Correva l’anno 1717 quando una certa Clara Ribolletta, già prigioniera nelle carceri di Torino per reati da lei commessi, compariva davanti ai giudici per deporre circa alcune attività criminali di cui era venuta a conoscenza. Di fronte agli sgomenti magistrati, che la interrogavano su quali fossero stati i processi mentali che l’avevano improvvisamente spinta a denunciare per stregoneria tutti i suoi più cari affetti, la sua famiglia allargata e una significativa porzione dei suoi conoscenti, la detenuta rispose con apprezzabile franchezza ammettendo d’essersi lasciata ispirare da un fatto di cronaca nera di cui conservava memoria: «ho inteso», disse, in riferimento a un episodio che aveva fatto scalpore qualche anno prima, «che vi era un huomo, nel carcere, che haveva fatto una statua contro il Re, et che gli haveva messo una Resca», cioè una lisca, «et che detto huomo il re l’haveva fatto squarttare à Coda di Cavalli, et che haveva premiato e ricompensato un altro huomo che haveva rivelato la fabrica di tal statua». Quello di Clara, insomma, era un ragionamento lineare, esposto ai giudici con notevole trasparenza: già in passato, era capitato che alcuni carcerati portassero alla luce sordide storie di stregoneria, tramite delazioni che si erano poi rivelate vere e, soprattutto, piene di valore. E se in passato il re aveva mostrato clemenza nei confronti di quei sudditi fedeli che avevano scelto di fare la cosa giusta, anche Clara nutriva la ragionevole speranza di poter beneficiare di una grazia o comunque d’un alleggerimento delle pene.
Clara non ebbe fortuna e non fu creduta. Ma, diciamolo pure: avrebbe avuto le sue buone ragioni per sperare.
L’episodio cui si riferiva era assolutamente vero: nel 1709, un certo Antonio Barbero, detenuto per reati minori nelle galere senatoriali di Torino, aveva trovato il modo di comunicare alle guardie carcerarie d’avere la certezza assoluta di star spartendo la cella con un potentissimo mago, che stava cospirando contro la famiglia reale facendo ricorso alle arti occulte. Il mago in questione era Giovanni Boccalaro, sarto ventisettenne nativo di Caselle, che già da qualche tempo stava scontando la sua pena dopo esser stato giudicato colpevole di concorso in omicidio per aver ucciso, assieme ad altri, un esattore delle tasse. Ebbene: non pago d’aver assassinato un funzionario pubblico, reo soltanto di star svolgendo le mansioni che gli erano state affidate da Vittorio Amedeo II, il perfido Boccalaro s’era messo in testa di «formare una statua di cera rappresentante l’effigie e persona della medesima Regia Altezza et indi quella consumare ad effetto di far morire detta Altezza Reale».
O, quantomeno, così disse Antonio Barbero, dichiarando di aver aver assistito coi suoi vivi occhi ai preparativi per il rito oscuro, e di aver accolto personalmente le confidenze del mago assassino. Barbero supplicò le guardie carcerarie di non ignorare questa sua soffiata e di farla giungere alle autorità competenti; e, vista la delicatezza della materia, le guardie (ancorché perplesse) fecero come era stato chiesto loro.
Scoprendo, e forse non senza una certa sorpresa, che il Senato del regno aveva preso molto sul serio quelle parole, accogliendo la notizia con vero allarme.
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Fu il presidente del Senato (nientemeno!) a calarsi nelle carceri di Torino per interrogare personalmente il delatore. Al quale non parve vero di poter raccontare la sua storia a un così illustre ascoltatore: ripeté convintamente che Boccalaro l’omicida gli aveva confidato di volersi «far portare della cera per formare una statua», da utilizzare appunto per assassinare il re attraverso l’uso delle arti magiche. Aggiunse però che il mago aveva cambiato idea in corso d’opera, temendo che, se una delle guardie avesse dovuto trovare della cera all’interno della cella, la cosa sarebbe parsa eccessivamente sospetta. Il mago s’era così risoluto a passare al piano B, e cioè quello di utilizzare degli stracci d’uso comune al fine di creare una bamboletta di tela «la quale avrebbe fatto lo stesso effetto come che fosse stata di cera, con la sola differenza che quella di cera la faceva bruggiare per mezzo di un bambace che gli metteva insieme con un ago e quella di tella dopo averla battezzata e messa nell’acqua congiunta con qualche cosa d’altro che lui sapeva». Tela o cera, poco cambiava: stando a quanto Barbero dichiarò d’essersi sentito spiegare dal suo compagno di cella, «faceva l’una e l’altra di questa statua lo stesso effetto, cioè facevano morire la persona che rappresentava detta statua qual persona doveva essere quella di S.A.R.». E se qualcuno si stesse domandando quale fosse il movente che spingeva il mago a un così sordido piano: beh, le ragioni erano molto utilitaristiche. Stando a quanto si legge nella deposizione del suo accusatore, «ciò, detto Boccalaro faceva per far venire indulto», come effettivamente spesso capitava nel momento in cui un nuovo re saliva al trono, nella speranza di «sortire di priggione». Un regicidio orchestrato per il più vile dei motivi!
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Difficile, francamente, immaginare che Boccalaro stesse davvero tentando di uccidere il re tramite la magia e, che, soprattutto, si fosse abbandonato a incaute confidenze con i suoi compagni di carcere. Semmai, il vero problema di Boccalaro era quello esattamente opposto: in carcere non aveva confidenti, né amici, né un minimo di rapporti sociali. Come emerse nel corso dell’inchiesta, il giovane sarto aveva sempre mostrato diffidenza e disprezzo nei confronti degli altri galeotti, che considerava «tutti delle canalie» e che guardava con alterigia, ritenendoli feccia della società. Racchiuso in un mutismo ostentato e pieno di sdegno, Boccalaro aveva come unici interlocutori le guardie carcerarie: gente dabbene con cui non disdegnava di scambiare qualche parola di tanto in tanto. Col senno di poi, non una grande idea: diciamo che quello di Boccalaro non era esattamente quel tipo di atteggiamento che favorisce una pacifica convivenza con una banda di criminali con cui, volenti o nolenti, ci si trova costretti a dover spartire il resto dei propri giorni.
Il presidente del Senato del regno non sembrò prestare attenzione a questo trascurabile dettaglio.
Pendendo dalle labbra di Barbero, lo ringraziò per la sua testimonianza, gli ordinò di vigilare e di spiare tutti i movimenti di Boccalaro e di informare subitaneamente le autorità nel caso in cui la vicenda avesse avuto nuovi sviluppi.
E la vicenda ne ebbe, eccome: mettendo da parte piccoli cenci fatti a brandelli e materiale per l’imbottitura, in poco tempo Boccalaro riuscì a creare la sua bambola voodoo (termine ovviamente improprio, ma famo a capisse). Era «in forma di quelle che fanno le piccole figliuole, sebben non ha alcun ornamento, composta di tella nuova di larghezza poco meno di un palmo e di grossezza dalle spalle alle coscie di un dito ordinario della mano, col capo di grossezza poco meno di una noce, con la marca delle ciglia et occhi di color nero; naso rilevato con le brachia, membro virile e due gambe tutta cucita di filo bianco».
Naturalmente, Barbero allertò le guardie carcerarie, che avvertirono il Senato, che ordinò una perquisizione delle celle (e forse sarà superfluo sottolineare che si trattava di grandi stanzoni, all’interno dei quali convivevano un ampio numero di detenuti).
Pensate un po’: la bamboletta di tela fu trovata per davvero, esattamente come era stata descritta dal solerte delatore. Naturalmente, Boccalaro disse non saperne nulla, di non aver mai visto prima in vita sua quel sordido feticcio e di essere il capro espiatorio di una perfida macchinazione ordita dai suoi compagni di cella «per essere graditi da loro Signorie». Ma a poco valsero le sue difese, anche perché il corpo del reato era stato rinvenuto per davvero tra i suoi effetti personali; e, tra l’altro, sarebbe anche interessante notare a margine che, in quella cella, doveva esserci realmente qualcheduno che aveva una discreta conoscenza delle miglior tecniche da utilizzarsi per uccidere qualcuno attraverso la magia per effige. Era abbastanza raro che nei processi per stregoneria le imputate venissero accusate di voler battezzare le “bambole voodoo” da utilizzare per infliggere sofferenze alle loro vittime (anzi: semmai, si calcava la mano sulla somiglianza fisica tra il feticcio e la persona da colpire; un dettaglio che, non a caso, ancor oggi si trova nell’immaginario collettivo).
Per contro, il battesimo del fantoccio era un elemento ricorrente nei rituali descritti sui testi di magia cerimoniale, decisamente meno noti al grande pubblico. E quest’ultimo è un dettaglio intrigante, che spinge lo storico a domandarsi chi fosse, in quel carcere, ad aver avuto modo di sfogliare quei libroni: dopotutto, non esattamente quel tipo di best-seller leggerino con cui si dilettava la microcriminalità sabauda nella Torino di inizio Settecento. Eppure.
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Tra la fine del 1709 e le prime settimane del 1710, per tre volte Boccalaro fu sottoposto a interrogatorio; e per tre volte continuò a proclamare la sua innocenza, accusando semmai i suoi compagni di cella di averlo incastrato nella speranza di ottenere un guadagno personale. Ma, per tre volte, non fu creduto (e, in fin dei conti, sarà bene ricordare che il nostro amico non era esattamente un giglio di purezza, tenuto conto del fatto che, pochi anni prima, un omicidio l’aveva commesso per davvero, oltretutto uccidendo un dipendente pubblico nell’esercizio delle sue funzioni. Insomma, non era esattamente quel tipo di persona che ispirava fiducia e benevolenza).
I magistrati non credettero alle sue professioni di innocenza; e, del resto, se escludiamo le sue generiche accuse di complotto, Boccalaro non fu in grado di fornire una spiegazione convincente sulla genesi di quell’inquietante feticcio, che qualcuno doveva pur aver creato in quella cella. Fu condannato a una morte esemplare, con una durezza inconsueta per i tribunali sabaudi di quel tempo: il 30 gennaio 1710, l’imputato fu costretto a «far una pubblica amenda con la torchia accesa alla mano, scalzo ed in camiggia» di fronte al popolo riunito nell’attuale piazza Palazzo di Città, «e indi, precedente l’applicazione delle tenaglie infuocate nei luoghi soliti, ad esser publicamente […] impiccato per la gola sinché l’anima sia separata dal corpo, mandando che il corpo suo, fatto cadavere, debba mettersi in quarti. Quelli affigere in luogo eminente alle quattro porte della città et la testa sopra una colonna da ergersi all’infame sua memoria e dei suoi figlioli. Gettarsi il resto del suo cadavere alle fiamme e spargere al vento le ceneri».
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Perché è vero che Torino non è una città magica (o quantomeno, non nei termini in cui la descrive la fake news anni ’70 che La Stampa e il FAI hanno contribuito a smentire in questi giorni); ma è pur vero che ce ne sarebbero parecchie, di cose interessanti da raccontare a chi avesse la curiosità di approfondire i (veri) legami tra la storia della magia e quella del Ducato di Savoia.
Guarda un po’ i casi della vita: è proprio questo il tema che, dietro le quinte, in questo periodo mi sta tenendo occupata al fianco di Jenny Tour, l’antropologa esperta nel folklore delle valli valdesi che sta dietro al progetto Babacio. Non è il momento per fare spoiler, che sarebbero decisamente troppo prematuri… ma, visto il grande interesse che è sorto in questi giorni, a me e alla mia collega è parso proprio che questo possa essere il momento giusto per fare quattro chiacchiere in compagnia alla scoperta dei maghi e delle streghe torinesi del passato. Quelli veri.
E infatti, lo faremo in una chiacchierata in diretta su Facebook: mercoledì 5, alle ore 20, sulla mia pagina Facebook. C’è chi, cenando, guarda il telegiornale: ecco, noi vi offriamo un tg d’antan!
Per approfondire:
Sabina Loriga, “Un secreto per far morire la persona del Re. Magia e protezione del Piemonte del ‘700”, Quaderni Storici, vol. 18, no. 53 (2), 1983, pp. 529–52
Ci chiamavano streghe. Incontri tra montani: Atti del Convegno, Chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne, Ottobre 2008
Marco Carassi (a cura di), Un viaggio nella paura. Alla scoperta di testimonianze storiche sulla più terribile delle emozioni (sussidio didattico a cura dell’Archivio di Stato di Torino; Hapax Edizioni, 2016)
𝕬𝖗𝖈𝖆𝖉𝖎𝖔🌀𝕷𝖚𝖒𝖊
il 1717 è però un anno cruciale che cambierà nelle sue conseguenze il volto dell’intera Europa ed anche di Torino. Credo sia a seguito di questo evento che è davvero scaturita la nomea esoterica della capitale sabauda, e le cui tracce sono visibilissime a tutt”oggi
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