Yakinthos, il santo patrono degli amori complicati

Un giovanotto di vent’anni col corpo consumato dagli stenti che si lascia morir di fame sul pavimento d’una stalla non è esattamente quel tipo di eroe agiografico che mi verrebbe in mente di accostare al contesto amoroso, ma ehi: evidentemente, mica tutti hanno i miei stessi gusti. E fu così che, agli occhi della Chiesa ortodossa, san Yakinthos divenne l’improbabile santo patrono degli innamorati: un personaggio tale da poter rivaleggiare (almeno sulla carta) con san Valentino. All’atto pratico, non mi risulta che siano poi moltissimi i Greci che sono al corrente di questo patronato: però, la storiella di san Yakinthos è interessante per più d’una ragione, e dunque eccomi qui a raccontarla.

A quanto narrano le agiografie, Yakinthos era evidentemente un enfant prodige, visto che alla tenera età di vent’anni era già diventato il ciambellano dell’imperatore Traiano. Altre versioni preferiscono presentarcelo come coppiere, e forse quello è già un po’ meno improbabile. Siamo alla fine del I secolo, agli albori d’una tragica persecuzione anticristiana che (dice l’agiografia) si sarebbe aperta di lì a poco e che in realtà non ci fu mai (dice la Storia con la S maiuscola): nel senso che Traiano non diede mai l’ordine di portare avanti una caccia su larga scala, con persecuzioni casa per casa alla ricerca di sudditi infedeli; sotto il regno di Traiano si tennero sì i primi processi contro i cristiani, ma le autorità procedettero esclusivamente dietro la presentazione di una denuncia e senza rendersi parte attiva nella ricerca.
Insomma, una situazione un po’ meno tragica rispetto a come ce la dipinge l’agiografia, che ci parla invece di un giovane Yakinthos che freme per lo sdegno alla vista dello scempio cui sono sottoposti i suoi correligionari: anche il nostro amico, infatti, è cristiano, sebbene non abbia mai sentito l’esigenza di professare pubblicamente la sua fede; ma quando il suo datore di lavoro indice una persecuzione contro i suoi fratelli in Cristo, il giovane coppiere sente di non poter più tacere. Si denuncia all’imperatore, professa apertamente la sua fede e abbraccia con coraggio le conseguenze del suo gesto: e cioè la morte, prevedibilmente.  

Narra l’agiografo che l’imperatore fu particolarmente addolorato nel venire a sapere che quel giovanotto di belle speranze era un aspirante suicida che non mostrava la minima intenzione di desistere dai suoi propositi. Traiano fu genuinamente dispiaciuto al pensiero di dover rinunciare al quel valido collaboratore: cercò di portarlo a più miti consigli, assicurandogli il suo perdono e blandendolo con promesse di carriera, ma l’eroico Yakinthos fu irremovibile e a ognuna di queste tentazioni oppose un netto “no”. Mentre si dipanavano questi tragici fatti, Traiano si trovava in compagnia dei suoi più stretti funzionari nella cittadina di Cesarea, in Cappadocia (non chiedetemi a far cosa perché faticherei a inventarmi una risposta, ma l’agiografo sembra molto convinto della cosa). Per piegare una volta per tutte la volontà di quel giovanotto, Traiano pensò bene di prendere Yakinthos e di farlo richiudere in una stalla, sorvegliata notte e giorno dai suoi uomini: il prigioniero ricevette cibo e acqua in quantità, ma fin da subito fu messo a parte del fatto che le carni profumate che gli venivano consegnate due volte al giorno provenivano da animali che erano stati immolati agli dèi romani. Ma certo Yakinthos non sarebbe stato così folle da rifiutare l’unico cibo a cui aveva accesso, pur di non accostarsi ad alimenti che erano stati sacrificati in un rito pagano…?

La risposta, a quanto pare, fu un (non) sorprendente “sì”: per quaranta giorni e quaranta notti, Yakinthos rifiutò ostinatamente il cibo. I soldati lo trovarono morto all’alba del quarantunesimo mattino, quando entrarono nella sua cella per portargli l’ennesima porzione di carne: Yakinthos aveva preferito lasciarsi morire di stenti pur di non dover tradire il suo amore per Gesù.

E diciamo pure che questo è l’unico addentellato con cui si potrebbe riuscire a far entrare l’elemento amoroso all’interno della storia di Yakinthos (e non senza dover attingere a una certa elasticità mentale). In effetti, dovettero passare esattamente 1900 anni prima che san Yakinthos venisse accostato al dominio dell’amore: si trattò di un’operazione culturale studiata a tavolino da Loudovikos d’Anogia, cantautore greco di origini cretesi da sempre molto legato alle tradizioni e all’unicità del suo territorio.

Infastidito dalla diffusione endemica della festa di san Valentino (importata dagli USA, totalmente estranea al folklore greco e tuttavia sempre più amata dai giovani locali), il musicista sentì l’esigenza di creare ad arte una ricorrenza “made in Greece” che potesse contrapporsi a quella del 14 febbraio. Ricorreva quell’anno il diciannovesimo centenario della morte del nostro san Yakinthos (consumatasi il 3 luglio dell’anno 98, stando alla tradizione) e la Chiesa di Cesarea aveva organizzato grandi festeggiamenti in onore del giovane martire: Loudovikos domandò alle gerarchie ecclesiastiche se non fosse possibile proporlo alle nuove generazioni come un esempio d’amore tragico così totalizzante da far preferire la morte al tradimento… e, nella persona del patriarca Bartolomeo, la Chiesa ortodossa, affascinata, disse sì.

In nessuno dei testi da me consultati per la stesura di questo articolo riesco a trovare un riferimento esplicito a quella che, secondo me, è la considerazione più ovvia e più banale con cui commentare questa decisione. A me sembra piuttosto evidente che, nello scegliere Yakinthos come santo patrono dell’amore, Loudovikos d’Anogia stesse in realtà facendo un calco su un Giacinto ben più adatto al ruolo: nella mitologia classica, il bel Giacinto era il ragazzo che amava il dio Apollo d’un amore infinito e totalizzante (e ricambiato con pari intensità). Geloso dell’idillio d’amore tra i due, Zefiro (che a sua volta aveva provato più volte a conquistare il bel Giacinto, ma inutilmente) decise un giorno che, se non avrebbe potuto far suo l’oggetto del suo desiderio, avrebbe quantomeno potuto sottrarlo al suo rivale. E così, con un soffio di vento, deviò il tragitto di un giavellotto che Apollo aveva scagliato nel corso di un allenamento col suo amato: Giacinto fu trafitto in pieno capo, e morì sul colpo. Ad Apollo non restò che gridare tutta la sua disperazione sul corpo esanime del ragazzino: le sue lacrime divine si mescolarono alle gocce di sangue che s’allargavano sul prato, trasformandosi in quel fiore dal colore scuro che oggigiorno conosciamo, appunto, come giacinto.

A me, personalmente, sembra abbastanza palese che Loudovikos d’Anogia abbia voluto fare una crasi tra i due personaggi nel proporre san Yakinthos come patrono degli innamorati e nel dipingerlo insistentemente come un giovanotto andato incontro a morte incolpevole in virtù dell’amore che provava per Dio (eddai. Cioè, a me pare proprio ovvio). Ma evidentemente non sembra esserci troppo interesse a soffermarsi sugli aspetti filologici di questa neonata forma di folklore, e dunque andiamo avanti con il prosieguo della nostra storia… nella quale il cantautore cretese comincia a sognare in grande.

Sì, perché – messosi a capo di un’organizzazione no-profit che mirava a diffondere il culto di san Yakinthos nell’isola di Creta – Loudovikos d’Anogia fece pressioni affinché una piccola chiesetta dedicata a san Yakinthos potesse essere edificata sulle vette del monte Ida, giusto in tempo per i festeggiamenti per il diciannovesimo centenario del suo martirio.

L’idea piacque molto al vescovo locale, che raggranellò i denari necessari per far partire i lavori di costruzione: strategicamente, si scelse di plasmare la chiesa nelle forme di un mitato cretese, la tradizionale costruzione in cui, fin dai tempi antichi, i pastori riparavano per la notte le loro greggi nei mesi in cui le portavano al pascolo in montagna. L’allusione, suggestiva, rimanda chiaramente alla stalla in cui Yakinthos fu richiuso e in cui andò incontro alla morte: i turisti che ogni anno raggiungono la chiesa sul monte Ida non dovrebbero faticare troppo, se volessero cullarsi nell’idea di trovarsi all’interno “di quella stessa stalla” in cui il giovane si consumò per amore. Chiaramente non è vero niente e la chiesetta è più giovane di me, essendo stata edificata giustappunto nel 1998 (e oltretutto sappiamo bene che Yakinthos morì da tutt’altra parte); ma la sua architettura suggestiva, arroccata in mezzo ai monti, la rende una meta d’incredibile fascino.

Ed è proprio all’interno di quella chiesetta che, secondo la neonata tradizione, si concentra (o si dovrebbe concentrare) il culto di san Yakinthos in veste di patrono degli innamorati. Loudovikos d’Anogia (che ogni anno organizza a Creta il festival di Yakinthia, ricco di attività artistiche e culturali dedicate al tema dell’amore) ha anche un’idea molto precisa del modo in cui, a suo giudizio, sarebbe opportuno fruire della storia di san Yakinthos e accostarsi alla figura del martire:

La mia visione di san Yakinthos può essere sintetizzata in tre parole: il santo delle emozioni, della speranza e del ricordo. Ed è questo il motivo per cui dico sempre: quando giungi al cospetto di san Yakinthos, accendi due candele – una per il ricordo di ciò che è stato, e uno per la speranza di ciò che sarà. Ogni volta che sosto in quel luogo di preghiera, mi sento autorizzato a ricordare un grande amore che ho perduto; ma, al tempo stesso, mi sento anche legittimato a pregare per poter essere nuovamente visitato da questa emozione.
Quindi, per come la vedo io, san Yakinthos non è banalmente “il santo dell’amore”. In senso più ampio, io lo considero il santo del ricordo, il patrono delle emozioni che preghiamo di poter provare ancora.

Insomma: un san Valentino per cuori spezzati che non vogliono però rinunciare alla speranza; dopotutto, c’è una certa dose di poesia in questo patronato dolceamaro. Non stupisce venire a sapere che (nonostante le origini molto recenti di questo “culto” e nonostante la sua genesi studiata a tavolino) saranno molti i pellegrini che oggi si recheranno a pregare nella chiesetta di Yakinthos, piangendo per ciò che hanno perduto e sospirando per ciò che forse già credono di intravvedere all’orizzonte. Qualcuno potrebbe persino arrivare a dire che Yakinthos è il patrono perfetto per gli uomini del terzo millennio e per i loro amori complessi: talvolta sofferti, non privi di chiaroscuri, e spesso gravati dai rimpianti e dagli “e se…?”.

5 risposte a "Yakinthos, il santo patrono degli amori complicati"

  1. Avatar di Ago86

    Ago86

    “Qualcuno potrebbe persino arrivare a dire che Yakinthos è il patrono perfetto per gli uomini del terzo millennio e per i loro amori complessi” sì, d’accordo. Ma cosa c’entra tutto questo con la religione? Col supermarket del religioso sì, perché è solo un modo per mettere le proprie esigenze al posto che spetta a Dio.

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Beh… se la vogliamo vedere così, però, è pieno il martirologio di santi patroni della qualunque, invocati per esigenze anche molto più specifiche. Sotto questo punto di vista, sostenere che pregare sant’Antonio quando perdi il mazzo di chiavi sia una cosa che ha a che fare con la religione e che non mette al primo posto la tua personalissima esigenza di trovare il mazzo di chiavi… ‘nsomma… 😅 Però s’è sempre fatto, ed è probabilmente uno dei punti di forza del cattolicesimo (almeno stando a quanto dicono alcuni protestanti che soffrono un po’ del fatto di non avere questa possibilità).

      Questo è un patronato creato a tavolino da un artista e solo successivamente approvato dalla chiesa locale, quindi forse ci fa strano perché segue un percorso diverso dal solito, ma onestamente non mi sembra un caso molto isolato…

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        1. Avatar di Lucia Graziano

          Lucia Graziano

          Beh, in questo caso è stato un patronato imposto dall’alto fino a un certo punto, alla fine a proporlo è stato un cantautore (per dire: non è che abbiano istituito il patronato per decreto legge, toh 😂). A livello personale ovviamente può piacere o non piacere, ma in prospettiva agiologica io lo vedo come un caso sicuramente particolare… ma neanche troppo anomalo. Alla fine, qui abbiamo uno che ha avuto l’idea, una chiesa locale che l’ha assecondata ritenendola valida e un popolo che ha spontaneamente aderito al culto. Probabilmente l’unica ragione per cui fa strano è che, a differenza di quanto accade di solito in questi casi, l’associazione tra santo e patronato ha una base colta che, implicitamente, si ispira alla mitologia classica, ma a parte questo non mi pare che il meccanismo sia poi diverso rispetto a quanto accadeva nel Medioevo, quando *davvero* molte devozioni ai santi hanno sostituito quelle tributate alle divinità precristiane. L’unica differenza è che in questo caso ovviamente è successo tutto a fine anni ’90… ma c’è un limite?

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        2. Avatar di Whitewolf

          Whitewolf

          Mi intrometto e pongo anche il mio punto di vista (da profano, ma laureando magistrale, quindi con un’infarinatura):

          io ho notato come quasi tutti i giorni e a partire dalla cellula minima culturale, cioè il singolo, si creino piccole “ipocrisie culturali” (non mi piace come termine ma credo sia un buon modo per descrivere la tua critica). Piccoli rituali che ci fanno stare bene vengono riconnessi alla cultura e/o alla religione.

          Il caso più eclatante è il Natale e la Pasqua, dove spesso si intromette il consumismo, e che giustifica situazioni di spendaccioneria incredibili (e in passato mi sembra di ricordare anche abbuffate).

          Questo però significa che bisogna guardare ogni aspetto della cultura reso consumistico con sospetto? Credo di no: alla fine i soldi e la ricchezza vanno accettati come dei doni…e non mi sembra che questo cantautore con quei soldi ci abbia pagato della cocaina o dei brogli elettorali, quindi prendiamolo come un “falso storico” che però chissà che storie ha contribuito a creare…

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