Il macinino del demonio: una fiaba un po’ marxista

C’erano una volta (e neanche troppo tempo fa, visto che questa storia è ambientata ai tempi in cui i nostri nonni erano piccini) due fratelli che vivevano a Creta, in condizioni di totale disparità economica.

Alla morte del padre, il fratello maggiore aveva ereditato un vasto numero di campi che aveva fin da subito sfruttato intensivamente: coi guadagni ricavati dai primi raccolti, aveva acquistato gli appezzamenti confinanti, e così facendo aveva accumulato negli anni diversi ettari di terreno di cui adesso faceva uso come un vero e proprio latifondista. Il fratello minore, invece, era stato felice di tenere per sé solamente la casa di famiglia e la piccola lira che suonava spesso il suo babbo: e passava tutte le giornate a strimpellare allegre canzonette per allietare la gente che passava, e senza voler da loro alcuna ricompensa per quel servizio di animazione pubblica.

La gente del paese era a dir poco perplessa.

Le canzonette in piazza erano senza dubbio gradevoli, e tutti si beavano della maestria di quel musico scanzonato (senza per questo avere la voglia o il modo di remunerarlo per quel servizio: dopotutto, nessuno gli aveva chiesto di farlo!). Ma era impossibile non notare che il cantore era ridotto a pelle e ossa, aveva abiti lisi che non riusciva a sostituire e abitava in una casetta che avrebbe visibilmente avuto bisogno di un radicale intervento di manutenzione. Le sue condizioni di vita stridevano con quelle agiatissime di suo fratello, che era ormai diventato uno dei cittadini più abbienti di tutta Creta (se non forse di tutta la Grecia addirittura!). Un milionario così ricco da poter scialare i suoi soldi in lussi inutili avrebbe ben potuto privarsi di un po’ del suo denaro per dare una mano a un parente stretto, che senza dubbio aveva la colpa di bighellonare da mattina a sera ma altrettanto certamente aveva bisogno di un aiuto concreto e urgente. Ma ogni volta che qualcuno provava a sollevare la questione col fratello ricco, quello s’adombrava rivolgendo insulti allo scansafatiche: lui gli aveva più volte teso la mano, offrendogli un lavoro come mezzadro nei suoi campi, ma il fannullone se n’era andato dopo qualche giorno di prova ritenendo che quell’impiego non facesse per lui. “Se preferisce starsene in piazza a suonare canzonette invece di lavorare”, concludeva il ricco immancabilmente, “allora che si arrangi!”.

Arrivò però il giorno in cui il fratello povero non riuscì più ad arrangiarsi.
E lo confidò ai suoi amici, confessando un po’ di preoccupazione per quei tempi duri: l’orticello dietro casa non aveva dato i frutti sperati, lo scorso anno, e la sua dispensa ormai era completamente vuota; non sapeva nemmeno se sarebbe stato in grado di portare del cibo in tavola per il pranzo di Pasqua!
E quell’ammissione indignò nel profondo i suoi amici.

Perché – al di là di qualsiasi manchevolezza potesse essere imputata a quel sempliciotto – sembrava assurdo che quel pover’uomo dovesse mangiare pane e acqua nel giorno di Pasqua mentre suo fratello, nel quartiere ricco della città, si concedeva un pranzo luculliano con gli amici. Ci fu come una sollevazione di popolo, e furono molti i cittadini che bussarono alle porte del palazzo signorile per invocare un po’ di pietà per quello sfortunato; e se il padrone di casa non voleva averlo ospite alla sua mensa (apparve infatti evidente a tutti che tra i due non scorreva buon sangue), che almeno gli facesse recapitare un po’ di cibo da mangiare in solitudine, e che diamine!

Tanto dissero e tanto fecero che, alla fine, il fratello ricco fu preso da esasperazione: e non già per un rigurgito di buon cuore, ma unicamente al fine di far tacere quegli scocciatori, prese un buon taglio d’agnello e lo ficcò in mano a quelli che gli stavano alla porta. “Ditegli di andarselo a mangiare col diavolo!”, brontolò prima di sbatter loro la porta in faccia.

E la storia si potrebbe anche concludere qui, se non fosse per il dettaglio che il fratello povero, nell’accettare il dono, si sentì in dovere di ottemperare alla richiesta.

Il lettore italiano potrebbe esser tentato di commentare che questo scemotto non doveva starci tanto nella testa; gli studiosi greci ci spiegano però che, nel folklore locale, accettare un dono e disattendere alle raccomandazioni con cui arriva è considerata una colpa gravissima, a livello di tabù. Se nonna ti regala un gioiello dicendo “mi piacerebbe che lo indossassi quando discuterai la tesi di laurea”, tu devi obbedire a quella richiesta; allo stesso modo, se tuo fratello ti offre un arrosto di agnello brontolando che devi andartelo a mangiare col diavolo, è tuo preciso compito andare a cercare il diavolo per spartire con lui il tuo pranzo di Pasqua.

E, diligentemente, il fratello povero onorò il galateo mettendosi in viaggio col suo cibo nella sporta. Dovette camminare due giorni e due notti prima di imbattersi finalmente in colui che stava cercando (salta fuori che finire all’Inferno non è proprio così immediato e bisogna profondere un certo impegno, per finire tra le braccia di Satana); e quando il demonio si sentì spiegare il motivo di quella visita, ne restò piacevolmente sorpreso. Commosso, quasi: ché quel brav’uomo aveva fatto uno sforzo non da poco per invitarlo a pranzo – e dire che non l’aveva mai visto prima! A Satana non capitava tutti i giorni di essere destinatario di pensieri così gentili.

Mangiò l’agnello con gran gusto, si fece spiegare il perché di quell’inatteso omaggio e rimase un po’ interdetto quando conobbe le circostanze in cui quel dono aveva avuto luogo. Ritenendo di dover mostrare la sua riconoscenza nei confronti di quel brav’uomo che aveva spartito con lui il suo pranzo, ritenne di omaggiarlo con un dono che avrebbe risolto i suoi problemi più urgenti: e gli consegnò un piccolo macinino magico, spiegandogli per bene come utilizzarlo. Il benefattore non avrebbe dovuto fare altro che girare la manovella recitando certe parole, e il macinino avrebbe sputato fuori del cibo in quantità: il più buono che si fosse mai mangiato, generando miracolosamente (?) proprio quegli alimenti che l’utilizzatore aveva desiderio di mangiare in quel momento.

E… orpo, se funzionava bene, quel macinino!

Ben presto, il fratello povero imparò a maneggiarlo per plasmare cibo dal nulla, secondo la sua volontà: e poiché era una persona di buon cuore, che voleva condividere coi suoi amici le sue fortune, cominciò a organizzare presso la sua casetta delle festicciole tra vicini in cui provvedeva a portare in tavola i piatti più prelibati che si fossero mai gustati su questa terra. E non faceva mistero di quale fosse la fonte e il perché di tutto quel ben di Dio Diavolo; inevitabilmente, la notizia cominciò a circolare e arrivò alle orecchie del fratello ricco, il si trovò a provare un sentimento inedito – l’invidia per qualcosa che il suo parente aveva, e lui invece no.

L’invidia non era fine a se stessa, beninteso. Con l’acuto spirito imprenditoriale che aveva favorito la sua ascesa, l’uomo ci mise ben poco a cogliere le potenzialità commerciali del macinino: quel fesso di suo fratello si limitava a usarlo per offrire ai suoi amici del cibo di qualità, ma cosa sarebbe accaduto se quell’oggetto prodigioso fosse stato utilizzato per aprire un ristorante a cinque stelle? I cibi che creava (a costo zero!) avevano un sapore così paradisiaco infernale da non avere paragoni al mondo: un locale che li avesse messi a menù sarebbe rapidamente diventato famoso ovunque, attirando una clientela ricca e selezionata, e con lei chissà quale altro giro di contatti e di potenziali affari. Oh, quanto avrebbe potuto fare, con quell’oggetto magico a disposizione!

E fu così che, millantando pentimento, il fratello ricco bussò alla porta di quella che era stata la sua casa d’infanzia chiedendo di poter comprare quel macinino.

Fece un prezzo più che generoso, offrendo una somma considerevole: disse al fratello di essere preoccupato per le sue condizioni di ristrettezza economica (e certo, il macinino che sforna cibo gratis è una bella cosa, ma col cibo gratis non ci compri mica le tegole per rifare il tetto). Asserì di essersi fatto un esame di coscienza e di aver deciso di dargli una mano: sarebbe stato ben lieto di inondarlo di denaro, in cambio di quel piccolo macinino. Uno scambio simbolico, giusto per guadagnare qualcosa dalla transazione e non sembrare uno scemo agli occhi di sua moglie, che non era mai stata fan della beneficenza fine a se stessa. Quel macinino, del resto, era così incredibilmente comodo; e il cibo che produceva, così incredibilmente buono…

E il fratello povero (che forse era un sempliciotto ingenuo, ma era ben capace di farsi due conti in tasca) accettò con gioia di privarsi di quell’oggetto magico per procurarsi un po’ di liquidità. In effetti, il tetto colava acqua per davvero: e no, col cibo gratis non ti paghi i lavori di ristrutturazione.

***

Quella sera stessa, il ricco chiuse le valige e si imbarcò in fretta e furia sulla sua nave: quel fessacchiotto di suo fratello non aveva capito di essere stato truffato ma lui aveva grandi piani per il suo ristorante a cinque stelle. E se tutto andava nel mondo in cui doveva andare… beh: a quel punto, nemmeno un completo idiota sarebbe stato in grado di non comprendere che occasione s’era lasciato sfuggire dalle mani!
E così, per evitare rogne (ci mancava solo che suo fratello lo trascinasse in tribunale per riprendersi il macinino), il ricco decise di partire per le Americhe – dove, diciamocelo, ci sono più VIP che a Creta, e un ristorante stellato ha più chance di prosperare.

Quella sera, lui e la moglie brindarono ai nuovi inizi, sul ponte della nave, pregustando un avvenire pieno di gloria e di successi. E poi, si ritirarono sottocoperta per mangiare, sfruttando ovviamente il cibo miracoloso del macinino: e chissà quali prelibatezze avrebbe dato loro quell’oggetto del portento!

Ma, sorprendentemente, il risultato non fu all’altezza delle aspettative. Quando l’uomo girò il macinino, del cibo uscì, ma completamente sciapo: perché, nella fretta, lui s’era dimenticato di chiedere a suo fratello se ci fosse una tecnica specifica da usare nel maneggiare quell’oggetto. E quindi, non si era fatto insegnare la formula magica che era evidentemente indispensabile per ottenere del cibo di qualità: in assenza di quella, il macinino sputava fuori della roba a malapena commestibile, quasi insapore e senza condimento.

L’uomo rimase spiazzato, dopo il primo boccone. Al piatto di carne che aveva sul tavolo, serviva decisamente del condimento, tanto per cominciare: e allora, con rabbia, riprese in mano l’oggetto magico e ruotò la macina per ottenere immediatamente del sale, e pure tanto!
Dopodiché, tutto accadde nell’arco di pochi minuti, che come nella tradizione dei migliori romanzi horror parvero lunghi come un’eternità. Forse era stata una punizione divina diabolica scatenata dalla malafede del fratello truffatore; forse era stata semplicemente l’inevitabile conseguenza della sua incompetenza arrogante (diciamolo: chi è che si ostina a utilizzare un macinino magico che malfunziona senza nemmeno aver letto il manuale d’istruzioni?).

Una cosa è certa: piccoli grani di sale cominciarono a sgusciare fuori dal macinino; prima a uno a uno, poi a centinaia, e poi sempre con maggior violenza. Erano come dei piccoli proiettili: finirono negli occhi dei due sposi, escoriarono la loro pelle, fecero bruciare insopportabilmente le loro ferite e, piano piano, cominciarono ad accumularsi sul pavimento senza che fosse in alcun modo possibile fermarli. Marito e moglie tentarono di fuggire sul ponte della nave, ma si resero conto con orrore che l’imbarcazione stava cominciando a inabissarsi, trascinata verso il basso dal peso di tutto quel sale che si stava accumulando sottocoperta. Gridando disperati, ché erano ormai in mare aperto, scesero dabbasso per cercare il macinino e buttarlo fuori bordo, ma fu impossibile trovarlo in una stanza ormai piena di sale: e presto la nave cominciò a imbarcare acqua, e per quei due sventurati non fu via di salvezza. Furono trascinati verso le viscere della terra per mano della loro stessa ingordigia; e quel che è peggio, neppure la loro morte riuscì a porre fine alla tragica serie di eventi che erano stati innescati dalla loro follia superba. Perché il macinino magico, inabissatosi assieme a loro, continua ancor oggi a produrre sale: ormai ha contaminato le profondità marine in ogni singolo angolo del mondo, togliendo alla brava gente una preziosa fonte d’acqua potabile.

E se non ci credete, beh: provate ad assaggiare l’acqua del mare.
È o non è imbevibile?
E allora, vedete che non vi sto raccontando storie!

***

Giusto qualche nota a corredo di questa storiella, riportata da Irene Sotiropoulou in un breve saggio titolato “Why the Sea Is Salty”. Folktales as Sources of Grassroots Economics.

La favola è relativamente recente, o quantomeno non se ne trova traccia in alcuna fonte antecedente il Novecento. Nelle prime decadi del XX secolo, invece, diventa rapidamente popolare, ripubblicata numerose volte su carta stampata e probabilmente trasmessa per via orale in chissà quante altre varianti.
«Questo arco temporale», scrive Irene Sotiropoulou, «rispecchia esattamente quello in cui l’economia greca conobbe per la prima volta il capitalismo (tardo diciannovesimo e inizio ventesimo secolo). Perdipiù, l’isola di Creta fu annessa alla Grecia nel 1913», un cambiamento che costrinse necessariamente la popolazione autoctona a soggiacere alle politiche economiche imposte dalla nuova nazione, fortemente occidentalizzata. «In quello stesso periodo (tardo diciannovesimo e inizio centesimo secolo), l’artigianato greco e le piccole attività locali avevano già sperimentato un momento di forte crisi a causa dei beni industriali prodotti a basso costo nelle fabbriche dell’Impero Ottomano (di cui Creta aveva fatto parte fino al 1898 come regione, e fino al 1913 come regione autonoma)». E neppure l’annessione alla Grecia risolse il problema, anzi se possibile lo esacerbò: perché, a quel punto, cominciarono a circolare a Creta anche i beni a basso costo prodotti dalle industrie dell’Occidente, ancor più numerosi e concorrenziali. «Molte imprese locali non riuscirono ad affrontare la crisi e dovettero dichiarare fallimento; altre si videro costrette a diversificare la loro produzione per riuscire a sopravvivere».

Ed è proprio questo contesto socio-economico di forte tensione a produrre questa favoletta dall’allure vagamente marxista. Siamo di fronte a una curiosa rielaborazione delle leggende del folklore rilette in ottica anti-capitalista: e se alcuni elementi dell’immaginario fiabesco restano immutati (il conflitto tra i due fratelli; l’aiutante magico che ricompensa il buon cuore di quello povero; l’oggetto magico che premia gli onesti e punisce i corrotti), è evidente come la storiella voglia trasmettere ai suoi lettori un’ideologia politica ben precisa.

Dio è completamente assente dalla narrazione, come se i drammi umani e le ingiustizie subite dalla povera gente non lo interessassero più di tanto; è il diavolo ad agire come deus ex machina prendendo le difese della brava gente (…e quanto è significativo che persino lui rimanga indignato di fronte alla gretta avidità del fratello ricco!).

L’eroe della storia è uno scansafatiche che farebbe venire il nervoso a chiunque, se non fosse per la noticina per cui lui aveva anche provato a lavorare nel latifondo di suo fratello, ma s’era licenziato dopo pochi giorni ritenendo evidentemente insoddisfacenti le condizioni contrattuali che gli venivano proposte.
Ma è davvero un fannullone, colui che è orgogliosamente disposto a fare la fame pur di non sottostare alle pretese assurde di una economia che toglie dignità ai lavoratori? La storia sembrerebbe suggerire di no.

E che dire del fratello ricco? Sembrerebbe quasi di ritrovare, in questa storia, il lavoratore sdegnato della parabola del figliol prodigo che rimprovera al fratello di essersi andato a cercare i guai, a motivo delle sue scelte di vita imprudenti. Evidentemente, questo imprenditore di successo è l’indiscusso villain della storia: malvagio più del diavolo, freddo di fronte ai bisogni della sua famiglia, disonesto nel truffare la brava gente, è così arrogante da pretendere di poter sostituire la perizia umana con l’uso ostinato di una tecnologia all’avanguardia (e abbiamo ben visto cosa succede nel momento in cui attiva il macinino senza farsi affiancare da qualcuno che sappia effettivamente come ottenere un risultato di qualità, in virtù dell’esperienza accumulata nel tempo).

L’idea del mare che diventa salato per l’ingordigia dell’imprenditore, danneggiando le popolazioni che non possono più berne l’acqua, è poi una chicca davvero modernissima, così precoce da stupire se pensiamo che la stiamo trovando in una favoletta di inizio Novecento. Cos’è, se non la metafora di un incidente industriale che fa scempio della natura per la noncuranza di un uomo senza scrupoli?

Certo, qualcuno potrebbe anche obiettare che nulla di tutto questo sarebbe accaduto se il diavolo si fosse limitato a farsi i fatti suoi, senza mettere in circolazione pericolosi macinini magici.
Ma non sarà allora che, sotto sotto, tutto questo era un astuto piano del demonio?
Come a dire che è Satana in persona a favorire le grandi industrie e i capitalisti che vi ci si arricchiscono, riconoscendo le potenzialità distruttive di questa new economy che odora d’Inferno.

O quantomeno: potrebbe essere questa la curiosa morale che s’annida in questa strana storia.


Per approfondire:

The Folklorist in the Marketplace. Conversations at the Crossroads of Vernacular Culture and Economics, a cura di Willow G. Mullins e Puja Batra-Wells (Utah State University Press, 2019)

13 risposte a "Il macinino del demonio: una fiaba un po’ marxista"

  1. Anonimo

    l’altra cosa che vorrei osservare è che gli amici del fratello povero fanno sì in modo che il fratello ricco lo aiuti… però non mi pare che loro si offrano di aiutarlo a riparare la casa o che gli portino del cibo 🤷🏻‍♀️.

    Elena

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      1. Lucia Graziano

        E anche io, eh. Però una persona d’altri tempi noterebbe probabilmente che è rilevante che noi, uomini del terzo millennio, siamo disposti a considerare i parenti stretti e la cerchia di amici come qualcosa di intercambiabile: se non t’aiutano i primi è opportuno che siano i secondi a intervenire. In passato non è che fosse proprio così scontato: la famiglia deve aiutare i suoi membri in difficoltà perché così comanda la legge divina (“onora il padre e la madre” etc); la società poi può anche intervenire, nei suoi modi e nei suoi tempi, ma il dovere primario spetta ai familiari.

        Poi sì, ovviamente questa è anche una storiella a tema nata per criticare il capitalista di turno 😉

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        1. Umberta Mesina

          Va bene che la famiglia debba aiutare i propri membri ma questo è un comportamento di qualunque società, in vari modi. Che ci si aiuti tra amici, però, a me pareva una cosa cristiana, non l’ho mai considerata moderna. (Di sicuro non lo facevano gli antichi Greci e Romani, salvo eccezioni.) Dici che nel Milleduecento sarebbe parso strano? Non ci avevo mai pensato, sai. S’imparano un sacco di cose, leggendo i tuoi articoli.

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          1. Lucia Graziano

            Io penso che nel Milleduecento sarebbe parso molto strano (e scandaloso e innaturale) vedere dei poveri disgraziati che, per comportarsi da buoni cristiani, si sentivano costretti a sacrificare le loro risorse per aiutare un loro amico, se quell’amico aveva a portata di mano dei parenti che avrebbero dovuto farsi carico dell’assistenza in prima persona.

            Poi per carità: se la famiglia non aiutava, e l’intervento degli enti assistenziali preposti (parrocchia, congregazioni, ospizi di carità…) non era sufficiente o sufficientemente rapido, di sicuro intervenivano anche gli amici e i vicini di casa, per buon cuore. Però penso che sarebbe sembrava una situazione profondamente innaturale e ingiusta, soprattutto se non stiamo parlando di un aiuto una tantum (la jella imprevista da fronteggiare sul momento, tipo l’aratro del vicino di casa che si è rotto, che ne so, e tu devi dargli una mano per ripararlo al volo) ma di una situazione di disagio persistente (come appunto quella di uno che è povero in canna e non prevede di arricchirsi a breve).

            In base alla carità cristiana, era comunque socialmente atteso che fossero i cristiani ricchi (cioè quelli che potevano permetterselo) a intervenire per primi a tamponare le situazioni di disagio (eventualmente tramite fondazioni benefiche, etc), sennò andava finire che i cristiani poveri diventavano sempre più poveri, abbandonati a se stessi. Che sia normale che i poveracci si aiutino a vicenda dando fondo alle loro magre finanze perché non c’è nessun altro interlocutore a cui potersi rivolgere in caso di bisogno (e i legami familiari sono ormai sfaldati, con parenti che magari vivono a centinaia di chilometri di distanza): sì, questa secondo me è una idea piuttosto moderna, per come la vedo io.

            Probabilmente capitava anche in passato eh, ma secondo me comportava già una buona dose di jella per tutte le parti coinvolte.

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  2. vogliadichiacchiere

    Sai che una storia del genere me la raccontava mia nonna, classe 1014.
    Non la ricordo più tutta, ricordo il fatto del macina sale (che secondo quello che mi ricordo sta ancora macinando sale da solo, in fondo al mar) ed era la causa della salinità del mare!!!

    Ciao, Fior

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    1. Francesca

      Errore di battitura me-ra-vi-glio-so. Ho riletto tipo 3 volte il tuo commento per cercare di capire se stessi esponendo una qualche metafora o altro significato legato alle nonne 😇

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    1. Francesca

      Ma no dai, ma quali scuse?!? È stato divertentissimo. E poi si capiva che doveva essere 1914 😉 …a parte la sottoscritta che tornava indietro a ri-leggere per verificare se per caso c’erano metafore di mezzo 😅 … tipo “mia nonna era una tipa con tradizioni medievali”.

      Ciao 🖐️☺️ Grazie

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