Il diabolico gatto del lago del Bourget

Re Artù non era mai stato meglio in vita sua.
Mago Merlino non era mai stato peggio, ormai quasi totalmente consumato da quel gran brutto male che, come ben sapevano i trovatori, è la malattia d’amore. La storiella che sto per raccontare, narrata al capo 55 del Lancillotto-Graal (oppure 441 secondo l’edizione Sommers) costituisce, di fatto, l’ultima cerca che mago Merlino volle proporre ai cavalieri della Tavola Rotonda prima di lasciare il mondo dei mortali e andare a vivere, con Viviana, nel regno delle fate.

Con una serie di vittorie che non avrebbero potuto esser più spettacolari, l’esercito guidato da re Artù mago Merlino, perché di fatto era a lui a dare ordini alle truppe, aveva sconfitto nell’arco di poche settimane i Sassoni, i Romani e pure un manipolo di Saraceni. Poiché, anche a volerlo cercare con il lanternino, non si trovava più un nemico nel raggio di chilometri, il giovane Artù pensava ingenuamente di poter finalmente ripiegare su Camelot ponendo fine a quella campagna militare che, tra una cosa e l’altra, l’aveva tenuto lontano per quasi un anno, costringendolo a spingersi così tanto a sud da fargli lambire le vette alpine della Savoia.

Quel giorno, accampato col suo esercito in una delle tante alture della zona, contemplando il panorama che davanti ai suoi occhi si estendeva a valle, Artù rese grazie a Dio per tutti i doni che aveva ricevuto e, per la prima volta nella vita, sentì di essere al sicuro. Le vittorie che Merlino gli aveva cortesemente regalato avevano finalmente reso solida la sua posizione sul trono: tutti lo acclamavano come il giovane re guerriero e nessuno più mormorava alle sue spalle, parlando di inesperienza o inaffidabilità. Sicché, con giusta gratitudine, si girò a guardare il mago che gli sedeva al fianco e diede il via alla seguente conversazione, che come al solito è una traduzione testuale di quanto scritto nel Lancillotto-Graal (con aggiunte mie nelle parti che non sono dialogo, giusto per dare un po’ più di colore al testo).

Guardando l’uomo a cui, in fin dei conti, doveva tutto, re Artù domandò “mio caro amico: cosa desiderate che io faccia, adesso?”.
Merlino gli lanciò uno sguardo pigro con la coda dell’occhio. “Certamente non tornerai a casa, mio re. E nemmeno andrai a Roma”, aggiunse in fretta, ché più volte in quei giorni il ragazzo aveva vagheggiato di spingersi ancora un po’ più a sud per visitare la città santa. Mentre si dipingeva sul viso di Artù l’espressione rassegnata di un bambino a cui il papà ha appena negato un giocattolo, Merlino riportò lo sguardo sul lago che si allargava a valle e annunciò: “al contrario, oggi stesso, ordinerai al tuo esercito di proseguire la marcia, perché la popolazione di queste terre ha disperatamente bisogno del vostro aiuto”.
“Cosa?”, fece Artù, genuinamente spiazzato. “E perché mai?”.
Gli uccellini cinguettavano tutt’intorno a loro, mentre un venticello leggero e profumato danzava con le foglie degli alberi. A valle, i raggi del sole si riflettevano sulle azzurrissime acque di quel lago che all’epoca era definito “lemano”, come il 90% dei laghi della zona, ma che è quasi sicuramente da identificare come l’attuale lago del Bourget, non lontano da Chambéry. A ritmo lento, un barcaiolo affondava i remi nell’acqua in quello che sembrava un piccolo scampolo di paradiso in terra, incorniciato da alte rocce e da abeti scuri. Artù si girò verso Merlino e domandò: “seriamente? Mi stai dicendo che c’è una guerra da queste parti?”.
“Si potrebbe anche dire così, mio re”, fece lui indicando col mento le montagnole che gli stavano davanti. “Non qui, ma dall’altro lago del lago. Lì dimora un demonio, un mostro così crudele che nessun uomo o donna osa affrontarlo. Vive nella campagna, uccide chiunque provi a sfidarlo e poi strazia orribilmente i loro cadaveri”.
Il giovane re non tentò nemmeno di nascondere il disagio. “E come è possibile che nessuno riesca a sconfiggerlo?”, mormorò attonito. E poi aggiunse: “ma è un uomo normale? Voglio dire, uno come me e te?”.
Definire ‘uomo normale’ l’Anticristo era singolarmente generoso o singolarmente scemo, si trovò a pensare il mago, figlio di una umana e del demonio. Ma ormai il suo tempo al fianco di re Artù era agli sgoccioli e quella era palesemente una causa persa; sicché, Merlino si concentrò sulle cose importanti e scosse il capo: “niente affatto, non è un uomo. È un gattino posseduto da Satana”.
Comprensibilmente, calò un silenzio che parlava da solo. Merlino si prese qualche secondo e poi si sentì in dovere di precisare: “e io dico ‘gattino’, ma in realtà è un gattino gigantesco, così spaventoso nell’aspetto che basta la sua sola vista a far impietrire dall’orrore chiunque vi si imbatta”.
“Dio abbia pietà di noi” mormorò re Artù sgranando gli occhi in un’espressione comprensibilmente orripilata. “E da dove arriva un tale mostro?”.
Il mago sollevò lo sguardo lo verso il cielo e sospirò: “in verità, in verità ti dico che tutto accadde quattro anni fa, nella festa dell’Ascensione, quando un pescatore della zona decise di profittare di quel giorno per andare nel lago a pescare”. Il livello di orrore sul viso di Artù aumentò esponenzialmente, perché anche i bambini sanno benissimo che solo i folli oserebbero lavorare nel giorno dell’Ascensione, quando il mondo intero ha l’ordine di fermarsi, e sostare nella contemplazione orante della potenza celeste.
“L’uomo preparò dunque tutta la sua attrezzatura da pesca”, proseguì Merlino in tono neutro, “e quantomeno promise a se stesso che avrebbe donato a Nostro Signore il primo pesce pescato nella giornata. Dopodiché, andò al largo e gettò la lenza, e di lì a poco pescò un luccio stupendo che avrebbe certamente potuto vendere a non meno di trenta monete”. Con un’occhiata laterale al ragazzo, proseguì descrivendo l’inevitabile disfatta: “e allora, quando vide quanto era grande, e di quanta qualità, mormorò a se stesso, poiché era un uomo subdolo: Dio non avrà questo pesce, ma avrà il prossimo che pesco. Gli andrà benissimo lo stesso!”.
Artù strinse le labbra e sospirò, con l’espressione di sta guardando consumarsi una tragedia annunciata.
“E così preparò per una seconda volta l’amo”, fece Merlino, “e di lì a poco catturò un pesce che era ancor più grande e più bello del primo. E quando vide quanto era grande, e quanto gli avrebbe potuto fruttare, decise che avrebbe tenuto per sé anche quello: il Signore Dio, senza dubbio, si sarebbe accontentato del terzo pesce”.
Artù a quel punto nascose proprio il viso tra le mani, e Merlino proseguì senza particolare intonazione: “e così gettò la lenza per la terza volta, ma a questo tentativo finì col pescare un piccolo gattino, ancora vivo, dalla pelliccia più nera del frutto del gelso. E quando il pescatore lo vide, pensò che in effetti un gatto gli avrebbe fatto comodo, per tenere lontani i topi da casa sua. E così lo portò a casa e lo crebbe” disse mentre il vento gli scompigliava i capelli corvini, perché spesso il male ama nascondersi dietro le sembianze insospettabili e irresistibili di un piccolo cucciolo indifeso. O eventualmente anche di un mago saggio, alla bisogna. “E il gattino visse con lui senza dare alcun motivo di sospetto fino a quando, una notte, non gli strangolò nel sonno la moglie e i figli”.
Lentamente, a sopracciglia inarcate, re Artù si girò a guardare Merlino. Quest’ultimo proseguì con ammirevole nonchalance: “e a quel punto fuggì. Esattamente su quella montagna che s’affaccia sull’altra sponda del lago, laggiù, come ti ho detto. E lì vive ancor oggi, col problema che è cresciuto, e divora e distrugge qualsiasi cosa che tocchi. È gigantesco. Ed è…”, e lì il mago esitò per qualche istante, alla ricerca della definizione più opportuna. Alla fine optò per “una creatura meravigliosamente terrificante”.
In effetti, pareva abbastanza terrificata l’occhiata che il povero Artù lanciò alla montagnola che gli era stata indicata. E la situazione non migliorò nel momento in cui Merlino gli ordinò: “ragion per cui, adesso metterai in marcia il tuo cavallo esattamente in quella direzione e sbrigherai questa pratica, dopodiché avrai il mio permesso per andare dove vuoi. A Dio piacendo, porterai un po’ di pace alla povera gente che abitava queste terre e che adesso, per la paura, è stata costretta ad abbandonare la sua casa”.

Scrive l’autore del Lancillotto-Graal che «quando i baroni udirono le parole di Merlino, tutti quanti all’unisono si fecero il segno della croce, stupefatti alla storia che avevano appena ascoltato. E tutti concordarono sul fatto che, senza dubbio, tutto ciò era accaduto a causa della giusta vendetta di Nostro Signore, sdegnato a causa di quel pescatore che più d’una volta aveva infranto la promessa che aveva fatto a Dio» (come se già non bastasse l’empietà di lavorare nel giorno dell’Ascensione, aggiungo io!). «E addivennero anche alla conclusione che l’Onnipotente era sdegnato anche e sopra tutto a causa del fatto che, fin da principio, il pescatore aveva saputo dentro di sé di star assumendo di fronte a Dio un impegno menzognero. Re Artù, dal canto suo, ordinò agli uomini di mettersi in marcia verso l’altra sponda del lago, come Merlino aveva comandato loro. E così tutti scoprirono che, in effetti, sull’altra sponda, quelle terre beate erano desertiche e disabitate, perché più nessuno osava vivere nei paraggi»

Nel giorno della battaglia, furono re Ban, sir Lot, sir Gawain e sir Gaheriet gli unici che osarono imbracciare le armi e marciare al fianco di Artù e Merlino fino al limitare della caverna in cui, come spiegò il mago, il demoniaco gattino era solito dormire. Ma quando Merlino richiamò il mostro con un fischio (che è grossomodo la versione medievale del nostro “miiicio micio micio micio!”), Artù diede ordine ai suoi cavalieri di lasciarlo combattere da solo contro quel demonio. A più riprese sembrò sul punto di soccombere e uscì da quello scontro gravemente ferito; ma, com’è come non è, alla fine ebbe la meglio. E, questa volta, addirittura senza aiuti.

E quando ebbe inferto il colpo mortale a quell’essere mostruoso, contemplando la sua carcassa mentre cercava di riprendere fiato, Artù volle sapere da Merlino come diavolo si chiamasse il villaggio che aveva appena salvato da quella insidia, e a sprezzo della sua stessa vita. E il mago gli rispose che la gente del luogo era solito chiamarlo Mont du Lac, a causa del lago che lambiva dolcemente le pendici del colle su cui s’ergeva il paese.
“Parola mia”, ansimò re Artù, “desidero che questo nome sia cancellato per sempre dalle mappe e che, d’ora in poi, questo paese venga ricordato come Mont du Chat, in memoria del mostro che qui viveva e che io sono riuscito a sconfiggere”.

E così fu. E da allora e per sempre quel luogo onorò la memoria di Artù e della sua valorosa impresa: ancor oggi, nel punto in cui prese corpo la battaglia, sorge un piccolo villaggio che porta nel nome il ricordo di quell’aventura. È La Chapelle-du-Mont-du-Chat, un minuscolo comune di poco più di duecento anime che s’affaccia sul lago del Bourget, non lontano da Chambéry e dall’abbazia reale d’Hautecombe.  

Immagine cortesia del comune di La Chapelle-du-Mont-du-Chat

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