Sono i soli esseri viventi che, grazie alla forza diabolica che scorre nelle loro vene, osano sfidare il gelo e le tormente che colpiscono le montagne nei più freddi mesi dell’anno. Talvolta, nelle notti buie di tempesta, i valligiani li possono scorgere di lontano, mentre solcano i cieli irradiando le pareti nere dei monti con le gemme luminose che hanno incastonate nella fronte; e quando il sole si riflette sulle cime facendone risplendere i ghiacciai, è probabile che in realtà a brillare sotto quei raggi siano proprio i fulgidi brillanti che compongono la corazza d’un drago.
Sono loro “i signori della montagna”, gli unici in grado di vivere agevolmente sulle vette; e nel definirli tali mi rifaccio alla poetica definizione che ne diede Maria Savi-Lopez, letterata appassionata di folklore che, a fine Ottocento, ebbe il grande merito di censire e raccogliere una infinità di leggende provenienti dalle zone dell’arco alpino (e non solo).
Sono stati proprio gli scritti di Savi-Lopez a guidare la creatività di Babacio, ispirandole un dettaglio che la mia partner in crime ha fatto indossare al pupazzo ispirato a Aymonet. Nel dare un corpicino di panno allo stregone vodese di cui ieri abbiamo raccontato la storia, Babacio s’è divertita a fargli indossare un amuleto portafortuna che era ricercatissimo nelle Alpi di Vaud. E cioè, gli ha donato niente meno che un occhio di vouivre, notoriamente prezioso per “rischiarare il cammino… un po’ come la retta via ritrovata dal nostro stregone pentito”, per citare quanto la mia socia scriveva sul suo blog.
Ma cos’è una vouivre?
Per rifarci appunto appunto alla descrizione offertaci a fine Ottocento da Maria Savi-Lopez, le vouivres sono creature che vivono esclusivamente nelle Alpi di Vaud. “Di una grossezza e di una lunghezza che mettono spavento, sono alate come i draghi” e “hanno un occhio solo, specie di fulgido brillante, che splende nella notte sulle montagne come una palla di fuoco, o una stella, quando volano da cima a cima”. Queste serpi gigantesche “si nascondono nei tristi boschi di larici o stringonsi al tronco enorme dei faggi, aspettando i pastori, che saranno affascinati dall’infernale splendore che esse hanno negli occhi” (e che – beninteso – sarà anche l’ultima cosa che potranno vedere prima di morire male, predati dall’animale).
Maria Savi Lopez prosegue nel raccontare che “al pari di tutto il misterioso popolo fantastico e notturno delle Alpi, le voivres si riuni[scono] pel ballo in certe valli deserte; e difficilmente la più fervida fantasia riesce ad immaginare il quadro formato da quei draghi colossali, tra il fulgore delle gemme ch’essi porta[no], mentre manda[no] fasci di scintille tra l’ombre della notte, in mezzo alle nude rupi delle Alpi o sui campi di neve scintillante”.
La letale maestosità di queste creature, tuttavia, non era tale da intimorire i valligiani più coraggiosi (…o masochisti?). Tra la popolazione del luogo, assurgeva al rango di eroe chiunque fosse riuscito ad accaparrarsi una di quelle gemme luminose che le voivres avevano indosso.
Derubare un drago non è esattamente la cosa più facile di questo mondo, mi direte, ma va anche ammesso che le voivres non facevano un granché per ostacolare i borseggiatori: come ci spiega Maria Savi-Lopez, questi bestioni “vanno volentieri a bagnarsi nei laghi e nei torrenti, ma prima di immergersi nell’acqua lasciano sulla sponda l’occhio di fuoco che le illumina nel viaggio notturno; e dicesi che gli alpigiani, allettati dall’immenso valore di quei brillanti, si adoperavano onde poterli involare quando le serpi scendevano nell’acqua”. E il folklore si trasforma in leggenda eziologica nel momento in cui l’autrice ci spiega che il comune svizzero di Vouvry fu così ribattezzato in onore del più celebre tra tutti i suoi cittadini: un coraggioso dragonslayer che, in un momento imprecisato del Medioevo, riuscì a fare sua non solamente la gemma, ma addirittura una vouivre tutta intera.
Verrebbe da dire che non ci sono più i draghi di una volta: quando mai è stato così facile appropriarsi delle parti anatomiche di un mostro?
In realtà, qualcuno potrebbe chiosare che le vouivres sono evidentemente draghi con uno spiccato senso pratico, che sanno scegliere bene le battaglie che val la pena combattere. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, quello delle gemme incastonate nella testa dei draghi è un topos antichissimo e attestato in molte zone d’Europa: fin dall’Antica Grecia, gli autori ci descrivono l’irresistibile bellezza di queste pietre preziose e la bramosia crudele con cui gli uomini vi si approcciano.
Erodoto, per esempio, racconta di come i draghi abbiano, all’interno della pupilla, una gemma fiammeggiante. Ovviamente, questa pietra preziosa è di incommensurabile valore; tant’è vero che in India, dove i draghi sono numerosi, esiste un business gestito da dragonslayer professionisti che si occupano di cercarla e rivenderla a caro prezzo.
Va da sé: per recuperare la pietra, bisogna cavare gli occhi ai draghi; gli Indiani gestiscono la cosa avvalendosi della magia, e specificamente ricamando simboli magici su un grosso telone rosso che sventolano di fronte alla tana del bestio. Un po’ come un toro di fronte al torero, il drago allunga il collo e si sporge fuori dalla tana per vedere che roba sia ‘sto fazzolettone che gli stanno sventolando in faccia. Ma ahilui: quando il suo sguardo si posa sui simboli magici che sono stati ricamati sulla stoffa, il loro potere lo avvince facendolo sprofondare in poco tempo in un sonno profondissimo. Un sonno che gli sarà letale: ché i dragonslayer, a questo punto, provvedono a decapitare il mostro e a raccogliere tutte le pietre preziose contenute nella sua testa.
Sì: perché, a quanto pare, le teste dei draghi sono piene di pietre preziose. Sotaco, autore greco del III secolo a.C., cita ad esempio la draconite, una gemma d’un delicato bianco traslucido che si trova all’interno del cervello del drago. Preziosa non solo per la sua rarità, ma anche per le sue importanti proprietà magiche (fa fisicamente sparire dalla faccia della terra tutti i nemici di chi la indossa sul suo braccio sinistro), la draconite ha però un difetto: si consuma gradualmente man mano che il drago invecchia, e negli ultimi giorni di vita dell’animale viene completamente riassorbita dal cervello. Va da sé che l’unico modo per procurarsela è uccidere il drago, e possibilmente quando è nel pieno delle forze: la tecnica di caccia è grossomodo sulle stesse linee di quella adottata dagli Indiani, con l’unica differenza che in questo caso si preferisce far ricorso alle droghe. Vale a dire: i cacciatori di draconite possiedono delle sostanze che, se accostate e fatte respirare al drago, finiscono col sedarlo profondamente. E nel momento in cui la povera bestia è addormentata e inerme: ecco i suoi cacciatori ucciderla con un colpo netto.
Attraversando indenne tutto il Tardoantico e il Medioevo, la leggenda delle pietre preziose che crescono nella testa dei draghi sopravvive fino alle soglie dell’età moderna. Uno degli ultimi autori a descrivercela come vera è, sul finire del Quattrocento, fra’ Mauro Camaldolese, che ci parla di innumerevoli pietre preziose incastonate nelle ossa che compongono il teschio dei draghi. In questo caso, le gemme vengono ricercate in virtù delle loro proprietà medicamentose (sono infatti in grado di curare anche le malattie di fronte ai quali i medici sono inermi); e, a quanto pare, la morte del drago non ne compromette l’efficacia. Sicché, la gente sana di mente aspetta che il drago muoia di morte naturale la gente ritiene che il miglior modo per procedere sia quello di far morire il drago in un incendio.
Dunque, provvede a innescare un comodo incendio boschivo in quelle montagne che sono note per essere abitate dai draghi. I bestioni (che notoriamente hanno un brutto rapporto con il fuoco e soprattutto non sono certo in grado di volare via da un bosco in fiamme. Aehm), vengono circondati dal fitto fumo e lentamente muoiono d’asfissia. Quando le piogge arriveranno a spegnere l’incendio, i cacciatori di draghi non avranno che da battere la zona alla ricerca dei cadaveri: recuperare le preziose gemme sarà un gioco da ragazzi.
E arriviamo così, con un salto in avanti di qualche secolo, alla leggenda svizzera citata da Maria Savi-Lopez con cui s’è aperto questo excursus storico.
Col senno di poi, verrebbe da ironizzare e dire che le voivres alpine col loro occhio rimovibile si erano evidentemente evolute in modo tale da non compromettere la sopravvivenza della specie. Se sei perseguitato da bande di piromani violenti che t’ammazzano a suon di droghe e robe magiche, forse forse cavarsi l’occhio e lasciarli fare è il modo migliore per vivere in santa pace.
Fra l’altro, ti risparmi gli incendi boschivi. Magra consolazione, ma pur sempre una consolazione.
Per approfondire: Leggende delle Alpi di Maria Savi-Lopez e A Lapidary of Sacred Stones di Claude Lecouteux