Non è facile parlare di prostituzione medievale – anche (e soprattutto) perché, per buona parte dell’età di mezzo, furono molto sfumati i confini che separavano le professioniste dalle semplici donne scostumate.
Significativamente, Thomas di Cobham (+ 1327) definiva meretrix “la donna che vende pubblicamente la sua depravazione” ma anche “la donna che si mette a disposizione della lussuria di numerosi uomini”: effettivamente, erano ritenute prostitute tutte quelle donne che erano note per l’aver dormito con molti uomini diversi, anche se non dietro corresponsione di denaro (…per quanto, nel Medioevo, neppure la donna più promiscua sarebbe stata così scema da saltare da un letto all’altro senza ricavarne in qualche modo un guadagno: foss’anche in termini di protezione, regali, prestigio sociale).
Mi verrebbe da dire, col sorriso sulle labbra, che agli occhi di un uomo medievale la stragrande maggioranza delle donne d’oggi sarebbe composta da prostitute fatte e finite, tenendo conto che (per citare un caso tra i mille) nella Castiglia del XII secolo una donna veniva automaticamente considerata meretrice se, nel corso della sua vita, aveva dormito con almeno cinque uomini che non erano suo marito.
Ancor più comica è la storia di una certa Elsa Stecklin di Merano, che nel 1471 fu prelevata dalla sua casa e portata d’imperio al bordello cittadino per la valida ragione che, qualche sera prima, era stata vista cenare in una locanda malfamata in compagnia di un uomo che era notoriamente cliente di prostitute. Dichiarando di non essere affatto una meretrice, la povera Elsa fece appello alle autorità locali per essere rimessa in libertà; non conosciamo l’esito della causa, ma conosciamo in compenso la sconfortante storia di una certa Margret Pewrlein di Bolzano, che nove anni più tardi, trovandosi nella stessa situazione, fu effettivamente rilasciata dal bordello che la tratteneva, dopo che i giudici ebbero appurato che la donna non si prostituiva affatto.
Parlando di bordelli: bisognerebbe aggiungere che questi sono un’invenzione piuttosto tarda. Sicuramente, esistevano in età classica (e il caso di Pompei ce lo dimostra bene), ma l’avvento del Cristianesimo riuscì a farli scomparire per circa un millennio. Nell’Alto Medioevo, esistevano sì alcune donne che prestavano servizio in locali esterni alle loro abitazioni (ad esempio, i famigerati bagni pubblici, dove era noto che gli avventori potessero trovare compagnia). E tuttavia, per buona parte del Medioevo, quasi tutte le prostitute operarono come freelance accogliendo i clienti nella loro casa privata, con tutti i vantaggi e i rischi del caso. Da un lato, lo sfruttamento della prostituzione era un fenomeno quasi inesistente, visto che le donne lavoravano, per così dire, in regime libero professionale; dall’altro, una prostituta senza lenone è chiaramente una donna che fa un lavoro pericoloso, e non ha nessuno a cui rivolgersi in caso di problemi.
Il primo quartiere a luci rosse della storia medievale fu fondato nel 1285 in un sobborgo di Montpellier, col significativo nome di Carriera Calida (strada bollente): per legge, quella diventò l’unica zona della città in cui le prostitute avevano facoltà di operare liberamente, godendo della protezione del monarca. Nelle decadi successive, molte città europee seguirono l’esempio di Montpellier creando zone appositamente dedicate all’esercizio della prostituzione, con un boom di quartieri a luci rosse che si fece particolarmente evidente a metà Trecento, negli anni immediatamente successivi alla grande epidemia di peste. Una coincidenza che ha incuriosito gli storici, i quali hanno provato ad avanzare un paio di ipotesi: forse, la Morte Nera avevano reso vedove e orfane molte donne ancora giovani, le quali avevano tentato di reagire alla crisi economica vendendo l’unica cosa di valore che era rimasta loro? Ipotizzando che il numero di prostitute fosse cresciuto a livelli così alti da rendere necessaria una più rigida regolamentazione, si spiegherebbe in tal modo la decisione tranchant di richiuderle tutte quante in un’unica zona, più facilmente controllabile.
Eppure, non è questa l’unica spiegazione. Secondo alcuni storici, la decisione di ghettizzare le prostitute avrebbe anche potuto essere dettata da timori di tipo igienico-sanitario. Secondo questa interpretazione, dopo due anni di pestilenza, i cittadini europei avrebbero sviluppato un certo sdegno disgustato per tutte quelle situazioni che ritenevano essere facili occasioni di contagio – e una donna con un letto più affollato di un porto di mare rientrava sicuramente nella categoria. Effettivamente, nel corso del Quattrocento, le nuove ondate di peste si accompagnarono spesso a un inasprirsi delle sanzioni a carico delle prostitute che non operavano entro i limiti concessi loro per legge (nonché a una netta crescita degli episodi di violenza privata a danno delle malcapitate): una tendenza che divenne ancor più evidente nel corso del Cinquecento, con l’avvento della pericolosissima sifilide. In un contesto in cui il contagio faceva paura, il meretricio era evidentemente percepito come una attività significativamente poco igienica.
Di pari passo con la diffusione dei quartieri a luci rosse, si ebbe la diffusione dei bordelli propriamente detti. In un primo momento, essi fornirono innanzi tutto una soluzione abitativa alle prostitute che si trovavano improvvisamente costrette a traslocare in un’altra zona della città: entrando nel bordello, le donne siglavano un contratto che, tra le altre cose, garantiva loro vitto e alloggio in cambio di un canone mensile per l’affitto della camera.
Per molte prostitute, essere accolte in un bordello (meglio ancora se di buon livello) era paradossalmente percepito come un avanzamento di carriera. Innanzi tutto, le case chiuse più prestigiose offrivano ai loro avventori un’esperienza che mimava ironicamente i lussi della vita di corte: stanze tiepide e riccamente affrescate portavano nomi ispirati ai luoghi del ciclo arturiano; ampi saloni all’ingresso del locale permettevano alla clientela di intrattenersi con musica e giochi, prima di passare alla consumazione vera e propria. Una magra consolazione ma pur sempre una consolazione, per la giovane prostituta che poteva illudersi d’essere almeno in parte un’intrattenitrice, e non solamente un oggetto di piacere sessuale.
Ma il grande benefit del lavorare in un bordello derivava dall’esistenza di leggi cittadine (e, soprattutto, di regolamenti interni) che in teoria avrebbero dovuto tutelare tutte le donne lì impiegate. Per esempio, la stragrande maggioranza dei bordelli dichiarava di fare una prima scrematura di clienti in modo tale da tener lontani i minorenni, gli uomini sposati, i religiosi consacrati e gli individui noti per essere violenti. Naturalmente, una simile selezione esisteva solamente nel mondo dell’utopia; ma è pur vero che le proprietarie dei bordelli (quasi sempre donne, talvolta in società col marito) cercavano davvero tutelare la sicurezza delle loro impiegate… se non altro, per non perdere la loro fonte di reddito.
E anche le leggi statali a tutela delle prostitute legalmente riconosciute erano molto più rigide di quanto immagineremmo. Per citare un esempio tra i mille: a Genova, ogni cliente che avesse ferito una prostituta regolarmente registrata avrebbe dovuto sostenere le spese mediche, nonché pagarle un sussidio per i giorni di malattia; e ci sono evidenze storiche che mostrano come questa norma venisse effettivamente applicata per davvero.
Naturalmente, non è oro tutto quel che luccica (ammesso e non concesso che la prospettiva di lavorare in un bordello possa sembrarci anche solo vagamente luccicante). Sono note numerose denunce da parte di prostitute che lamentavano di essere state percosse e maltrattate dalle loro lenone, oppure costrette ad abortire, o forzate a ricevere i clienti anche durante le feste di precetto e nei momenti di indisposizione. Molto frequenti erano pure le lamentele riguardo a modifiche contrattuali unilaterali: capitava spesso che il canone d’affitto che le prostitute erano tenute a pagare aumentasse improvvisamente fino a raggiungere cifre vertiginose, motivate da un caro viveri non meglio precisato che apparentemente si faceva sentire solo all’interno del bordello.
Qual era la considerazione sociale di cui godevano le prostitute?
Probabilmente, leggermente superiore a quella di cui godono adesso: molti intellettuali (tra cui anche alcuni medici, e persino un ristretto numero di uomini di Chiesa) ritenevano che le meretrici fossero una presenza dolorosamente utile, necessaria a prevenire violenze sessuali e depravazioni di vario tipo.
Una idea che, significativamente, si riverberava anche nella considerazione sociale riservata ai clienti delle prostitute: con una certa indulgenza, si guardava a quegli scapoli (o a quegli uomini sposati in viaggio di lavoro) che di tanto in tanto visitavano un bordello per sfogare i loro bollenti spiriti. Una ferma condanna sociale emerge invece nei confronti di quegli uomini che, pur essendo sposati, preferivano alla moglie una prostituta: lo scandalo non risiedeva tanto nel tradimento coniugale, quanto più nell’ingordigia di chi, avendo già una donna a disposizione, si ostinava a sollazzarsi con accompagnatrici prezzolate. Naturalmente, peccando e inducendole e a peccare – e aggiungendo sofferenza inutile alla loro sofferenza.
Perché su questo non c’era dubbio alcuno: la vita di prostituta era un’esistenza grama, dalla quale le donne dovevano essere aiutate a liberarsi. È celebre l’affermazione di Innocenzo III per cui l’uomo che sposa una prostituta compie nei suoi confronti un così grande gesto di carità da fruttargli la remissione dei peccati; forse meno noto è il fatto che molte autorità laiche fossero evidentemente dello stesso parere. Nella Norimberga tardomedievale, ad esempio, veniva concessa la cittadinanza a tutti quegli immigrati che accettavano di sposare una prostituta, scegliendola tra le impiegate del bordello municipale; e un po’ in tutta Europa esistevano confraternite, fondazioni private o enti statali che stanziavano fondi a tutte quelle meretrici intenzionate a cambiare vita.
A partire dal XIII secolo, mentre le città si riempivano di bordelli, cominciarono a sorgere degli edifici che facevano loro da specchio. Quasi sempre gestiti dalla Chiesa, e significativamente posti sotto la protezione di santa Maria Maddalena, erano locali che, in varia forma, offrivano un riparo alle ex-prostitute. In alcuni casi, si trattava di ricoveri temporanei concepiti per accogliere per breve tempo le ragazze determinate a cambiare vita, spesso fornendo loro una sorta di avviamento al lavoro. In altri casi, si trattava di veri e propri conventi in cui le ex-prostitute (ivi comprese le prostitute ormai troppo anziane per esercitare) avevano modo di finire i loro giorni, conducendo una vita di penitenza e di preghiera.
Una vita che poteva anche essere molto lunga, tenuto conto che, in media, l’età pensionabile delle prostitute si aggirava attorno ai trent’anni: notoriamente, il momento dopo il quale una donna è talmente disfatta e fracida che nessun uomo sano di mente potrebbe trovarla desiderabile. Aehm.
Per approfondire: Katherine Harvey, The Fires of Lust. Sex in the Middle Ages, Reaktion Books, 2021. Una divertente lettura da ombrellone per chi è abituato a portarsi in spiaggia libri di saggistica, quantomeno: l’autrice è una docente universitaria che sfoggia bibliografia di livello accademico, ma il suo libro si legge come un romanzo!