La Festa dei Ceri a Gubbio: un gioioso Carnevale santo

Questo è uno di quei classici post che, alternativamente, incuriosirà moltissimo o annoierà da morire: perché la corsa dei ceri a Gubbio è qualcosa di così famoso che sicuramente tutti noi ne abbiamo già viste le immagini molte volte. E chissà, forse troverete banale l’argomento di questo articolo. Ma la vera domanda, quando si parla di manifestazioni folkloristiche così note, deve esser sempre quella: al di là di ciò che bene o male sanno tutti, quanto sappiamo veramente di queste tradizioni?

Ecco: in genere, si scopre che su queste tradizioni c’è parecchio da raccontare.

***

Per i pochi che non sapessero di che cosa sto parlando: la corsa dei ceri è probabilmente la più caratteristica tra le tradizioni che hanno fatto la Storia della città egubina. Collocata (in precario equilibrio) a metà strada tra devozione propriamente detta e folklore puro e semplice, è una grande festa di popolo che si ripete da secoli ogni 15 maggio, alla vigilia della festa del santo patrono di Gubbio. Ovverosia, Ubaldo Baldassini, che fu vescovo della città fino alla sua morte nel 1160: proclamato santo nel 1192, fu immediatamente oggetto di una grande devozione che supponiamo abbia avuto fin da subito degli elementi carnascialeschi (nella bolla di canonizzazione, papa Celestino III sentiva l’esigenza di rassicurare i fedeli egubini circa la possibilità di continuare a onorare il loro vescovo hilater, cioè in maniera particolarmente allegra). Nel settembre 1194, le reliquie del santo furono traslate in una chiesa di recente costruzione che gli era appena stata dedicata sulle cime del monte Ingino (il famoso colle eletto del beato Ubaldo che viene citato da Dante in quel canto del Paradiso dedicato a san Francesco). E fin da subito, quella chiesetta situata sul cucuzzolo del colle (904 metri s.l.m.) divenne meta di un pellegrinaggio che si teneva ogni anno nella vigilia della festa, probabilmente in orario serale – una supposizione che deriva dal dettaglio per cui i devoti scalavano il colle tenendo in mano delle candele accese, a ricreare un effetto scenico che per il tempo doveva essere un po’ l’omologo delle nostre luminarie di Natale.

Doveva essere una processione che si svolgeva in un clima di allegria, forse accompagnata (come spesso capitava all’epoca) da quei canti ritmati ed energici che dettavano il passo lungo le grandi vie di pellegrinaggio. Diverse fonti medievali accennano all’atmosfera di gaiezza con cui si teneva questo omaggio al santo, e sappiamo per certo che, entro il 1458, era già diffusa la consuetudine di portare in processione fin sul colle non solamente le piccole candele con cui la gente si faceva luce, ma anche dei grossi ceri “finti”, scolpiti in legno colorato. Nel 1680, Bonaventura da Todi è il primo a dare conto di una bizzarria che descrive come un qualcosa di già noto e comunemente accettato: tra i fedeli che portavano sul colle questi ceri finti, c’era come una sorta di gara a chi arrivava prima sul sagrato della chiesa.

Tutto il resto è Storia – anzi, attualità. Ancor oggi, a Gubbio, si tiene ogni anno la grandiosa Festa dei Ceri: una corsa di circa 4300 metri (in salita!) che parte dal centro della città per snodarsi attraverso le vie cittadine, su su per la stradina che porta in cima al colle. E se dovesse venirvi la tentazione di pensare “ambeh, una corsetta di 4300 metri alla fine non è niente di estremo”… beh, date un’occhiata a questa ripresa al ralenti di una delle fasi della corsa. I ceri di cui stiamo parlando non sono esattamente le candeline colorate che le sciure della parrocchia si portano appresso quando si fa a fare la Via Crucis del venerdì santo:

‘sti arnesi sono macchine mastodontiche dal peso di circa quattro quintali, con un interno in legno d’olmo rivestito di legno d’abete. Sono due prismi ottagonali che si congiungono da vertice a vertice: la base è fissata su una specie di barella a forma di H, che ne consente il trasporto; sulla cima, invece, se ne sta la statua di un santo. I ceri di Gubbio sono tre in totale: uno è dedicato a sant’Ubaldo, evidentemente, ma sugli altri due ceri svettano le statue di altri due santi che erano molto amati nel medioevo egubino: san Giorgio (chi è che non ha in simpatia il protettore della cavalleria?) e sant’Antonio abate (che, essendo il patrono del bestiame da fattoria, era un personaggio che valeva la pena di tenersi buono).

A trasportare questi ceri, ci sono i ceraioli: i santubaldari (identificabili per il colore giallo delle loro divise), i sangiorgiari (vestiti d’azzurro) e i santantoniari (che indossano il nero). A differenza di quanto accade in certe città italiane (penso per esempio a Siena e al suo palio), l’appartenenza all’uno o all’altro gruppo non è data dal rione in cui nasce il singolo. Per antica tradizione, si occupavano di sant’Ubaldo tutti quegli individui che svolgevano la professione di muratore (o affine), e che dunque avevano probabilmente contribuito all’edificazione della chiesa; del ricco san Giorgio si prendevano cura i merciai e gli altri commercianti, e di sant’Antonio si facevano carico i contadini. Insomma, una “tifoseria” di natura professionale, che spingeva gli egubini a radunarsi attorno al patrono che invocavano ogni giorno: ovviamente, adesso, il mercato del lavoro è assai più fluido e i tre gruppi di ceraioli svolgono ogni tipo di occupazione… ma, in teoria, ognuno di loro dovrebbe essere assegnato al gruppo di cui un tempo faceva parte il capostipite della sua famiglia.

In ogni caso: ogni 15 maggio, i ceraioli si danno appuntamento per far rivivere una volta ancora quest’antica corsa. L’idea di base è quella di partire dal centro città e di correre come forsennati fino alla chiesa arroccata sul monte Ingino, portandosi a spalla ‘sti mastodonti di quattro quintali l’uno. Ovviamente stiamo parlando di una sfida che farebbe impallidire pure Superman, sicché i ceraioli corrono solamente per pochi minuti (in tappe da 40 a 100 metri a seconda della pendenza del terreno) prima di darsi il cambio con i compagni di squadra. La maestria di ogni gruppo si misura proprio nella rapidità e nella precisione con cui avvengono questi cambi obbligati: è richiesta una coordinazione perfetta per evitare che il cero si inclini troppo, o peggio ancora cada a terra in questo passaggio di mano. E la coordinazione è la parte più importante di questa gara: perché ogni volta che il cero si inclina fino al punto da toccare i muri delle case circostanti (penduta), è come se la squadra perdesse un punto. In effetti, la sfida è proprio quella di far inclinare il meno possibile il proprio cero: ché la gara è vinta dalla squadra che totalizza meno pendute, e non da quella che arriva per prima sul sagrato della chiesa.

Anzi: lungo tutto lo svilupparsi della corsa, è tassativamente proibito tentare un sorpasso. E non solo per ragioni di sicurezza, ma anche e soprattutto per ragioni di cortesia: voi ve li immaginate, san Giorgio e sant’Antonio che provano a rovinare il grande giorno di sant’Ubaldo a suon di spintoni per essere i primi a entrargli in casa? Naaa, tra i santi vige ancora il fair play: e tutt’al più, i corridori cercano di ridurre le distanze tra il “loro “loro” santo e la statua di sant’Ubaldo. Che però è sempre la prima ad entrare nella sua chiesa; e anzi, se riesce a entrarci con un vantaggio ragionevole, fa ancora in tempo a sbattere la porta in faccia a san Giorgio per chiuderlo fuori. Sul serio. Anche se di solito la porta verrà aperta di lì a poco: ché tra santi – l’abbiamo già detto – vige un fair play che ha del paradisiaco.

***

Ma qual è la Storia dietro a questa strana storia?
Vale a dire: pur con tutta la simpatia che si può provare per questa manifestazione così pittoresca e antica, com’è possibile che di punto in bianco una comunità di individui sani di mente si svegli al mattino con l’idea fissa di trasportare a passo di corsa sul cucuzzolo di una montagna dei tronchi mastodontici dal peso di 4 quintali?
Non è esattamente quel tipo di passatempo a cui la gente ama dedicarsi in un giorno di festa e di riposo, mettiamola così: quindi, quale può esser stata la causa scatenante che ha ingenerato negli egubini questa idea balzana?

A partire dalla fine del Seicento, gli storici hanno avanzato le idee più disparate, frequentemente lasciandosi suggestionare da quella che è la grande anomalia nell’anomalia: la manifestazione che ho appena descritto si chiama “corsa dei ceri”, ma gli arnesi che vengono trasportati a passo di corsa sono tutto fuorché ceri. Non sono fatti di cera, non hanno il colore della cera e non assomigliano nemmeno a delle candele: e quindi, da dove nasce questo nome?

Nel 1680, un monaco olivetano di nome Bonaventura da Todi fu il primo a ipotizzare un collegamento tra la corsa egubina e le antiche festività pagane che un tempo venivano dedicate alla dea Cerere. Pensò in particolar modo ai Ludi Ceriales, che si tenevano ogni anno alla metà di aprile (che non è la metà di maggio, ma Bonaventura era uno storico di bocca buona che si faceva andar bene anche queste contraddizioni interne). Nella corsa coi ceri che non sono ceri, Bonaventura volle scorgere un’eco di quelle processioni che un tempo si tenevano per le vie delle città romane: col passar dei secoli, e avvenuta ormai l’evangelizzazione, il popolino avrebbe perso il ricordo di chi fosse questa Cerere ma avrebbe conservato vagamente la memoria del nome. Finendo poi con lo storpiarlo, associandolo a un oggetto d’uso quotidiano ben più frequente e trovandosi così a cristianizzare inconsapevolmente quella che era in realtà una tradizione pagana tra le più antiche.

Scorgere nelle manifestazioni folkloristiche cristiane relitti di paganesimo sopravvissuti ai secoli fu il grande fetish degli studi di settore per una cinquantina d’anni, a partire dalla pubblicazione de Il Ramo d’oro di Frazer nel 1890 (per inciso: oggigiorno, gli storici seri tendono a ridimensionare pesantemente questa teoria. Ci furono sicuramente delle cerimonie pagane che furono cristianizzate nei primi secoli e sono giunte fino a noi in questa nuova forma; ma l’idea di una religiosità pagana che viaggia sottotraccia per mille anni e poi BUM!, riaffiora nel Medioevo così de botto e senza senso per venire appiccicata al sant’Ubaldo di turno… aeeeehm. Non è neanche lontanamente la spiegazione più economica con cui dar senso a certi fenomeni, mettiamola così).

In ogni caso – e inevitabilmente – nelle prime decadi del Novecento numerosi studiosi (tra cui Paolo Toschi e Herbert Bower) vollero vedere nella corsa dei ceri di Gubbio un’eco di antiche cerimonie precristiane. Che secondo loro non erano quelle tributate a Cerere, bensì quelle tributate a Cibele, la Magna Mater: in effetti, in suo onore, si compivano professioni durante le quali i dendrofori trasportavano in giro per la città dei grossi tronchi d’albero. Ed è innegabilmente suggestiva l’ipotesi che porta a vedere nei giganteschi “ceri” di legno una forma un po’ più raffinata di questi loro antesignani d’età classica.

Suggestiva, ma non per forza storicamente valida. Ipotizzare che la memoria di un rito pagano sopravviva per millequattrocento anni nelle campagne di Gubbio senza lasciar traccia, per poi riaffiorare verso la metà del XV secolo mascherato da processione a sant’Ubaldo è una teoria un po’ ardita, che necessiterebbe quantomeno di prove inoppugnabili a sostenerla.
E di prove qui non ce ne sono; tutt’al più, abbiamo garbate ipotesi.
Per contro, fa notare Franco Cardini nel suo saggio dedicato a I giorni del sacro, «ricerche compiute dal Cenci, dalla Seppilli e dal Menichetti hanno invece ribadito l’ordine concretamente storica della festa, da collegarsi alle cerimonie cittadine che già dal XIII secolo si tenevano in onore di sant’Ubaldo»: insomma, quelle che vi descrivevo in apertura. «È stato in particolare il Menichetti, in un monumentale volume, a sottolineare che in realtà il termine “Cero” che sembra un po’ strano per le attuali macchine non è affatto una corruzione volgare» del nome della dea Cerere: è storicamente documentato come, nel Medioevo, ci recasse sul colle alla luce delle candele accese e si donassero alla chiesa delle enormi statue di cera (materia prima preziosa, per l’epoca. Insomma, con quel dono pagavi alla basilica le bollette della luce per un anno, a dirla in soldoni).

Piuttosto – fa notare Cardini – se vogliamo ipotizzare per questo strano omaggio una genesi non strettamente devozionale, faremmo probabilmente meglio a cercare le origini della festa nei tanti momenti carnascialeschi che, nel Medioevo, scandivano la vita dei comuni. «La corsa è una “pazziata”», fa notare lo storico, sottolineando che «a Gubbio si distribuisce il 15 maggio la “patente di matto” e si grida “viva i matti di Gubbio”» (anche perché, per prender parte a una corsa di ‘sto tipo, un po’ matto lo devi esser per davvero…). «Questo fatto, insieme con quello che le corporazioni titolari dei Ceri sembrano essere rappresentanti di professioni almeno originariamente subalterne» (contadini, muratori e commercianti – e mica tutti i mercanti medievali erano dei tycoon), «parrebbe proporre la Corsa dei Ceri come una “festa dei folli”, col relativo rituale di inversione “carnevalesca” dei rapporti di potere»: per un giorno, è la gente comune e piccola a essere al centro dell’attenzione, mentre i grandi si scansano al loro passaggio e applaudono festanti, e persino il cielo abbassa lo sguardo per sorrider loro benevolmente.

E forse allora è proprio questo il più antico e vero del bello della festa.

6 risposte a "La Festa dei Ceri a Gubbio: un gioioso Carnevale santo"

  1. Avatar di Whitewolf

    Whitewolf

    Articolo bellissimo!

    Mi viene da chiedermi se anche la Macchina di Santa Rosa di Viterbo abbia simili origini…

    A parte tutto io ammetto che ho pensato anche a una semplice processione con i patroni di Gubbio che poi diventa un gioco carnevalesco, come dici tu. Però dovrei fare qualche ricerca sull’evoluzione del fenomeno processionale, per essere proprio certo!

    "Mi piace"

    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Eh… ma perché in questo settore, più si studia più ci si rende conto che le spiegazioni più noiose e banali sono quasi sempre quelle più verosimili 😉

      Per me (ma dico così su due piedi senza aver approfondito), potrebbe anche essere di una devozione, vissuta in ottica carnascialesca, che poi si è contaminata con la tradizione del palio, che in quel periodo e in quella zona andava fortissimo. Io personalmente lo vedo come un palio tra santi: solo che questi santi non vanno a cavallo 😛

      Piace a 1 persona

  2. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    A me sembra un gioco tremendamente pericoloso.

    Se un cero cadesse sulla folla sarebbe una strage, per non dire poi del rischio di una fuga collettiva e precipitosa, tipo stampede.

    Se non è mai successo nulla di grave, mi pare un miracolo.

    Annalisa

    "Mi piace"

    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Sì, ecco: mentre cercavo video per accompagnare il post, mi sono imbattuta in questo e anche a me, lì, è riaffiorata alla mente la parola “miracolo”. Più che altro, non so se definire più miracoloso o più eroico il modo in cui i ceraioli che venivano dietro (correndo, con ‘sto coso di 4 quintali addosso) sono riusciti a evitare di calpestare il ragazzo che era caduto. Cioè, veramente hanno avuto (tutti) una prontezza di riflessi e una coordinazione che ha davvero del sorprendente, se non vuoi dire “miracoloso”…

      "Mi piace"

      1. Avatar di ac-comandante

        ac-comandante

        Ho letto che qualcosa di simile è (o era, l’articolo era del 1989) voluto e cercato nell’addestramento dei famosi U.S. Navy Seals, o almeno una parte di loro. Per creare l’intesa di squadra, quando le squadre sono create, per un certo periodo (un paio di settimane) gli uomini della squadra devono sempre muoversi con una mano su un palo di circa quattro metri: qualunque cosa debbano fare, devono farla con una mano su quel palo, se servono due mani bisogna farlo in due. Ignoro se questa procedura di addestramento sia ancora in uso, dopo oltre trent’anni, come ignoro se la similitudine con i ceraioli o altra simile usanza sia voluta (non mi stupirei che ci sia stato qualche ufficiale di origini italiane che la conoscesse).

        Ci sono altre usanze simili?

        "Mi piace"

  3. Avatar di Francesca

    Francesca

    Dopo aver letto articolo e i commenti: tutto condivisibile e plausibile. Tuttavia a me resta un dubbio (nella quale è inclusa anche la Macchina di Santa Rosa – vista in tivù, mi ha impressionata parecchio)…

    Un’intuizione terra-terra da parte mia è quella data da: il peso e il legno. Perciò mi chiedo: esisteva qualche possibile legame con un’attività penitenziale? (nel senso di volersi ricollegare in qualche modo alla Croce e al Calvario). Il ché in effetti sarebbe il contrario di richiamarsi ad attività divertenti del carnevale, eccetto la vittoria finale – che è comunque anche la vittoria della Croce… In altre parole: così, ingenuamente, io non mi capacito del collegamento tra il fare fatiche esagerate e il divertirsi 🤔 . Però mi viene anche in mente che il fisico degli uomini “antichi” era molto più forte del nostro… E probabilmente a loro non pareva così esagerata ‘sta fatica (e magari era anche meno pericolosa di adesso, proprio perché si trattava di fisicità molto più robuste dei nostri migliori “fisici da palestra”).

    "Mi piace"

Scrivi una risposta a Anonimo Cancella risposta