Prologo
Seduto su una seggiola nel chiostro, il monaco poggiò i gomiti sulle ginocchia e andò a nascondere il mento dietro i palmi delle mani, guardando di lontano il bambinello che giocherellava con un cervo intagliato nel legno. Aveva appena finito di costruire una montagnola di sassolini e adesso la stava facendo scalare al suo pupazzo, producendosi di tanto in tanto in risatine infantili così cristalline da scaldare il cuore. A Blaise, per contrasto, venne una stretta alla bocca dello stomaco. Deglutì lentamente e socchiuse gli occhi, continuando a fissare Merlino di lontano.
A vederlo così, lo si sarebbe detto un bambino come tanti. Un faccino adorabile contornato di riccioli neri, occhi vivaci e scuri profondi come quelli d’un falco, gambocce paffute di quelle che le donne amano riempir di baci, sorrisi mezzi sdentati da elargire alle persone care come tesori rari da dispensare con cautela. Era passata circa una luna, dal giorno del secondo anniversario della sua nascita.
Merlino, rendendosi conto di essere osservato, sollevò lo sguardo su Blaise e lo guardò dritto negli occhi. Poi si abbandonò a un lungo sospiro ed esclamò in tono di rassegnazione: “per l’amor del cielo, Blaise, smettila di studiarmi. Più mi metti alla prova e più ti inquieti, di questo passo finirai per ammalarti per l’angoscia. Io invece ti voglio in salute, e possibilmente collaborativo”.
Se non altro, il bambino diceva la verità: poco ma sicuro, andando avanti di ‘sto passo, Blaise si sarebbe ammalato per l’angoscia per davvero. ‘sto infante di due anni che parlava come un uomo adulto era la cosa più inquietante che avesse mai visto in tutta la sua vita, prima o poi avrebbe cominciato a sognarselo di notte.
Dovette fare un bello sforzo per modulare il tono della voce a ostentare una parvenza di tranquillità. Raddrizzò la schiena e disse: “ah davvero? E a quale scopo ti curi della mia salute, se posso domandare?”.
Il bambino lanciò una occhiata al suo pupazzo, e per un attimo parve soppesare la sua scala di priorità. Con una smorfietta, posò il cervo sulla cima della montagnola di sassolini: “mi servi in salute e collaborativo perché intendo usarti come scriba. Ascolterai quanto io avrò da dire e ti sforzerai di credere per quanto ti è possibile alle parole che io vorrò dettarti. E se tramanderai ai posteri il mio messaggio, gli uomini delle future generazioni potranno guadagnarsi l’amore di Cristo e la gioia eterna per le loro anime”.
Poco ci mancò che Blaise scoppiasse a ridere. “Giovanotto. Dimentichi che sono il confessore di tua madre? Meglio di chiunque altro so che sei stato concepito in lei da un demone, al fine di portare sulla terra l’Anticristo. Veramente pensi che io sia così stupido da fidarmi delle tue parole?”.
L’Anticristo si abbandonò a un sospiro rassegnato, sollevando gli occhietti verso il cielo. “Oh, Blaise, io penso che tu non sia affatto stupido”, ribatté puntellando sull’erba le manine grassottelle per rimettersi in piedi. “Proprio perché sei tu, dovresti meglio di chiunque altro avere l’intelligenza di capire che di me ti puoi fidare. Non sei forse tu l’uomo che è stato al fianco di mia madre per tutto il suo travaglio, e che mi ha battezzato nel momento stesso in cui sono venuto al mondo reclamando la mia anima per Dio prima ancora che mio padre potesse stringerla nella sua presa?”. Fissò silenziosamente Blaise con i suoi due occhioni seri. Poi mosse un passo verso il sacerdote, poi ci ripensò, si girò per recuperare il suo giocattolo e con quello tra le mani ricominciò a camminare, trotterellando con quel passo ancora un po’ goffo di un bambino che sta ancora imparando a stare al mondo. Quando ebbe raggiunto il monaco, gli dispensò uno dei suoi sorrisi meravigliosi: “mio padre è stato uno sprovveduto, né più né meno. Aveva dato per scontato che mia madre, scoprendosi incinta del demonio, fuggisse per la vergogna e mi mettesse al mondo in solitudine, per cercare di occultare la sua colpa. Non aveva considerato che potesse chiedere il conforto della comunità cristiana e che trovasse un sacerdote disposto a equipaggiarla con quelle armi potenti che sono i sacramenti”.
Blaise esitò, limitandosi a fissare Merlino senza dire niente. Il bimbo allungò una manina verso il sacerdote per fargli pat-pat su un ginocchio: “puoi fidarti”, ripeté in tono quieto. “Anzi, sarebbe un grave sbaglio non fidarsi. Perché io sono determinato a usare per il bene i poteri che mi sono stati conferiti dalla mia natura, ma non sarà molto il tempo a mia disposizione. Non posso fare tutto da solo: mi serve qualcuno che, mentre lavoro, ordini le mie carte e metta per iscritto la mia vita e tramandi i miei insegnamenti ai posteri”.
Il sacerdote soffiò lentamente aria dal naso. “E perché proprio io?”.
Merlino si strinse nelle spalle, piegando da un lato la testolina bruna. “Meh. Non è che sia pieno il mondo, di archivisti con una buona penna esperti di storia ecclesiastica e conoscitori delle leggi della magia. Quando ne trovi uno te lo prendi e lo usi, io suppongo”.
Col senno di poi fu una mossa un po’ melodrammatica, ma lì per lì a Blaise parve una buona idea quella di stringere il crocifisso che portava al collo e brandirlo in direzione di Merlino. “Lo farò solamente a condizione di poter cominciare il mio scritto con una invocazione al Padre al Figlio e al Santo Spirito, alla beata vergine che portò in sé il figlio di Dio, a tutti gli apostoli, gli angeli e gli arcangeli e tutti i santi, i prelati di Santa Madre Chiesa e gli uomini e le donne che amano il Signore, affinché essi col loro potere sorveglino il mio scritto e ne tengano lontano ogni inganno demoniaco”.
Il bambino contemplò la scena in garbato silenzio, mentre si dipingeva sul suo faccino l’espressione che normalmente si dedicherebbe a un pazzo che straparla. “Possa tutta questa brava gente dannarmi di fronte a Dio se mai dovessi indurti a compiere una sola azione contraria alla volontà celeste, Blaise” disse infine scandendo bene le parole, senza nulla fare per nascondere la perplessità nella sua voce.
E così Blaise accettò il suo incarico, e Merlino (dotato per sua natura della perfetta conoscenza di tutto ciò che era e che sarebbe stato) gli parlò del Sacro Graal, e di come la reliquia avesse attraversato i secoli passando di mano in mano. E gli disse di come Satana, spiazzato dal successo che stava avendo il progetto di divina redenzione, avesse ordito un piano per generare a sua volta un figlio da mandare sulla terra per confondere e dividere gli umani. E gli narrò di come proprio lui, Merlino, fosse nato dall’unione tra il demonio e una vergine, e ciò nonostante fosse stato poi redento dalla potenza del battesimo.
E un giorno gli appunti di Blaise finirono tra le mani di sir Robert da Boron che, sfruttando l’espediente narrativo del manoscritto ritrovato, dichiarò di essersi basato proprio su queste carte per comporre i versi dei due poemi che dedicò a Merlin e Joseph d’Arimathie. E questi poemi furono integrati, nella prima metà del XIII secolo in quel ciclo che i filologi chiamano della Vulgata o del Lancillotto-Graal, e una quarantina d’anni più avanti furono rimaneggiati in quello che è noto come il Ciclo della Post-Vulgata.
A distanza di secoli (mentre, come per magia, emergevano in Britannia frammenti inediti di questa storia), vi fu poi un’altra archivista che, nel suo piccino, impiegò il tempo libero durante una pestilenza dedicandosi ad approfondire questi temi. E così come scriverebbe nel suo prologo una qualunque autrice di un lai cortese (avevano la fissa di millantare la storicità dei loro scritti, i novellieri medievali): anche il mio racconto fu tratto da questi testi, e deve perciò essere creduto vero, per quanto dipinga un Merlino che è assai diverso da quello che conosciamo oggi. Del resto, fu Chrétien de Troyes a dire popolarmente che solo rifacendosi ai testi più datati il lettore potrà apprendere con efficacia tutto ciò che fu davvero delle gesta e dei fatti degli antichi.
Capo I
Merlino si guardò allo specchio, ravvivandosi i capelli al di sotto del cappello a mezzo cono che si era posato sulla testa.
Globalmente, non era male.
Certo, quella tenuta era ridicola, i colori troppo sgargianti e la calzamaglia imbarazzantemente stretta, ma diciamo che quantomeno aveva il fisico per potersela permettere con classe. Contemplando il suo riflesso nello specchio, il mago si domandò brevemente perché mai gli astri nel firmamento, i righi di inchiostro sulla pergamena e le stringhe di bytes sul computer della blogger si fossero allineati in modo tale da fargli venire il ghiribizzo di vestirsi in maniera così irrituale, quella mattina: con abiti da menestrello. Tutto sommato, dopo breve riflessione, gli parve una tenuta piuttosto appropriata per il giorno in cui era destinato a contrarre la malattia che l’avrebbe ucciso: quasi fosse un omaggio a quei ricercatori che per primi ne avevano codificato i sintomi.
Spostò leggermente il cappello sulla sinistra ed ebbe l’impressione che in quel modo gli stesse meglio. Da par sua, quello che poteva fare per prepararsi l’aveva fatto.
Era un bell’uomo, innegabilmente. Gli occhi profondi di sempre; lineamenti duri di una grazia inevitabilmente angelica e pelle delicata di quell’aristocratico pallore di chi non è costretto a lavorare sotto il dardeggiar del sole. Avrà avuto all’incirca quarant’anni, non di più: quando Artù era venuto al mondo, lui era un ragazzino; adesso, il re di Camelot era un giovane ventenne. Eppure il mago di corte non le mostrava neppure, le sue primavere, ammantato di quella giovinezza senza tempo di chi vede scorrere nelle sue vene sangue che è umano solo in parte.
D’un tratto si sentì bussare alla porta e Leonce de Palerne rientrò nella stanza di Merlino tenendo in mano una grossa carta geografica. Per un attimo si fermò a guardare i vestiti del mago, poi decise prudentemente di non far domande e si affrettò piuttosto a srotolare la mappa sopra al tavolo. “Quindi fatemi capire. Il castello di Trebe…?”.
“Esatto” ripeté Merlino pazientemente, allontanandosi dallo specchio. “Intercetterete le truppe nemiche a due leghe dal castello, esattamente qui”, e indicò a colpo sicuro un punticino sulla mappa, “all’alba del mercoledì prima della festa di san Giovanni, accampati nella foresta di Dernantes. Ah già: pochi giorni prima avrai scoperto che nel tuo esercito si sono infiltrate delle spie”, una informazione che spinse Leonce a sgranare gli occhi per l’orrore, “ma tre giorni prima della battaglia li bloccherete esattamente in questo punto”, che indicò senza neanche guardare. “Ma ricordati di mettere sentinelle di guardia quella notte, è una zona su cui normalmente non stanzierete uomini”.
Leonce annuì con un’aria così confusa che Merlino dovette sforzarsi per non ridergli in faccia. Si sentì in dovere di rassicurarlo: “comunque tranquillo. Abbiamo ogni tipo di vantaggio strategico. Manca un mucchio di tempo, al momento quelli non sanno nemmeno di volerci dichiarar guerra”. La precisazione ebbe come unico risultato quello di aumentare esponenzialmente la confusione sul viso di Leonce, e stavolta Merlino non fece proprio nulla per nascondere un sorrisetto divertito. “Se hai bisogno di qualcosa, prima di tornare a Camelot andrò a Carhaix. Tu comincia, senza dar nell’occhio, a costruire dei granai dove accatastare il raccolto, così che il nemico non trovi nulla da razziare nella sua avanzata”.
Leonce fece senno di sì a più riprese; dopo aver esitato qualche secondo, domandò titubante: “devo aspettare di ricevere un ordine esplicito da re, oppure…?”.
Merlino, che si era già allontanato dal tavolo per andare a prendere il mantello, si girò per lanciare a Leonce una occhiata esterrefatta. “Oh per le buone stelle, ma stai scherzando? Dirai che te l’ha ordinato Merlino, e tanto basti”.
Un giorno o l’altro avrebbe perso la pazienza e avrebbe ordinato a Artù di nominarlo siniscalco, giusto per evitare ogni volta quel teatrino del ‘chi è che sta dando l’ordine, il re o il suo mago?’. Formalismi ridicoli: lo sapevano pure le capre che pascolavano fuori Camelot, che Artù non avrebbe mai mosso un dito senza essersi prima consultato con Merlino, e che men che meno sarebbe stato così idiota da contraddire il volere del suo mago.
Poraccio, in fin dei conti: era un ragazzino salito al trono a sedici anni, senza la minima preparazione e senza mai aver vissuto a corte. Per fortuna, Artù aveva quantomeno avuto il buonsenso di mettersi totalmente nelle mani di Merlino; ormai erano passati alcuni anni dalla sua incoronazione, ma lui ancora pendeva dalle labbra del suo consigliere.
Non a caso, a corte si bisbigliava che fosse proprio lui, Merlino, il vero re di Camelot. I suoi oppositori mormoravano addirittura che l’intera faccenda di aver portato Artù sul trono fosse stato un piano ordito dal mago fin da principio, e non si poteva negare che quei pettegolezzi avessero una base di verosimiglianza: in fin dei conti, l’uomo aveva rapito Artù quand’era neonato, l’aveva fatto crescere sotto falso nome da una donna di fiducia e poi l’aveva tirato fuori dal cappello con un colpo di prestigio quando Uther era morto senza eredi al trono. Corredando il tutto con quel trucchetto della spada nella roccia, che era riuscito in qualche modo a legittimare la successione.
Naturalmente, Merlino ridacchiava ogni volta che sentiva quelle dicerie: figuriamoci se aveva interesse a governare Camelot, erano ben altri gli scopi con cui era venuto al mondo. Aiutava Artù solo perché quel poverino aveva un disperato bisogno di un consigliere per non mandare tutto a scatafascio.
Però, intanto…
Glossa
Prima di partire, Merlino si guardò allo specchio una volta ancora sistemandosi il mantello. L’aspetto giusto per fare colpo su una donna, ce l’aveva; si domandò oziosamente se avesse anche l’aspetto giusto per essere guardato con credibilità dai posteri.
Una nuova forma di magia si sarebbe sviluppata, a partire dal 1390, nella valle del Basso Reno e nel Ducato di Savoia. Erano eventi molto in là da venire, naturalmente, ma ciò non costituiva un problema per Merlino, con la sua perfetta conoscenza del passato e del futuro.
Una nuova forma di magia si sarebbe sviluppata: avrebbero scritto proprio così i confusi inquisitori, senza capire che in quelle decadi la magia non era mutata affatto ma era cambiata improvvisamente, per una serie di concause, la percezione popolare circa i professionisti delle arti occulte. D’un tratto, le fattucchiere avrebbero cominciato a esser dipinte come serve di Satana; quanto ai maghi, si sarebbe avviato quel processo che gli storici del Duemila avrebbero definito “di clericalizzazione”.
Allacciandosi con cura gli alamari del mantello, Merlino sorrise tra sé e sé pensando a quella schiera di vecchietti tipo Gandalf e Silente che un giorno avrebbero invaso le pagine dei romanzi fantasy. Gente con un piede nella fossa, senza figli né tantomeno donne, che dava l’idea di aver passato una vita intera ad astenersi dai piaceri del corpo per dedicarsi allo studio. In pratica, dei mezzi preti che se ne andavano in giro vestiti d’una lunga tonaca, salmodiando su un grimorio invece che su un breviario.
Trovava francamente esilarante pensare che anche lui, un giorno, sarebbe stato accostato a quella banda di fissati.
La verità è che lui si vestiva come un dignitario di corte e, se era il caso, portava disinvoltamente l’armatura. Amava curarsi la barba ogni giorno. Sapeva perfettamente che non sarebbe mai arrivato a invecchiare. Quanto alla sua vita privata, ‘casta’ e ‘morigerata’ erano probabilmente gli ultimi aggettivi al mondo con cui la si sarebbe potuta descrivere.
Si domandò brevemente se, nel futuro, i vari Saruman avrebbero davvero vissuto così come davano a credere (è noto che una buona propaganda può nascondere mille vizi); nel qual caso, avrebbe voluto dire che l’alta magia era finita nelle mani di un branco di integralisti.
A dirla tutta, i suoi colleghi del futuro tendevano a dargli un po’ sui nervi. Secondo lui, avrebbero finito con l’appiattire la figura del mago, il che era un peccato. Personalmente, Merlino era molto felice di essere quanto di più lontano al mondo dal mago da romanzo fantasy e quanto di più simile la letteratura avesse mai prodotto circa la figura storica del mago di corte duecentesco. Un tizio che si manteneva con un altro lavoro (medico, studioso; consigliere politico, nel suo caso) e che usava la magia come un mezzo per raggiungere un fine, senza darle più valore di quanto non ne meriti una tecnologia ben funzionante. Un uomo potente, ricco sfondato, amante del lusso e delle belle donne, pronto a partire con l’avventura con lo stesso entusiasmo che avrebbe provato nel visitare una biblioteca chiusa al pubblico.
Obiettivamente, una figura molto più complessa, intrigante e sfaccettata rispetto allo stereotipato mago-da-romanzo-fantasy. Ma tant’è; contenti loro.
Capo II
Con buona pace di quanto aveva detto a Leonce, Merlino non ci pensava manco per niente ad andare a Carhaix. Lasciò quasi subito la strada principale e mandò il cavallo al galoppo verso la foresta di Brocelandia, un bosco arioso pieno di cervi e selvaggina che sarebbe stato perfetto per la caccia, se non fosse che pochi osavano addentrarcisi a causa della sua nomea d’esser popolato dalle fate. Costeggiando la foresta, avanzò fino al punto in cui sapeva che si sarebbe fermato, là dove un costone di pietra si tuffava in un laghetto, alimentato dal gorgoglio dell’acqua limpida che zampillava da rocce d’alabastro.
Solo a quel punto scese da cavallo e si guardò attorno con un certo interesse: non aveva mai voluto rovinarsi la sorpresa di quel momento con la profezia, sicché adesso era genuinamente curioso di scoprire che tipo di donna fosse quella che l’avrebbe fatto innamorare.
E poi la vide, di lontano.
Era una ragazza, una donna molto giovane: un visino fresco illuminato da occhi azzurri come il mare, un piccolo diadema a coprire i capelli chiari e indosso un vestito riccamente decorato, come quelli che si sfoggiano le fanciulle nobili. Era seduta vicino alla sorgente e se ne stava lì leggendo un libro; a dirla tutta, bastò quel singolo primo sguardo per far nascere un sorriso sulle labbra di Merlino. Dopo tutte le donne che aveva avuto (tendenzialmente eretiche, arriviste, spregiudicate e pronte a tutto, ivi compreso l’usare il proprio corpo come merce di scambio), non avrebbe mai pensato che avrebbe finito con l’innamorarsi di una donnina tanto a modo.
Rimase discosto e la guardò a lungo, mentre lei sfogliava le pagine del libro. Per dirla con le parole che si leggono nel Lancillotto-Graal, mentre la guadava rifletté sul fatto che sarebbe stato veramente sciocco morire nel peccato e rinunciare a tutta la sua intelligenza e il suo sapere al solo fine di far suo il corpo di una donna, finendo oltretutto col portarle via l’onore. Se doveva essere lei la donna della sua vita, tanto valeva togliersi lo sfizio di giocare quell’ultima partita secondo le regole della cortesia: sicché rimase a osservarla in disparte finché non sentì che il cuore stava accelerando il battito, e solo allora uscì dalla boscaglia per avvicinarsi alla ragazza.
Aveva avuto tutto il tempo di riflettere su come spezzare il ghiaccio e aveva deciso che la sua battuta d’esordio sarebbe stata molto soft: qualcosa sulle linee di “cosa leggete?”.
La ragazza non parve neanche stupita dall’intrusione. Sorridente, si girò a guardare il nuovo arrivato e gli rispose quieta “la storia di Fauno e Diana”.
Tra tutte le possibili risposte, di sicuro Merlino non s’aspettava quella. Anzi, per un attimo rimase senza fiato: “lettura inusuale per una fanciulla. È l’episodio in cui Diana uccide a sangue freddo l’uomo che la ama, se ricordo bene?”.
“Proprio quello”, sorrise lei poggiando in grembo il suo libretto; “una storia di famiglia”. E prima ancora che Merlino potesse chiedere in che senso, la donna piegò il capo in segno di saluto come si confà a una dama di nobili natali. “Viviana del lago, in ogni caso. Vi stavo aspettando. Possa il Signore, che conosce tutti i cuori, dare a voi il desiderio di trattarmi bene e dare a me la fermezza che sarà necessaria per fare, a tempo debito, ciò che dovrò fare”.
Quella conversazione stava decisamente prendendo una strana piega. Merlino socchiuse gli occhi e studiò attentamente il viso di Viviana. “Che cosa siete?”, sussurrò alla fine.
“Voi, che cosa siete”; e le labbra della fanciulla si spiegarono in un sorriso divertito, mentre lo guardo si posava brevemente sulla calzamaglia di Merlino. “Non mi aspettavo un menestrello”.
Sperimentando per la prima volta l’emozione inedita di sentirsi vagamente idiota, Merlino abbozzò “ah. In realtà sono molte cose. Perlopiù, un intellettuale viaggiatore”. Un’altra occhiata alla ragazza, che a quel punto gli dava la forte impressione di essere una del mestiere, e si sentì legittimato ad azzardare un vago “potrei anche definirmi uno studente di magia”.
“Ah ecco, volevo ben dire” fece lei a bassa voce. “E che magie sapreste padroneggiare, grazie ai vostri studi?”.
‘Che magie sapreste padroneggiare?’. L’intera conversazione era così surreale che Merlino si trovò francamente in difficoltà sul che rispondere (“tutte?”). Si guardò attorno, posò lo sguardo sulle sponde fresche del laghetto e buttò lì la prima cosa che gli veniva in mente: “ad esempio, saprei camminare sulle acque senza bagnarmi i piedi”.
Aveva realmente parlato di una magia per evitare di bagnarsi i piedi? Sì: tra tutte le possibili opzioni, aveva realmente scelto quella, c’è scritto testuale. Molto rapidamente, cercò di correggere il tiro: “o anche deviare il corso di un fiume con un singolo comando”.
“Beh… utile…” azzardò Viviana, guardandolo con una certa comprensibile perplessità.
No: andando avanti di ‘sto passo, Merlino si sarebbe limitato a fare la figura del cretino. Prese un respiro profondo, cercò di riordinare le idee e poi disse: “oppure, al momento del bisogno potrei evocare di fronte a me un intero castello fortificato in cui far prendere rifugio ai miei compagni d’avventura, mentre soldati mossi dalla mia magia difendono le mura dall’esercito che attacca. O meglio ancora, potrei rendere il castello invisibile a tutti gli altri, di modo che gli estranei ci passino attraverso senza nemmeno rendersi conto di star calpestando il mio rifugio. E molte altre cose di questo genere, al bisogno. Posso fare praticamente tutto”. In fin dei conti, non suonava poi così male.
Se non altro, stavolta aveva colto nel segno. Un guizzo di gioia cristallina attraversò gli occhi di Viviana. “Ma è un incanto prodigioso! Vi prego, fatelo per me”.
“Ehm. Cosa, il castello magico?”.
“Sì! Sì, per favore”. Era palpabile l’entusiasmo nello sguardo della ragazza, che dal canto suo era anche scattata in piedi. Reprimendo un sorrisetto, Merlino sentì di avere finalmente il coltello dalla parte del manico: “volentieri, ma non oggi. Ho una missione diplomatica da svolgere urgentemente. Lo farò con piacere, se mi darete il permesso di venire a trovarvi ancora”.
Per un attimo Viviana sembrò arrossire, ma forse era solo l’effetto del riflesso del sole sulle acque. Fatto sta che abbassò pudicamente lo sguardo e replicò “con gioia”.
Merlino si stava già piegando in un inchino per accomiatarsi, quando Viviana parlò di nuovo: “però, una cosa”, e c’era come una nota di urgenza nella voce, nello sguardo: “la vostra magia non vi permette di sapere niente, riguardo a ciò che ha in serbo per voi il futuro?”.
Si guardarono in silenzio per qualche secondo, gli occhi negli occhi. “Signora, sono un profeta. Ho perfetta conoscenza di tutto ciò che serba il futuro, sia per me che per il mondo intero”.
“Dio mio”, sussurrò Viviana. “E allora, perché siete venuto qui a cercarmi?”.
Merlino avrebbe voluto dire e chiedere mille cose, ma la sua strategia fu quella di restare in silenzio limitandosi a sorridere dolcemente alla ragazza. Poco dopo, si inchinò per prendere commiato.
Glossa
Quella notte, poiché non riusciva a dormire, Merlino si mise a pancia in su nel letto e cominciò ad analizzare con piglio accademico i primi sintomi della malattia d’amore, che gradualmente iniziavano a manifestarsi.
A parte i soliti (tachicardia, insonnia, nausea, difficoltà di concentrazione), il mago ebbe modo di notare che non s’era mai sentito così fragile e umano in tutta la sua vita.
Ecco, probabilmente la chiave di tutto era proprio questa, rifletté Merlino lucidamente: non si era mai sentito così tanto umano.
Di testi su di lui ne erano già stati scritti tanti, ma fino a quel momento nessuno l’aveva mai dipinto nell’atto di condurre una vita così normale. Era da quando Goffredo di Monmouth l’aveva citato nella sua Historia Regum Brittaniae che Merlino camminava tra le pagine della letteratura inglese come un enigmatico Anticristo, nato dall’unione di un demone e di una vergine e forse (solo forse) redento dal battesimo. Avviare Morgana alle arti magiche, rendere possibile la nascita di Mordred, dare ad Artù consigli politici non sempre illuminati e influenzare il comportamento delle masse divulgando profezie curiosamente inattendibili erano state, fino a quel momento, le tappe principali della sua carriera, studiate ad hoc perché il lettore si domandasse “ma questo, sotto sotto, a che gioco sta giocando?”.
In alternativa, era stato presentato in altre opere come un profeta mezzo pazzo, un Wild Man uscito di testa dopo un grave trauma che viveva in mezzo ai boschi come un selvaggio. Un profeta astrologo, più che un mago; una specie di oracolo con un debole per la pastorizia, un personaggio uni-dimensionale la cui principale funzione narrativa era quella di fare da spalla ai protagonisti fornendo profezie.
Ma poi, qualcosa era cambiato. Merlino aveva cominciato a guadagnare popolarità tra i lettori dei romanzi, conquistandosi uno spazio sempre più ampio nella narrazione. Come se non bastasse, s’era cominciato a mormorare che il mago dei romanzi fosse esistito veramente: nel nome di Merlino Ambrosio avevano cominciato a circolare opuscoli contenenti profezie di natura politica tenute in gran considerazione. Erano persino spuntati degli occultisti che proclamavano d’essersi formati sui testi di magia composti da quel saggio e firmavano i loro studi con pseudonimi roboanti sulle linee di ‘l’erede di Merlino’.
Insomma, la situazione era profondamente cambiata rispetto a cento, centocinquant’anni prima; e nessuno dei sedicenti emuli di Merlino aveva piacere di dover sottintendere di aver studiato alla scuola di un montanaro pazzo (o peggio ancora dell’Anticristo). E così, il Merlino enigmatico e tenebroso aveva cominciato lentamente a schiarirsi. Sotto la penna di Robert da Boron era diventato un personaggio più profondo e sfaccettato; l’autore anonimo del ciclo del Lancillotto-Graal l’aveva voluto rendere ancor più debole e ancor più umano, dipingendolo al massimo della sua fragilità nell’atto di innamorarsi per la prima volta di una donna.
Il Merlino antieroe romantico avrebbe avuto vita breve. Di lì a poche decadi sarebbe arrivata quella moda dei maghi barbuti e asceti che avrebbe finito col risucchiare pure lui nel mucchio di quei canuti intonacati. Ma quella notte, mettendosi a tavolino per appuntare quelle emozioni inedite che stava sperimentando, Merlino rifletté sul fatto che quei poveri fissati non sapevano cosa si stavano perdendo. In fin dei conti era un’interessante esperienza formativa, sentirsi come si sentiva lui in quel momento.
Capo III
Non aveva mai fatto così tante raccomandazioni in vita sua prima di iniziare un’evocazione. “No, davvero, è pericoloso. Non avvicinatevi. Sembra una cosa innocente, ma dovrò muovere forze che non volete incontrare”.
“Ho capito!” esclamò Viviana un po’ piccata. Era la quinta volta di fila che glielo ripeteva…
Era passato poco tempo dal loro primo incontro: giusto il tempo di far visita a Carhaix, consegnare la strategia agli altri interessati (contestualmente, ripassare il rito per tirar su il castello magico) e Merlino s’era ritagliato un giorno libero per tornare da Viviana. E così, quella mattina, dopo un ultimo “mi raccomando”, il mago s’avviò al limitare della foresta e tracciò in terra un grosso cerchio con la punta del bastone. Passarono alcuni minuti in cui sembrò che non succedesse nulla, poi Merlino tornò sui suoi passi raggiungendo Viviana accanto alla sorgente.
Non dovette passare molto tempo prima che davanti alla ragazza cominciassero a sfilare dame, cavalieri, damigelle e paggi che uscivano dal folto della foresta. Tutti quanti si tenevano per mano e danzavano e cantavano con una grazia mai vista sulla terra; e assieme a loro v’erano acrobati, ballerini, musici, cantori e cuochi che reggevano vassoi pieni di prelibatezze. E subito dopo, sull’altra sponda del lago apparve dal nulla un castello maestoso, con torri sottili, alte e aggraziate; e attorno al castello cresceva un giardino pieno di fiori e frutti, che riempivano l’aria di un aroma così dolce da non potersi descrivere a parole.
Viviana era rimasta a bocca aperta. Letteralmente: s’era girata verso Merlino, a occhi sgranati, ma tale era lo stupore che non era riuscita a far parola. Aveva parlato per lei il mago, dicendole “godetevelo”; e aveva sorriso nel vedere tutto quell’entusiasmo nel visetto fresco della donna.
Era l’ora nona quando Merlino aveva lanciato la sua evocazione, e la festa di corte andò avanti fino all’ora dei vespri. E la gente che abitava nei pressi della foresta si incuriosì per il rumore, e anche chi abitava più lontano stralunò nel vedere, affacciandosi alle finestre, quel castello spuntato lì dal nulla. Sicché, in quel giorno, furono in molti ad addentrarsi fino al limitare della foresta di Brocelandia: e tutti loro videro con i loro occhi il giardino, il castello, le danze e le dame, e non vi fu nessuno che non rimanesse a bocca aperta di fronte a quello spettacolo inaudito.
Glossa
Mentre, in disparte, contemplava il frutto del suo lavoro, a Merlino venne la tentazione di rider di se stesso. Ci voleva anche un certo dispendio di energie, a creare ‘sto ambaradan e a tenerlo su per tutto il giorno: se gli avessero detto, qualche luna prima, che si sarebbe ammazzato di fatica al solo scopo di creare un parco giochi, non ci avrebbe creduto a meno di non aver controllato egli stesso attraverso le pieghe del futuro.
Però era venuto bene, osservò con blando compiacimento. Era un castello ben grazioso, costruito in pietre chiare, con torri alte e affusolate e quel bel giardino a fargli da contorno. Era un castello per signore, o quantomeno: la sua personale interpretazione del concetto.
A poche pagine di distanza, l’autore del Lancillotto-Graal si sarebbe soffermato in una dettagliata descrizione del castello di re Artù: un bastio fortificato, tozzo e voluminoso, costruito su più livelli di protezione per poter garantire una difesa armata agli abitanti.
E giustamente, eh. Ci mancava solo che Artù si facesse prendere dall’uggia della ristrutturazione. Ma dovendosi improvvisare architetto per Viviana, Merlino si era messo di impegno per creare quanto di più lontano al mondo potesse esistere dal modello del bastio militare.
Il confronto era inevitabile e impietoso. Rispetto a Camelot e ai suoi intrighi, quanto più bello, più dolce e più sicuro era il microcosmo che Merlino aveva creato per la donna che amava!
Curiosamente, sarebbe stata quella la costante di tutta la loro storia.
Mentre la corte di Artù andava avanti a suon di stupri, scappatelle e tradimenti coniugali, Merlino e Viviana avrebbero vissuto, tra le pagine del Lancillotto-Graal, la love story più pura, più serena e più pacata di tutto il ciclo. In un universo in cui l’idea di “amor cortese” era diventata la scusa per andare a letto con l’amante, Merlino sarebbe rimasto saldamente aderente alla versione primigenia di questo sentimento, diventando il perfetto interprete di quel concetto iniziatico di fin amor che spinge l’amante a superare i suoi limiti per diventare un uomo migliore. Se il bacio è un apostrofo rosa tra le parole “t’amo”, l’amore tra Merlino e Viviana nel ciclo del Lancillotto-Graal sarebbe stato davvero una parentesi di purissimo candore in mezzo a un coacervo di violenza, di inganni e di lussuria.
Una storia d’amore per pochi. Forse ancor meglio: una storia d’amore per intenditori.
Capo IV
Il sole ormai era tramontato e il castello era stato opportunamente inghiottito dalle tenebre: allora, le signore di corte sedettero sull’erba assieme alle loro dame di compagnia prendendo a chiacchierare del più e del meno, mentre i cavalieri si sfidavano a torneo su un agone illuminato da cento e mille torce infuocate.
Solo a quel punto Merlino si avvicinò a Viviana, provando a sfiorarle con le dita il palmo della mano. “Allora. Cosa ve ne è parso?”.
Viviana si girò a guardarlo con due occhi che brillavano di entusiasmo e strinse la mano attorno a quella del mago. “Cosa me ne è parso? Credo che quello che avete appena fatto basterebbe per far cadere ai vostri piedi qualsiasi donna!”.
“Ne ho piacere” fece lui mentre si girava per prendere un po’ di frutta candita da un vassoio, giusto per non apparirle troppo compiaciuto.
“È accorsa qui un sacco di gente, l’avrete visto. Uh, grazie” (Merlino le aveva appena passato un bastoncino di zenzero). “Hanno detto tutti che c’è una sola persona al mondo capace di compiere un prodigio simile, e quella persona è mago Merlino”.
Il diretto interessato sorrise, addentando il suo candito. “E così avete scoperto la mia identità, e tuttavia non io la vostra. Se fossi davvero un menestrello… cosa che evidentemente non sono, direi probabilmente qualche idiozia circa il fatto che siete così bella da sembrarmi una fata. Ma giacché sono un mago”, e si girò a guardarla, “vi pregherò di interpretarla come una domanda data da curiosità professionale. Siete effettivamente una fata, non è vero?”.
“Sì”, gli rispose Viviana quietamente. “Una fata delle acque; o così ci chiamate voi umani”.
“Appropriato” mormorò Merlino a mezza voce, osservando di lontano i cavalieri che si davano battaglia nel torneo. “E giacché sembrate sapere molte cose del futuro, ditemi: da quando, le fate hanno il potere di conoscere ciò che ancora deve venire?”.
La ragazza scosse il testolino. “Non è un potere delle fate, ma è un potere che posseggono gli dèi. A me lo vaticinò Diana, che è la madrina di mio padre: disse che io sarei stata amata dal più potente e dal più saggio di tutti maghi della terra, e che tramite lui avrei appreso l’arte della magia”.
Quantomeno, la cosa risparmiava un sacco di convenevoli. Merlino fissò lo sguardo sulla fiammella che danzava col vento su una fiaccola. “E dunque, a quanto pare, conosciamo entrambi ciò che è scritto per noi negli astri”.
Viviana stava continuando a stringergli la mano, e anzi adesso rese un po’ più salda la sua presa. “Mi insegnerete la magia?”.
“Mi permetterete di corteggiarvi, per tentare di ottenere il vostro amore?”.
La donna scoppiò in una risata cristallina: “Merlino, ma quello ce l’avete già. Ho passato tutta la mia vita nell’attesa di questo momento: io vi amavo di lontano fin da prima di incontrarvi!”.
Glossa
Era passato un bel po’ di tempo da quel giorno, e Merlino era tornato a Camelot per dedicarsi al suo lavoro. Era nel bel mezzo di un pomeriggio di studio, quando ebbe bisogno di andare a prendere dalla libreria una copia del manuale di necromanzia di Zabulon; quando lo aprì, l’occhio gli cadde sul nome del mago che ne aveva curato la traduzione: Virgilio.
Sì, quello dell’Eneide. Nel Medioevo, era cosa universalmente nota (!) che Virgilio fosse stato un mago, fondatore di una scuola di magia in quel di Napoli.
Il pensiero gli corse a quanto si raccontava del mago e agli aneddoti più gustosi della sua biografia, e improvvisamente a Merlino scappò da ridere. Vuoi vedere che alla fine avevano ragione i medici, ed è biologicamente impossibile che un mago si innamori senza prendersi una sbandata colossale?
Quella del mago innamorato che si invaghisce di una donna e comincia a comportarsi come un ragazzino alla prima cotta era un topos che attraversava la letteratura in maniera trasversale, nell’epoca in cui Merlino andava incontro alla stessa sorte.
Di Virgilio, si raccontava che avesse perso la testa per una donna che, per farsi beffe di lui, gli aveva dato un appuntamento notturno per un incontro clandestino ma gli aveva detto di non poterlo far entrare dalla porta, per paura di essere notata dai suoi servitori. Al fine di evitare lo scandalo, gli aveva ordinato di infilarsi in un cesto che lei avrebbe provveduto a tirar su con un argano: accecato dal desiderio, il fesso aveva ubbidito, sennonché la donna l’aveva lasciato lì, appeso a mezz’aria in un gabbiotto, destinandolo alle inevitabili prese in giro dei passanti che se l’erano ritrovato a chiamare aiuto al primo sorgere del sole.
Di Aristotele (un altro che nel Medioevo era ritenuto esperto nello studio delle arti arcane) si raccontava di come fosse caduto nelle trame della stupenda Phyllis, che a corte aveva già sedotto Alessandro Magno. Aristotele aveva rimproverato il suo pupillo, ricordandogli che l’amore è una debolezza capace di far compiere imprudenze. Saputolo, Phillys se l’era legata al dito e aveva cominciato a tessere attorno ad Aristotele la sua tela di seduzione; naturalmente, il filosofo ci era caduto, innamorandosi senza contegno né riserva. Se ne sarebbe pentito quando, con la scusa d’un gioco d’amore, Phyllis lo convinse a farsi cavalcare nudo nel giardino del palazzo (proprio a mo’ di cavallo, a gattoni con tanto di sella e briglie), promettendogli discrezione e guidandolo invece fino al punto in cui aveva avuto cura di far radunare la corte intera.
E che dire poi di Abelardo, portato alla rovina dal suo amore per Eloisa? Il filosofo non era mai stato accostato alla magia, ma la sua storia aveva certamente contribuito a imprimere nell’immaginario collettivo la convinzione che un intellettuale innamorato sia destinato ad ardere di un sentimento che non riuscirà a controllare.
Dietro a questo pensiero c’era anche una spiegazione medica, che affondava le sue radici nella teoria galenica dei quattro umori. Non si finisce col diventare filosofi (né tantomeno maghi) se non si è individui caratterizzati da una naturale prevalenza di umori freddi-umidi: sono quelli a determinare l’indole di un intellettuale, facendolo nascere con inclinazione allo studio. Lo stile di vita di un individuo che passa sui libri la sua esistenza non faceva che aumentare questo squilibrio, rendendo l’organismo dell’intellettuale più freddo e umido del circolo polare artico.
Ma allora, era biologicamente inevitabile che la persona andasse incontro a un forte shock nel momento in cui il calore secco dell’amore cominciava a scoppiettare nel suo cuore. È come gettare del ferro arroventato in una tinozza piena d’acqua fredda: questa andrà in subbuglio per legge di natura, cambierà completamente aspetto e consistenza; cosa che invece non accade con pari evidenza quando il metallo rovente è gettato nella sabbia.
È questa la ragione per cui, nei testi medievali, i sanguigni cavalieri amano con passione ma i melanconici intellettuali amano di un amore che è travolgente, incontrollabile, totalizzante e incondizionato.
Era questo il destino di Merlino, il quale, sbirciando nel suo futuro, aveva quantomeno la consolazione di sapere che a lui sarebbe stata risparmiata l’umiliazione pubblica: a differenza degli altri suoi colleghi, lui aveva avuto in sorte di innamorarsi di una donna dal cuore buono.
Rifletté sul fatto che gli era andata di lusso. Poi rifletté anche sul fatto che era da mezz’ora che si distraeva rimuginando sulla vita intima dei suoi colleghi quando invece avrebbe dovuto studiare quel benedetto manuale di necromanzia: se era destino che le cose gli andassero di lusso, di certo non si poteva dire che il merito fosse suo.
Capo V
Per impartire a Viviana la prima lezione di magia, Merlino aveva accuratamente evitato i testi più oscuri; e quando s’era reso conto di non averne uno sufficientemente innocuo, s’era preso la briga di scrivere di suo pugno una decina di congiurazioni semplici compilando un piccolo grimorio per principianti.
Nel consegnarlo a Viviana, ebbe cura di non perdersi nemmeno una delle espressioni che apparvero in rapida successione sul visino della donna mentre lei sfogliava avidamente il manuale. Il sentimento prevalente dava l’aria di essere lo sconcerto, e infatti Viviana a un certo punto gli lanciò una occhiata esterrefatta: “ma cos’è che sto leggendo?”.
Merlino buttò un occhio sul grimorio. “Quello? Serve a richiamare uno specchio d’acqua là dove il terreno è arido, ho pensato che per voi potesse essere interessante”.
“Sì, ma…”. Viviana tornò a guardare il libro, disorientata. C’erano due righe in croce di testo scritto con inchiostri colorati: tutto il resto della pagina era occupato da cerchi, figure geometriche sbilenche e simboli che s’attorcigliavano l’uno all’altro come serpi. Con ogni evidenza, Viviana non se ne capacitava. “Questa non è magia: è tecnica!”.
E Merlino se lo godette tutto, lo stupore sul viso della donna, prima di iniziare a spiegarle mano a mano come pronunciare i simboli, da quale lato guardar le lamine, come sciogliere le abbreviature e da quale punto cominciare per leggere le candarie. Era effettivamente una tecnologia complessa, e Viviana ci mise un po’ a padroneggiarla. Ma non appena capì come funzionava il meccanismo, mostrò d’avere tutte le carte in regola per poter eguagliare un giorno il suo maestro.
Glossa
“N’avoit point d’ecantement, ains estoit fait per soutillité et par engein” è una delle osservazioni più acute e pertinenti che ci si potesse aspettare da una studentessa di magia che sfogliava un grimorio per la prima volta. Aveva tutte le ragioni per stupirsi, la giovane fata: ché davvero la magia praticata da Merlino non si basava sui comuni incantesimi noti alle donnette, ma richiedeva l’uso esperto di una tecnica complessa.
Viviana aveva compreso a colpo d’occhio un dettaglio che il lettore moderno fatica probabilmente molto più a cogliere. Ovverosia: ma dove sta tutta ‘sta differenza? Da quando in qua, una fata ha bisogno di prender lezioni da un mago per imparare a fare le magie?
Il fatto gli è che, nel Medioevo, la gente sufficientemente colta da poter leggere un romanzo aveva un’idea abbastanza precisa di cosa fosse la magia. Strano ma vero, alle arti arcane ricorrevano all’epoca medici, intellettuali e guaritori di campagna; sicché, ogni individuo sufficientemente istruito sapeva benissimo che esistevano due tipi di magia.
Uno, di appannaggio prevalentemente femminile, era quello che l’Inglese chiama sorcery e che alcuni traducono in “fattucchieria”: quella che si riteneva traesse la sua forza dalla manipolazione accorta degli elementi di natura.
Il secondo tipo di magia era praticato dai maschi in via quasi esclusiva. In questo caso, “negromanzia” e “negra magia” erano tecniche così simili da diventare quasi sinonimi: attraverso complessi rituali, il mago evocava sulla terra entità ultraterrene e le aggiogava al suo potere. Evidentemente, entità di tale fatta hanno abilità che sono precluse a un normale essere umano: essendo in grado di dar loro ordini, il mago era in grado di far (fare loro) cose prodigiose.
Ecco: il fatto è che questa magia (quella in cui Merlino era perito) non era tradizionalmente praticata dalle donne. Né nella vita vera, né nel mondo delle fiabe.
Sicché, era davvero eccentrico che il nostro mago avesse il ghiribizzo di insegnare magia nera a studentesse femmine. E non è che avesse fatto uno strappo alla regola per Viviana: era già da un bel po’ di tempo che Merlino era noto nella letteratura per l’aver fondato una scuola di magia aperta alla frequenza femminile.
Strana, eccentrica, rivoluzionaria per quei tempi, l’idea di un maschio che istruisce maghe donne. Sorprendente, geniale, davvero dirompente, l’idea di un maschio che insegna la magia nera a donne che oltretutto sono fate.
Sì: perché delle fate, tutt’al più, un mago si serviva nel corso delle sue attività professionali. Nella tradizione anglosassone, le fate rientravano nel novero di quelle entità ultraterrene che il mago-necromante poteva evocare in terra al fine di assoggettarle e impartire loro ordini. La sola idea che un mago, trovandosi con una fata a sua disposizione, le insegnasse le arti oscure invece di renderla sua schiava, rappresentava un qualcosa di totalmente irrituale.
Naturalmente, i contemporanei di Merlino avevano avuto modo di spettegolare molto, circa le motivazioni che stavano dietro a una scelta così bizzarra, ed era noto a tutti che Merlino chiedesse una retta molto alta alle donne che s’iscrivevano alla sua scuola di magia: il prezzo da pagare era la loro verginità, unita alla promessa di concederglisi in ogni momento.
Fra parentesi, il fatto era così noto che Merlino aveva faticato a credere alle sue orecchie quando Viviana, quietamente, gli aveva detto “no”. La ragazza l’aveva voluto mettere in chiaro fin da subito: lei non aveva la minima intenzione di pagare un prezzo così immorale. Merlino le avrebbe insegnato gratis tutto quello che sapeva, oppure non le avrebbe insegnato affatto; nel qual caso, poteva anche uscire dalla sua vita, ché Viviana non aveva piacere di frequentare un uomo che non sa controllare i bassi istinti.
C’erano mille e mille ragioni per il cui il lettore medievale avrebbe potuto fare tanto d’occhi di fronte a quella lezione di magia. Se non fosse stato abbastanza assurdo vedere un uomo che insegna a una donna la necromanzia; se non fosse stato abbastanza sconvolgente vedere un mago che istruisce una fata invece di soggiogarla: se tutto questo non fosse bastato, la cosa veramente incredibile sarebbe stata vedere Merlino che accettava una donna come sua pupilla senza chiederle nulla in cambio, pur desiderandola.
Sarebbe bastato quel singolo dettaglio per capire fin da subito che c’era in ballo qualcosa di grosso e che quella, per Merlino, non era una donna come le altre.
Capo VI
In ogni caso, la speranza è sempre l’ultima a morire.
Avere una perfetta conoscenza del futuro e quindi sapere alla perfezione che anche quella sera sarebbe andato in bianco non esimeva comunque Merlino dal provarci in ogni caso, se non altro per una questione di orgoglio virile.
Alla fine, era anche un gioco di seduzione, uno scherzo condiviso in una storia d’amore che ormai andava avanti da parecchi mesi e si era ben consolidata. Ne era passata di acqua sotto ai ponti, da quella prima timida lezione di magia: Viviana aveva fatto progressi impressionanti e nel frattempo era cresciuto anche il sentimento tra lei e il suo maestro, che ormai erano una coppia a tutti gli effetti.
Una coppia costretta a una relazione a distanza: ché Viviana non ci pensava proprio a lasciare il lago, e Merlino non poteva permettersi il lusso di trascorrere troppo tempo lontano dal lavoro. La situazione politica si stava facendo sempre più delicata e i Sassoni premevano minacciosi sul confine: il consigliere di Artù aveva dovuto faticare e anche impuntarsi, per riuscire a ritagliarsi un periodo di riposo da trascorrere con la sua donna. Lei, d’altro canto, aveva accettato ben volentieri di ospitarlo a casa sua.
E qui si torna al fatto che sapere di non avere chance non esime dal provarci in ogni caso, di tanto in tanto. “Qui è tutto bellissimo, e l’accoglienza non avrebbe potuto essere delle migliori” aveva detto lui una sera, mentre sorseggiavano un calice di vino. “Ma ecco, se posso… c’è un unico dettaglio: si vede, che questa è una casa fatta per fate delle acque. La sera diventa parecchio umido per le mie povere ossa”. E lì aveva tentato un sorrisetto malizioso: “oh, se solo avessi qualcuno da abbracciare la notte. Sapete, per scaldarmi. È un riguardo che fareste a una razza inferiore e cagionevole; puramente una questione di salute…”.
Non si sarebbe stupito se Viviana gli avesse tirato uno schiaffo in faccia. Invece, con un guizzo divertito nello sguardo, la ragazza aveva posato il suo calice di vino, si era allungata verso di lui e aveva sussurrato “oh, povero Merlino. Non immaginavo, bastava dirlo”. E poi aveva posato la mano sulla coscia del mago, tracciandovi lentamente un cerchio con la punta del dito indice.
Merlino abbassò lo sguardo con una certa curiosità intellettuale, giusto in tempo per vedere un guanciale materializzarsi sulle sue gambe, evocato dalla magia di Viviana. Lei era già tornata al suo posto e aveva ripreso il calice di vino ridacchiando. “Piuma d’oca, eh. Bello caldo. Sono sicura che, abbracciato a questo, non avrete problemi a prender sonno”.
Onestamente: Merlino ci restò di sasso. Il siparietto era così assurdo che dovette prendersi qualche istante per controllare che sarebbe stato scritto nei libri per davvero: e in effetti sì, c’era veramente, al capo 52 della Storia di Merlino del Lancillotto-Graal. Davvero il mago più grande di ogni tempo aveva ricevuto un due di picche sotto forma di un cuscino evocato dalla magia di una studentessa alle prime armi.
La cosa era così surreale che, quella notte, Merlino se lo portò in camera per davvero, il suo cuscino. E guardandolo lì sul letto scoppiò a ridere, di una risata profonda e godutissima: ci va già una buona dose di faccia tosta e di confidenza, per fare una roba simile a una persona che, se gli gira, t’ammazza con una sola sillaba.
E poi la gente si sarebbe stupita nel vedere Merlino innamorarsi come una pera cotta. Ma dai: di una così, come avrebbe potuto non innamorarsi?
Glossa
Che poi, a conti fatti, era davvero così importante riuscire a consumare quell’amore?
Quella notte Merlino se lo chiese, e in tutta onestà dovette rispondersi che in effetti no. Non non necessariamente; quantomeno, non necessariamente nell’immediato.
Nelle riscritture della loro storia che sarebbero state fatte nei secoli a venire, la componente sessuale sarebbe diventata un elemento sempre più determinante.
Determinante, perché Merlino sarebbe stato dipinto come un maniaco infoiato disposto a tutto pur di portarsi a letto la ragazza. Determinante, perché Viviana sarebbe stata ritratta come una verginella disgustata alla sola idea (cosa anche comprensibile visto che nel frattempo, nell’immaginario collettivo, Merlino era diventato un anziano dalla barba bianca, sicché lo scenario s’era evoluto in quello di un vecchio bavoso che correva dietro alle adolescenti. Francamente, un quadro disturbante ai limiti della pedofilia).
Assecondando quel deplorevole istinto che da sempre hanno le fate nel folklore inglese, a un certo punto Viviana avrebbe cominciato a rapire i figli degli umani (Lancillotto sarebbe stato il più celebre dei suoi stolen children). Forse ignorando il fatto di folklore per cui le fate inglesi sono rapitrici seriali per natura, alcuni autori dell’Europa continentale avrebbero avuto modo di commentare, col passar dei secoli, che evidentemente Viviana rapiva bambini per non doversi sottoporre a quelle incombenze cui deve sottostare una donna che vuole avere figli. Una assurdità totale, ma non priva di una certa verosimiglianza: per allora, molti autori del ciclo arturiano avevano cominciato a dipingerla come una donna davvero complessata, con un grosso problema di sessuofobia che avrebbe fatto bene ad affrontare con uno bravo.
Frequentemente gli autori l’avrebbero dipinta nell’atto di ammazzare Merlino, perché mossa da un odio viscerale nei suoi confronti. Quasi sempre, questo odio sarebbe stato motivato dalle molestie di quel corteggiatore indesiderato, ostinato al punto tale che, in certe versioni della storia, Viviana era costretta a proteggersi con la magia non perché volesse scherzare (o mettere alla prova il suo innamorato), ma perché realmente aveva il timore di poter essere stuprata.
Ma non così nella storia che stiamo raccontando; non così nel ciclo del Lancillotto-Graal. In queste pagine, l’amore tra Merlino e Viviana risplende in tutta la sua innocenza genuina, rispettosa e giovanile.
“Genuina” perché realmente Merlino ama Viviana: non si limita a desiderarne il corpo; le vuole bene per davvero. “Giovanile” perché il mago era sì un uomo vissuto, ma Viviana era ragazza alla sua prima storia; “rispettosa” perché nemmeno il più spregiudicato dei tombeur de femmes si sarebbe preso a cuor leggero la verginità di una dama a cui teneva veramente.
Era anche comprensibile che la gente si stupisse e iniziasse a fare illazioni su questo amore casto, tenuto conto di quanto doveva sembrare irrituale in un contesto come quello della corte di re Artù, in cui le donne andavano con tutti senza il minimo riserbo e i cavalieri avevano più corna di un cesto di lumache. Ma le pagine del Lancillotto-Graal sembrano lasciar intendere che non c’è proprio niente di strano, non c’è alcun segreto arcano dietro le motivazioni che spingono i due a non strapparsi i vestiti di dosso fin dal primo appuntamento. Nulla più di un riguardoso rispetto delle convenzioni, come si confà a un amore reciprocato che ambisce a diventare qualcosa di più serio di una storiella come tante.
Capo VII
In condizioni ordinarie, se solo (se solo!) Merlino avesse avuto una vita normale, avrebbe già provveduto da un bel po’ di tempo a mettere una fede al dito di Viviana. In fin dei conti, ormai stavano assieme da un paio d’anni.
Il fatto è che, negli ultimi tempi, la vita di quel poveretto era diventata un disastro completo. O meglio: disastrose erano le condizioni di Camelot, pressata su più fronti dalle invasioni sassoni e governata da un ragazzotto che giocava (male) a fare il re. Che una guerra fosse all’orizzonte, era chiaro a tutti; che la magia di Merlino fosse l’unica speranza di vincerla, era evidente ai più.
Un’unica persona al mondo nutriva qualche dubbio sulle effettive possibilità di vittoria di un esercito guidato dal mago. E quella persona era il mago stesso, che francamente non si sentiva mica tanto bene di quei tempi. Praticare la magia nera ad alti livelli richiederebbe quantomeno un livello minimo di concentrazione; e in tutta onestà, ultimamente Merlino faticava molto a mantenere il focus. Per quanto ci provasse, il suo pensiero tornava inesorabilmente su Viviana proprio come il ferro viene attratto da una calamita.
Secoli più avanti, i pittori preraffaelliti che avrebbero dipinto gli ultimi mesi di vita di Merlino si sarebbero divertiti a disegnarlo coi tratti di un malato terminale. E in effetti, quella malattia d’amore cantata dai trovatori lo stava lentamente consumando dall’interno: stare lontano da Viviana era uno strazio, riabbracciarla era come bere una boccata d’acqua nell’arsura, separarsi da lei con la prospettiva di dover tornare a Camelot era così doloroso da provocargli un male fisico.
E infatti quel giorno, ridendo, Viviana aveva dovuto divincolarsi, per sciogliersi dall’abbraccio di Merlino. “Essù. È ora, dovete andare. A occhio, era ora di andare almeno tre ore fa”.
“Ho ancora un po’ di tempo” aveva pietosamente mentito lui sapendo di mentire, mentre provava, inutilmente, a tirare di nuovo a sé la fata. “Posso viaggiare con la magia”.
“In questo stato? Ma non credo proprio”. E carezzandogli dolcemente i capelli, aveva sussurrato: “su, quest’ultimo sforzo. Vincete una volta per tutte, e poi parleremo seriamente del futuro”.
Glossa
E sarà stato che era poco lucido; sarà stato che era di parte; sarà stato (principalmente) che era d’umore nero… ma quando Merlino montò a cavallo e si girò a guardarla un’ultima volta, gli si strinse il cuore pensando al modo in cui Viviana sarebbe stata maltrattata nei secoli a venire, per l’unica colpa di essergli voluta stare al fianco.
I tratti freschi e chiari di quella damigella si sarebbero scuriti sempre più col passar del tempo. Non bastava che gli autori l’avessero fatta diventare una sessuofoba che uccide la gente a sangue freddo: dettagli sempre più inquietanti si sarebbero aggiunti mano a mano. Alcuni l’avrebbero dipinta come una necrofila bacchettona che ammazza gli uomini per dar loro una lezione. Altri l’avrebbero ritratta come una fedifraga, che aveva dato a Merlino false speranze pur di ottenere i suoi insegnamenti mentre in realtà aveva una relazione con un altro uomo.
Il fatto che Viviana fosse la madre adottiva di Lancillotto, e che una dama di tal fatta non potesse essere che buona, aveva creato un curioso cortocircuito in tutti quegli autori che, d’altro canto, si ostinavano a dipingere Merlino come un fesso innamorato ingannato da una donna manipolatrice. A un certo punto, il personaggio aveva finito con lo sdoppiarsi: vale a dire, esisteva la Dama del Lago fatata e buona, che aveva cresciuto il prode Lancillotto, e poi esisteva l’ambiziosa donna macchinatrice che seduceva Merlino per i suoi crudeli scopi.
Nell’Ottocento, i Preraffaelliti avrebbero aggiunto il carico da novanta. Edward Burne-Jones, un artista irrisolto con una turbolenta vita sentimentale, avrebbe sviluppato una vera e propria ossessione per Merlino e per Viviana, proiettando su di loro le sue personalissime frustrazioni. Il suo pennello sarebbe stato determinante per attribuire a Viviana quei tratti da femme fatale che, da quel momento in poi, la poverina non sarebbe più riuscita a scrollarsi di dosso: evidentemente, alla sensibilità moderna sarebbe stato impossibile pensare che un mago potesse volontariamente rinunciare a tutto ciò che aveva, e solo per amore. Ci doveva essere sotto qualcosa di molto losco (così dovevano aver pensato le future generazioni); e una donna capace di ottenere una vittoria così eclatante doveva necessariamente essere una manipolatrice abilissima e crudele.
A Merlino prudevano le mani quando pensava al trattamento ingiusto che la ragazza avrebbe subito nei secoli per colpa sua. Il più vero e autentico ritratto di Viviana era quello che lui stesso aveva voluto far mettere per iscritto nelle Prophesies de Merlin: “Morgana è certamente nata tra il fuoco del peccato. Invece, sono persuaso che la dolce dama del lago sia nata in qualche posto molto vicino al Paradiso”.
Capo VIII
Narrativamente, era una manna dal cielo il fatto che Merlino avesse preso l’abitudine di visitare l’eremo di Blaise quando sentiva il bisogno di prendere una pausa. Pareva quasi che le sue assenze fossero studiate a tavolino, giacché arrivavano sempre in concomitanza con problemi che Artù e i suoi cavalieri erano costretti a gestir da soli, senza poter ricorrere alla scappatoia della magia.
Una coincidenza così felice da non essere una coincidenza (è così che mano a mano si rende indipendente un ragazzino); e tuttavia, la verità dei fatti è che Merlino aveva davvero piacere di passare di tanto in tanto un po’ di tempo in compagnia del suo caro Blaise.
L’anziano sacerdote che lo aveva visto nascere era rimasto fedele a Merlino per tutti quegli anni. Se il mago se l’era messo al fianco per usarlo come biografo e archivista, da quella collaborazione aveva ricavato un amico vero: a parte Viviana, probabilmente l’unica persona cui avesse mai voluto bene, avrebbero avuto modo di commentare alcuni filologi nel Novecento.
Pubblicamente, Merlino non l’avrebbe mai messa in questi termini. La sua scusa ufficiale per giustificare le assenze è che la sua natura di mezzo demone gli rendeva difficile vivere troppo a lungo in mezzo al caos degli insediamenti umani, costringendolo a periodi di ritiro in mezzo al nulla se doveva concentrarsi in vista di una grande impresa. Un sorridente omaggio letterario ai tratti da Wild Man con cui l’aveva dipinto Goffredo di Monmouth, ma onestamente nulla più: in realtà, quella del mezzo demone era davvero solo una scusa.
E così anche quel giorno Merlino aveva raggiunto l’eremo di Blaise, dopo una lunga cavalcata sotto la pioggia che l’aveva lasciato piuttosto intirizzito. Era da un po’ che armeggiava attorno alle pietre focaie con le dita intorpidite dal freddo: “senti, per piacere, puoi fare tu?” chiese a Blaise non appena quello rientrò nella stanza reggendo due tazze di tisana calda.
Il monaco inarcò le sopracciglia. “E da quando, mago Merlino ha cominciato ad accendere il fuoco come i comuni mortali?”. C’era una vena di canzonatura nella voce, ma la risposta di Merlino gli fu consegnata in tono assolutamente neutro: “da quando fatica a concentrarsi e ha smesso di usare la magia se non è indispensabile, per evitare di perderne il controllo”.
Seguì un silenzio di mezzo minuto abbondante, durante il quale Blaise approfittò per accendere il fuoco nel caminetto. Solo quando le fiamme cominciarono a scoppiettare si girò a guardare Merlino. “Sei malato?”.
Una domanda quanto mai pertinente: che stesse poco bene, ormai era palese. “È l’ultima volta che ci vediamo”, gli disse lentamente. “A te restano ancora molti anni in cui potrai piangere la mia scomparsa”.
Blaise si sforzò di restare impassibile. “La guerra coi Sassoni…?”.
Sorrise Merlino, “no, non è quello”, prendendo la sua tisana e andandosi a sedere. Aspettò che Blaise lo raggiungesse, poi chiese a bassa voce: “secondo te, riusciranno a portare a termine l’impresa? Ce la faranno, senza di me, a trovare il Sacro Graal?”.
Il monaco piegò la testa da un lato e sforzò un sorriso. “Un profeta che chiede a me un pronostico sul futuro?”.
“Non chiedevo un pronostico, chiedevo un’opinione. Una valutazione sul lavoro che ho fatto fin qui per prepararli. È tutto quello per cui ho sempre lottato, ma secondo te sono pronti?”.
Blaise esitò, diplomaticamente. “Hai fatto tutto quello che potevi”.
“Sarà vero?”, sussurrò Merlino.
“Ma certo che sì”.
Ci fu qualche secondo di silenzio, accompagnato dallo scoppiettare delle fiamme nel caminetto. Poi, Merlino ricominciò a parlare, lentamente. “Nell’anno del Signore 1927, un certo James Branch Cabell scriverà di me che sono stato solamente un burattinaio. Mi sono divertito a muovere le mie marionette finché ne ho avuto il piacere, poi ho abbandonato i personaggi del mio gioco lasciandoli allo sbando senza un canovaccio da seguire. E in tal modo, a causa del mio egoismo, sono finite la cortesia, l’età dei grandi valori e la vera società cristiana”. Lanciò un’occhiata al sacerdote: “non mi curo di ciò che viene detto di me, normalmente, ma questo è un giudizio che obiettivamente fa riflettere”.
“Oh andiamo!”, esclamò Blaise. “Non sei stato il burattinaio di nessuno!”.
Lentamente, eloquentemente, Merlino inarcò le sopracciglia.
“È l’Onnipotente a muovere l’universo e le nostre vite”, insistette il monaco. “Tu ti sei limitato a intervenire, se necessario, per realizzare i suoi progetti”.
Le labbra sottili di Merlino si piegarono in un sorriso. “Ah beh, se lo dici tu. Tu li conosci proprio come le tue tasche, i piani del demiurgo per l’umanità”.
“Quelli no, ma conosco te. E ho cieca fiducia nel tuo operato”.
Merlino inspirò a fondo, mentre il silenzio tornava a calare nella stanza. “Per curiosità, Blaise. Giusto per sapere. Ma tu te lo ricordi, di tanto in tanto, di avere di fronte colui che è tecnicamente l’Anticristo? No, perché ogni tanto me lo chiedo”, e lì portò alle labbra la tazza di tisana: “ed è l’ultima occasione che ho per parlarti chiaramente. E penso che ti meriti un po’ di onestà intellettuale. Ti viene mai il sospetto, dico il sospetto, che nonostante tutti miei sforzi la mia natura potrebbe prevalere? Oppure difenderesti il mio operato anche di fronte all’evidenza?”.
“Ma quale evidenza?”. Blaise era visibilmente disorientato. “Tutto quello che fai è buono e retto e santo”.
Merlino prese un sorso di tisana. “Tu dici?”, e c’era una nota di sarcasmo nella sua voce. “Quella cosa di aver scatenato la versione aggiornata della strage degli innocenti non è stata interpretata molto positivamente dalla gente”.
“Ma non è stata colpa tua”, s’affrettò a protestare Blaise, “è stato Artù l’unico responsabile di quell’eccidio. Tu l’avevi solamente preavvertito del fatto che era appena nato colui che un giorno sarebbe stato il responsabile della sua disfatta”.
“Avrei potuto fargli il nome del bambino e chiuderla così”.
“Ma non era questa la volontà celeste”.
“Mh”. Lentamente, prese un altro lungo sorso. “E quindi secondo te era volontà celeste che i neonati innocenti morissero a centinaia mentre io mi premuravo di mettere in salvo quell’unico che Artù stava cercando”.
“Sì, evidentemente”, fece Blaise con fermezza. “E comunque, il peso di questa colpa ricade unicamente su Artù, e lo sai bene”.
Merlino sostenne lo sguardo del sacerdote. “Lo so benissimo. Qualsiasi altro uomo meno cieco di te direbbe che il mio unico ruolo è stato indurlo in tentazione”.
Ma tant’è. Manco essere espliciti serviva a minare la fede indefettibile del buon caro e vecchio Blaise. Il sacerdote gli disse in tono paterno: “Merlino, ricordati sempre che Dio ti ha salvato con la grazia dei suoi sacramenti. Il peccato sarebbe quello di mettere in dubbio la sua misericordia”.
“Già, il peccato”. Il mago posò sul tavolo la sua tazza mezza piena e fissò distrattamente il liquido ambrato. “Non credo di avertelo mai detto, ma sai che quando Uther era in punto di morte, e io ero l’unico al suo capezzale, mi ha supplicato di andare a chiamare un prete per confessarsi, ma io gli ho detto che non c’era tempo e che doveva discutere con me della successione?”.
Blaise si agitò leggermente sulla sedia. “…beh, doveva veramente”, mormorò dopo una leggera esitazione. “Teoricamente era senza eredi. Nessuno a parte te sapeva che Artù fosse ancora vivo”.
“Doveva indubbiamente”, e Merlino gli lanciò un’occhiata, “calcolando che non avevo mai toccato l’argomento nonostante avessi avuto sedici anni per farlo. E tuttavia, che sfortunata circostanza l’aver dovuto impedire a un peccatore di confessare le sue colpe in punto di morte”.
“Ma è la tua croce, Merlino”, ribatté Blaise senza esitazione. “Conoscere il futuro e non poter fare nulla per modificarlo, neppure quando si tratta di una disgrazia, per non contraddire la volontà celeste. Un giorno, in cielo, la tua sottomissione sarà premiata”.
Fu giusto per buona creanza, se Merlino s’affrettò a bere un altro sorso di tisana per nascondere una risata al di sotto della tazza. “Ti rendi conto che ti stai ostinando a voler vedere in me una specie di santo in terra? Con tutto l’affetto, ma è ridicolo. Stai attingendo agli stilemi dell’agiografia per scrivere la vita di un mago necromante. Nessuno mai, a parte te, fornirà di me un ritratto simile”.
“Nessuno, a parte me, ti conosce così a fondo”.
Brevemente, Merlino alzò lo sguardo al cielo: inutile insistere, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. La chiacchierata, però, non era passata totalmente inosservata: sul viso del povero monaco calò d’un tratto un’ombra preoccupata e lo scriba si premurò di chiedere “perché, non ti piace come sta venendo il mio lavoro? Devo cambiare stile, correggere qualcosa?”.
Merlino rilassò le spalle sullo schienale della sedia e lanciò a Blaise quella stessa occhiata che il padre riserverebbe a un figlio piccolo e un po’ scemo. “Ma niente affatto”, e le labbra gli si piegarono in un sorrisetto. “È esattamente il tipo di ritratto che volevo che di me venisse dato”.
Glossa
Se l’Anticristo avesse avuto un po’ meno confidenza coi grimori e un po’ più di dimestichezza coi libri di preghiera, si sarebbe reso conto che aveva omesso un aggettivo importante, nel descrivere il lavoro fatto da Blaise. A tutti gli effetti, la biografia scritta dal religioso si ispirava agli stilemi dell’agiografia cistercense.
Sarebbe stato Arthur Frappier, all’inizio del Novecento, il primo a mettere in evidenza che il ciclo del Lancillotto-Graal è “un prodotto del movimento cistercense” che riverbera in ogni pagina l’ethos di quella famiglia religiosa. Qualche anno dopo, Carol Harding avrebbe avuto a dire che “ogni membro della società arturiana, se vuole scampare a un tragico finale, deve raggiungere livelli di devozione che, a quanto pare, possono essere ottenuti solo da chi vive tra le mura del chiostro. Le tentazioni di cui cadono vittime i personaggi del ciclo sono tutte tentazioni di natura mondana, spesso ordite dalle figlie di Eva”. Lancillotto, ad esempio, dopo una vita turbolenta, finirà i suoi giorni in monastero, redimendo così i suoi molti peccati.
Quanto a Merlino, davvero il suo personaggio è quello di un mago oscuro che viene dipinto come un santo in terra (!), con aneddoti che in alcuni casi citano in modo quasi letterale episodi tratti da agiografie reali, come ad esempio quelle composte da Aelred di Rievaulx. Fra l’altro, un cistercense. Carol Harding, che ha approfondito a fondo queste intersezioni, avrebbe un giorno sottolineato che nel ciclo del Lancillotto-Graal “la magia e l’occulto sono collegati in ultima istanza alla volontà divina, pur avendo un funzionamento identico a quello che hanno nella narrativa celtica. La principale preoccupazione del Merlino del Lancillotto-Graal è quella di assicurare al regno uno stabile ordine sociale”, e “non v’è alcun dubbio che per raggiungere questo obiettivo sia necessaria una rigorosa aderenza agli insegnamenti cristiani: ciò è alla base di una società stabile”. Quella del Lancillotto-Graal è una storia corale: “i singoli individui, certamente, compongono la società, ma il personaggio più importante nella saga è la comunità nel suo complesso. Il fato di Merlino rispecchia il fato della società arturiana, che a sua volta rispecchia il fato dell’umanità intera”: un elemento, questo, che è davvero caratteristico della narrativa cistercense.
“La redenzione di Merlino mediante il battesimo e la sua conseguente volontà di servire il bene sono minate e compromesse dalle umane debolezze, sue e di chi gli sta attorno. Debolezze che enfatizzano il bisogno che l’umanità sia redenta e cammini lungo il sentiero tracciato dal Vangelo. Ma gli uomini che governano la società arturiana abbandoneranno presto la retta via; l’esperimento sociale di Merlino, in ultima istanza, è destinato a fallire”.
Queste sono considerazioni da filologo, evidenti a chiunque abbia letto i testi originali; ma mai e poi mai sarebbero state espresse con tale chiarezza da quegli stessi testi, idealmente composti (attraverso l’artificio narrativo del manoscritto ritrovato) usando come traccia le carte archiviate da Blaise.
Mai e poi mai, in quelle carte, si sarebbe sentito parlare “caduta” di Merlino (ammesso e non concesso che Merlino abbia mai voluto tender verso l’alto) né men che meno di “fallimento” dell’esperimento sociale da lui congeniato.
E del resto, come ci si potrebbe aspettar qualcosa di diverso?
Anche Blaise era una marionetta in quel grande esperimento.
Capo IX
La guerra contro i Sassoni era stata una vittoria a tutto campo, la più gloriosa e dirompente delle imprese di Merlino. Troppo importante era la riuscita perché lui potesse usare il riguardo di mettere Artù in buona luce: una volta tanto, fu chiaro a tutti chi era l’uomo al comando, mentre Merlino incitava l’esercito reggendo lo stendardo regio, dissolveva cancelli grazie alla magia, scatenava le intemperie contro l’esercito nemico e galoppava sul campo di battaglia gridando ordini ai soldati e richiamandoli alla carica nel nome della vergine Maria.
La vittoria contro i Sassoni pagani s’era consumata nella festa dell’Ascensione, il che aveva accresciuto nel cuore dei soldati quella folle impressione galvanizzante di star combattendo una guerra santa. Quando Merlino, esausto, alla fine della battaglia aveva lasciato le redini e s’era sfilato l’elmo, poco c’era mancato che tutto l’esercito si inginocchiasse al suo cospetto: davvero era stato suo, e spettacolarmente suo, il merito di una vittoria così eclatante.
“E con questo il tuo potere è stabile”, aveva detto quella sera ad Artù nella tenda regia, mentre da fuori arrivavano ovattati i rumori dei festeggiamenti. “Puoi farcela da solo, d’ora in poi. È tempo che io vada”.
E per quanto Artù avesse protestato, per quanto lo avesse supplicato di restare, Merlino non cambiò di una sola virgola i suoi progetti. Ricevette tutti gli onori che meritava, si prese il tempo per salutare i suoi amici e poi, portando con sé solamente poche cose, si mise in viaggio per la foresta di Brocelandia.
Quando Viviana lo vide arrivare, gli corse incontro di lontano e gli gettò le braccia attorno al collo, ché nemmeno nel regno delle fate si era rimasti indifferenti alla notizia di una vittoria così gloriosa. E tra mille baci e mille lacrime, gli disse quanto fosse orgogliosa e quanto fosse stata in pena sapendolo in prima linea; e gli chiese di non partire più, e lui glielo promise: adesso era tornato, era tornato per restare.
Si legge nelle pagine del Lancillotto-Graal che i due rimasero assieme per molto tempo, e lei cominciò subito a sommergerlo di domande su quanto aveva appreso nel frattempo dallo studio dei grimori, e lui le insegnò così tante cose che la gente, in futuro, avrebbe avuto a dire che era stato un pazzo (e c’è qualcuno che lo dice ancora). Solo quando ebbe avuto l’impressione di aver appreso tutto ciò che poteva chiedere, Viviana cominciò a domandarsi in che modo avrebbe potuto avere la garanzia che Merlino fosse suo per sempre; e alla fine, quando ebbe preso una decisione, volle comunicarla a Merlino senza usare mezzi termini (tanto, è inutile indorare la pillola a chi già possiede la perfetta conoscenza del futuro).
Una sera, al tramonto, mentre se ne stava vicino alla sorgente, accoccolata tra le braccia del mago, sollevò il mento e lo guardò con dolcezza: “c’è ancora un incantesimo che vorrei padroneggiare. Sapreste insegnarmi il modo di imprigionare un uomo in una torre, costruita non coi mattoni ma con la magia, in modo tale che quell’uomo non se ne possa uscire se non dopo aver ottenuto il mio permesso?”.
Lentamente, Merlino inarcò le sopracciglia. “Non è che ci stiamo approfittando un po’ troppo di questo povero maestro innamorato?”.
Viviana scosse il suo bel testolino e puntò gli occhi azzurri in quelli di Merlino. “In coscienza no, non mi sembra”, gli disse in tono quieto. “Ci conosciamo da anni. Da anni vi amo. Siete nei miei pensieri, nel mio cuore, nelle mie speranze e in ogni mio singolo momento di gioia. Se anche voi provate la stessa cosa, non credete che sia giunto il momento di diventare mio per sempre?”.
“Vi informo esistere una cosa che si chiama ‘matrimonio’ e che mi consta essere un istituto sociale piuttosto gettonato in queste circostanze”.
Lei fece una smorfietta. “Non tra le fate”.
Difficile rispondere a un’osservazione così inappuntabile; per un po’, tra i due calò il silenzio, spezzato solamente dall’allegro gorgoglio dall’acqua che sgorgava dalla sorgente. Alla fine, Merlino tentò con cautela: “Viviana, state parlando di un’evocazione molto impegnativa. Permettetemi, vi prego, che sia io a gestirla”.
“Ma non ci penso proprio” rise lei, di gusto. “Voglio voi nel mio incantesimo; mica essere bloccata io nel vostro”.
“E come non capirvi”, mormorò il mago a mezza bocca. E poi, stringendola, con un sospiro rassegnato cominciò a elencarle tutto ciò che le sarebbe stato necessario.
Glossa
In fin dei conti, cos’era Merlino se non uno dei tanti toyboy delle fate?
La narrativa celtica era piena di storie simili: “che cos’è, la storia tra Merlino e Viviana, se non una riscrittura della vecchia fiaba in cui un mortale incontra una fata, si innamora di lei e con lei parte alla volta di ‘Avalon’, talvolta immediatamente e in altri casi dopo aver passato qualche tempo a far la spola tra i due mondi?”. Sono considerazioni che nel secondo millennio avrebbe offerto Anne Berthelot, sottolineando che la storia tra Merlino e Viviana sfugge alla ripetitività del topos narrativo in virtù di un unico e geniale dettaglio: “Merlino non è un uomo ordinario, ma è a sua volta una creatura soprannaturale, un fae a buon diritto”.
Non è, insomma, uno sprovveduto che cade vittima di un incanto a cui non può sottrarsi. Anzi, a ben vedere è l’unico jellato della letteratura a innamorarsi (lui, attivamente) di una fata castissima (e non piena di lussuria) che gradisce il corteggiamento secondo le regole dell’amor cortese (invece di prendersi senza troppe storie l’uomo che si è scelta). In questo caso, è Merlino il seduttore che dolcemente spinge la fata ad abbandonarsi tra le sue braccia: fuor di ogni dubbio, c’era una certa genialità divertita nel prendere un topos narrativo talmente inflazionato e ribaltarlo in modo così inedito.
E giusto per assicurarsi che a nessun lettore sfuggisse il riferimento letterario, l’autore del ciclo della Post-Vulgata avrebbe avuto cura di introdurre nella narrazione un personaggio del tutto inutile ai fini del racconto: Guinebaut, un mago che ogni tanto bazzicava per Camelot in quanto fratello del cavaliere Bohort de Gaunes. Merlino era sempre felice di passare del tempo con quel ragazzo, ché non gli capitava tutti i giorni di incontrare un suo collega; e infatti il ciclo della Post-Vulgata ci offre numerose pagine di conversazioni dotte tra i due praticanti di magia.
Legittimamente, il lettore avrebbe anche potuto immaginare che lo scopo narrativo di quel personaggio unidimensionale fosse quello di dare a Merlino una parvenza di amicizia, o quantomeno di collaborazione professionale. In realtà, il senso dell’esistenza in vita di Guinebaut si coglie nel momento in cui la corte sprofonda nello shock allo scoprire la brutta fine che ha fatto il poveretto: dopo essersi addentrato in una foresta incantata come da copione, e dopo esser stato sedotto da una fata, il mago aveva abbandonato il mondo dei mortali per diventare eternamente suo nell’Oltretomba.
Era stato un evento piuttosto sconvolgente: nessuno si immaginava un tale colpo di scena, da parte di quel simpatico ometto che ogni tanto appariva nella storia a dispensare sorrisi e buoni consigli. Vien da creder che, tra tutti, Merlino sia stato il più addolorato (in fin dei conti, aveva appena perso la parvenza di un suo pari); vien da creder che, nell’intimo della sua stanza, abbia anche scosso il capo pensando alla debolezza di quel fessacchiotto. Presto sarebbe arrivata anche la sua ora, e lo sapeva; ma lui, almeno, avrebbe avuto l’autocontrollo necessario per finire prima le cose più urgenti.
E per salutare i suoi amici. Tsk.
Capo X
Anche gli studenti alle prime armi sanno che non si deve mai prendere per mano una fata, pena il rischio di esser trascinati nel suo regno. Ovviamente Merlino aveva ben presente questo dettaglio, e ovviamente non avrebbe potuto curarsene di meno: quando Viviana gli aveva proposto una passeggiata all’interno della foresta e poi gli aveva offerto la sua mano, Merlino non aveva esitato neppure per un solo istante prima di stringerla dolcemente nella sua.
Ormai lei lo amava più di quanto lo avesse mai amato – così ci tiene a informarci il Lancillotto-Graal – e mai erano state così gioiose e così piene di promesse le settimane che i due avevano trascorso assieme. Quel giorno, mentre camminavano mano nella mano addentrandosi nella foresta di Brocelandia, si imbatterono in un bellissimo alberello di biancospino, splendente di mille petali in fiore.
L’arbusto cresceva isolato, nel mezzo di uno spiazzo circolare circondato dagli alberi della foresta. Viviana accelerò il passo, senza lasciare la mano di Merlino: “andiamo lì, sediamoci lì sotto”.
Merlino, dal canto suo, smise proprio di camminare: “Ma vorrete scherzare!”, rise. “Mi avete trascinato in una foresta incantata e adesso volete farmi mettere a sedere sotto a un albero sacro alle fate? Guardate che per un umano è pericoloso”.
Stringendo la presa attorno alle dita di Merlino, Viviana si girò a guardarlo. “Oh, giusto”, gli disse piegando le labbra in un sorrisetto. “Non sia mai che ti capiti di trovarti faccia a faccia con una fata che è innamorata di te ed è intenzionata a portarti nel suo mondo”. Gentilmente, ma con la forza di una creatura ultraterrena, la fanciulla lo trasse a sé; e a quel punto Merlino non trovò nulla di meglio da commentare se non un generico “capisco”. Distratto dalle altre piacevoli occupazioni di quei giorni, non aveva previsto che tutto si sarebbe compiuto lì e allora.
Viviana si sedette ai piedi dell’arbusto poggiando sul tronco la sua schiena e guardò il mago con infinito affetto. “Vieni qui. Sdraiati, posa la testa sul mio grembo”.
E quando Merlino ebbe obbedito, si guardò attorno per un’ultima volta per dire addio al mondo mortale. L’aria era invasa dal profumo fresco del biancospino e i raggi del sole filtravano tiepidi attraverso i petali dei fiori. In punta di dita, Viviana iniziò a carezzargli i capelli e Merlino, chiudendo gli occhi, pensò che quello, tutto sommato, era un perfetto modo per andarsene.
“E adesso dormi”, gli sussurrò la fata con dolcezza.
Glossa
Merlino aspettò di sentirsi invadere dal sonno, ma non successe assolutamente niente.
A un certo punto, riaprì gli occhi chiedendosi perplesso se Viviana avesse sbagliato qualcosa nel suo incanto; ma lei gli sorrise di rimando, presa da nessun’altra occupazione all’infuori di quella di carezzargli i capelli.
Non aveva voluto addormentarlo con la magia: persino in quel momento estremo Merlino avrebbe potuto prendere e andar via, se solo fosse stata sua intenzione. Quanta differenza, rispetto ai tratti di femme fatale con cui Viviana avrebbe cominciato ad essere rappresentata di lì a poco!
L’uomo richiuse gli occhi e cercò di rilassarsi, cosa che a onor del vero non era neanche tanto facile – un po’ perché la prospettiva di star sprofondando nell’Oltretomba non agevola un granché il riposo; un po’ perché non era di grande aiuto neppure il fatto di trovarsi per la prima volta così vicino al corpo di Viviana e in una posizione così intima.
La cosa, nei secoli a venire, avrebbe suscitato un po’ di maretta tra i filologi, perché “posare la testa sul grembo di una donna” era un eufemismo che era spesso (ma non sempre) usato nel Medioevo per indicare la consumazione di un rapporto sessuale. Insomma, i letterati si erano interrogati a lungo su che cosa avesse fatto esattamente Merlino prima d’addormentarsi (il che, francamente, lo faceva morir dal ridere); ma tutto sommato non gli dispiacque la pudica interpretazione che avrebbe voluto dare alla cosa la nuova archivista che avrebbe assunto durante la Grande Peste del Duemila. Addormentarsi dopo aver letteralmente posato la testa sul grembo di una donna era un gesto che lo accomunava in qualche modo all’unicorno, l’indomito animale magico, re delle foreste, che nessuno al mondo avrebbe potuto domare all’infuori di una vergine.
Lo diceva a chiare lettere, la tradizione: solamente una vergine tra le più pure sarebbe riuscita ad ammansire l’unicorno, come se ci fosse in lei qualche cosa che spingeva l’animale, istintivamente, ad avvicinarsi. Quando la vittima adagiava la testa sul grembo della donna e, inconsapevole del suo destino, s’abbandonava al sonno, entravano in scena gli altri membri della battuta di caccia, legandolo e aggredendolo là dove il poverino aveva pensato di poter trovare quiete.
Vi era certamente qualcosa di profondamente disturbante nel modo in cui le miniature dipingevano il momento della cattura. C’era quasi sempre un’espressione di lesa maestà nello sguardo che l’unicorno rivolgeva alla vergine, e a buon diritto: in quella caccia c’era una forte componente di inganno; c’era la manipolazione di chi si finge innocente per approfittare dell’altrui fiducia e poi colpire là dove meno lo si aspetta.
Mentre Viviana giocherellava dolcemente coi suoi capelli, Merlino si domandò oziosamente chi fosse in quel momento la creatura magica e chi fosse invece il cacciatore.
Certo, lui stava per sparire da questo mondo, ma non l’avrebbe necessariamente letta nei termini d’una sconfitta. Prima o poi, qualche esperto di folklore avrebbe timidamente alzato la manina per far notare che nel regno delle fate il tempo scorre diversamente, sicché andare a vivere con Viviana era quanto di più simile all’immortalità che Merlino potesse sperare di ottenere. Trascorrere una considerevole porzione di eternità tra le braccia della donna che si ama è pur sempre una buona alternativa alla morte… soprattutto se si è l’Anticristo e non si ha alcuna reale garanzia di poter ambire al Paradiso. Soprattutto se si è l’Anticristo e ci si vuole tenere una porta aperta per tornare prima o poi nel mondo, a concludere il lavoro.
Oh, Blaise non avrebbe scritto queste cose neanche sotto tortura; erano tutte considerazioni che sarebbero state fatte a posteriori. Ma intanto, nei suoi ultimi istanti nel nostro mondo, Merlino sorrideva raggiante, abbandonandosi lentamente al sonno.
Epilogo
E poi, riaprì gli occhi.
Era sdraiato su un grande letto a baldacchino, scolpito in un legno intagliato minuziosamente. Morbidissimo era il materasso, sofficissime le coperte e pareva una nuvola il guanciale che gli sosteneva il capo. Viviana era accanto a lui, seduta su uno scranno vicino al letto, e stava ripiegando il velo che si era tolta dai capelli.
Merlino si guardò attorno. Oltre i vetri della finestra aperta si vedeva di lontano un giardino pieno di fiori e frutti, nel quale passeggiavano dame e cavalieri. A giudicare dall’altezza, era evidente che ci si trovava agli ultimi piani di una torre: Viviana doveva aver ricreato col suo incanto quello stesso identico castello che Merlino aveva evocato per lei nel primo giorno che avevano trascorso assieme.
Socchiudendo gli occhi, il mago cercò con attenzione una crepa, una incrinatura, un singolo punto debole tra gli interstizi della magia che lo avvolgeva tutt’intorno. Ma no. Viviana era la migliore delle sue studentesse, dopotutto: non una singola sbavatura intaccava la perfezione dell’incantesimo che aveva creato.
Piegò la testa sul guanciale e si girò a guardarla. “Mia signora. Sarà un bell’inganno quello che mi avrete teso se non resterete al mio fianco come avete promesso. Nessuno a parte voi ha il potere di disfare questa torre: sono vostro prigioniero a tutti gli effetti”.
Viviana posò il velo sul comodino e ricambiò lo sguardo di Merlino. “Oh, amore. Ti sembra che avrei fatto tutto questo, se non avessi davvero voluto essere tua? Resterò al tuo fianco e tu potrai stringermi nelle tue braccia, e io nelle mie, e per il resto sarai libero di fare tutto ciò che vuoi”. Si alzò dalla sedia, sedette sul letto e si chinò a baciare dolcemente Merlino, mentre i suoi lunghi capelli sciolti si allargavano come onde ramate sul guanciale.
E Viviana mantenne fedelmente la promessa fatta, ci tiene a precisare l’autore del Lancillotto-Graal, e da quel momento in poi furono ben pochi i giorni e le notti che i due innamorati non trascorsero assieme. E così, su queste parole, tace la storia di Merlino e del suo amore.

Per approfondire:
Quella che avete letto è La Storia di Merlino secondo il ciclo del Lancillotto-Graal, con un paio di incursioni di poco conto in altri testi medievali di poco successivi. Lo stupore di Viviana di fronte alla magia di Merlino è descritto nel ciclo della Post-Vulgata; il paragone tra la loro storia storia d’amore e quella di Diana e Fauno appartiene a La Morte di Artù di Malory, così come la strage degli innocenti involontariamente (?) scatenata dal mago alla nascita di Mordred. Per il resto, ho riadattato piuttosto fedelmente (nei dialoghi, spesso in modo letterale) il testo di The Story of Merlin edito da Brewer con la curatela di Norris Lacy. Il primo dialogo tra Merlino e Blaise è una trascrizione quasi letterale; il secondo invece è l’unico pezzo che ho totalmente inventato a mo’ di riassunto, per provare a fare il punto tutto il resto del romanzo (per quanto il testo ci dica che davvero Merlino visitò Blaise per un ultimo saluto). Contro i Sassoni in realtà c’è più di una battaglia prima dello scontro finale, ma resta il fatto che se non era per Merlino, col cavolo che le si vinceva.
Le glosse, evidentemente, sono della glossatrice. Per scriverle, s’è rifatta a questi testi:
– King Arthur’ Enchantress. Morgan and Her Sisters in Arthurian Tradition, di Carolyne Larrington, edizioni Tauris
– Merlin. A Casebook, raccolta di articoli di vari autori, edizioni Routledge
– Merlin and Legendary Romance, stupendo libro di Carol Harding, edizioni Routledge
– The Oxford Guide to Arthurian Literature and Legend di Alan Lupack, pubblicato dall’Università di Oxford
mariluf
Splendido!!!!!! Grazie.
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Lucia
Grazie! 🙃
E’ da un anno abbondante che mi dedico a Merlino e ormai mi sono affezionata ai personaggi, spero di aver dato loro giustizia 🙂
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Murasaki Shikibu
Molto interessante, ma lungo. Non potresti trasformarlo in un pdf da leggersi con comodo? Non so se è una richiesta strana ma…
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Lucia
Più che “strana” è una richiesta direi quasi obbligata 😂 (è un poema, e giuro che ho già tagliato brutalmente un sacco di cose mentre scrivevo!) e sicuramente graditissima.
Pensa che in realtà il PDF l’avevo già fatto e mandato a un paio di amici che sapevo interessati, ma mi ero fatta lo scrupolo di inserirlo qui per evitare il terribile effetto di “ma chi t’ha chiesto niente, chi te se fila, chi ti vuole” 😝
Ecco qua il link per scaricarlo:
https://unapennaspuntata.files.wordpress.com/2021/09/la_storia_di_merlino_lucia_graziano_unapennaspuntata-1.pdf
e a questo punto buona lettura, e grazie per l’attenzione… particolarmente attenta 😛
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Paolino
Ho trovato in alcuni testi che Merlino potrebbe avere relazione con un piccolo falco che in inglese è chiamato Merlin (il motore dello Spitfire e del Mustang prende nome dal rapace, non dal mago). L’hai trovato pure tu?
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Lucia
👀
Uh no, non lo avevo mai sentito, lo leggo oggi per la prima volta! (Grazie per la segnalazione!)
Però in realtà a guardar bene le etimologie non so se è molto plausibile ipotizzare un legame.
Per quanto riguarda il falco, leggo su Wikipedia che il nome deriverebbe dall’Antico Francese esmerillion attraverso l’anglo-normanno merilium.
Invece il nome di Merlino il mago è una latinizzazione del nome gallese Myrdin con cui era conosciuta la figura del profeta montanaro da cui Geoffrey di Monmouth ha poi tratto il suo personaggio. Si suppone che nel latinizzarlo abbia cambiato la D in L per evitare l’imbarazzante traslitterazione in “Merdino” che faceva un po’ brutto (davvero eh 😂 Non è una battuta!).
Quindi in realtà mi sembra che a livello di etimologia i due nomi non abbiano proprio nessun legame. Anche se poi ovviamente l’assonanza potrebbe aver fatto nascere delle tradizioni o delle leggende col passar del tempo, questo sì che sarebbe interessante da studiare 😀
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Berlicche
Circa la figura del mago: hai avuto modo di leggere i romanzi di Diana Wynne Jones, ad esempio il ciclo del castello errante di Howl? Sono tre romanzi uno più bello dell’altro.
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Lucia
Uh, no, mai letti, grazie della segnalazione! Non sapevo nemmeno che il castello errante fosse parte di un ciclo.
Sconvolgerò molti, ma io in realtà non sono una grande fan del fantasy, o più propriamente sono schizzinosa. Per piacermi, il fantasy deve essere davvero ben fatto e con un’ambientazione curata, sennò mi fa storcere il naso.
Ma da come dici tu, questo ha premesse interessanti… 😉
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Berlicche
Molto interessanti. Credo proprio ti piacerebbero (poi non è un vero ciclo, negli altri due libri i personaggi del primo sono attori non protagonisti)
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