po’ più complesse, non essendo fatte per essere parlate. Il Volapük (come del resto l’Esperanto, e tutti gli altri esperimenti di lingue artificiali succedutisi tra fine Ottocento e inizio Novecento) erano proprio delle lingue iper-semplificate, con l’idea di creare un linguaggio che si potesse imparare in pochi giorni. Poi restava solo da memorizzare il vocabolario.
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Gianluca di Castri
Mi hanno sempre interessato le lingue artificiali, anche se dal punto di vista pratico sono state tutte un fallimento. L’idea di una lingua ausiliaria universale nel XIX o nella prima parte del XX secolo aveva senso, successivamente il ruolo fu assunto dall’inglese. Fino agli anni ’60 o ’70 del XX secolo avrebbe avuto senso proporre per tale ruolo il latino, ancora studiato nelle scuole (vi fu anche un congresso sull’argomento – https://dicastri.club/2021/08/31/lingua-latina-potestne-in-communitate-europaea-restitui/), oggi sarebbe obiettivamente più difficile, ma comunque non più difficile che adottare l’esperanto o l’interlingua (quest’ultima, poi, sembra un dialetto italiano).
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