La notte del solstizio a Stonehenge: storia culturale di una moda contestata

Ancora poche ore e si ripeterà il prodigio: come ormai da tradizione, migliaia di persone si riuniranno a Stonehenge per trascorrere in compagnia la notte più breve dell’anno e per assistere a quel momento che si ripete ogni anno nel giorno del solstizio, quando il sole, tornando a illuminare la nostra terra, farà filtrare i suoi raggi attraverso uno dei dolmen che compongono il cerchio di pietre.

Ma quando nasce la consuetudine di riunirsi a Stonehenge nella notte del solstizio? Molti, probabilmente, mi risponderebbero che la tradizione nasce come diretta conseguenza della diffusione dei movimenti neopagani (e in effetti è certamente vero che molti esponenti del neodruidismo si radunano a Stonehenge per portare avanti le loro cerimonie religiose, in una data che è di primaria importanza per il loro culto); ma, in realtà, questa moda ha origini ben più antiche. E più banali, se vogliamo: tutto inizia nella tarda età Vittoriana, quando il proprietario che aveva in gestione questo bene culturale si rese conto che bigliettare l’ingresso a Stonehenge in una notte così speciale sarebbe stato un buon modo di fare soldi rispondendo al tempo stesso a un bisogno del grande pubblico.

Perché già da qualche tempo la brava gente d’Inghilterra aveva cominciato a radunarsi a Stonehenge nella notte del solstizio in maniera del tutto spontanea, spinta unicamente dalla curiosità d’assistere a uno spettacolo inconsueto. Sorgendo sul giorno più lungo dell’anno, il sole si produce in effetti speciali, agli occhi di tutti quelli che guardano a Stonehenge e dalla posizione giusta: la vista dei primi raggi del mattino che filtrano attraverso il dolmen è effettivamente poetica e stupefacente; sicché, a un certo punto, la brava gente che viveva nei paraggi decise che poteva valer la pena di fare un after hour per godere dello spettacolo.

Non sappiamo esattamente quando e perché nacque questa consuetudine; certo è che, nel 1860, la moda non doveva ancora essere diffusa, se vogliamo dar fede alle parole di lord Carnavon (il padre dell’egittologo più famoso), che ebbe modo di sperimentare un’intensissima emozione nel godere di questo spettacolo in totale solitudine.
Se la solitudine era quello che cercava, lord Carnavon aveva fatto appena in tempo: negli anni ’70, i giornali locali cominciano ad accennare a piccoli raduni di alcune centinaia di persone che avevano trascorso la notte a Stonehenge, ed entro la fine del XIX secolo sappiamo che i pub della zona restavano aperti per tutta la notte per servire i turisti che attendevano l’alba nei pressi del monumento. E che potevano anche essere molto numerosi, soprattutto se il solstizio cadeva in un giorno non lavorativo e se il clima era piacevolmente mite: in quelle circostanze, stando a quanto scrivevano i quotidiani, poteva anche capitare che Stonehenge si trovasse ad accogliere tremila persone in un colpo solo, tra cui anche intere classi di collegiali portati lì in gita scolastica da istituzioni di tutto rispetto come il Marlborough College o la Daunsey Agricultural School, che avevano sede non lontano.

Ma perché questa moda nasce tutto d’un tratto, e con così tanta facilità si diffonde? In questo caso, i giornali ci danno pochi indizi: i cronisti che si recavano sul posto per intervistare la gente si sentivano fornire risposte vaghe sulle linee di “non saprei dire esattamente perché sono qui, ma dicono tutti che è uno spettacolo bello e volevo vederlo anch’io”. Spetterà dunque agli storici fare un paio di supposizioni, notando per esempio che, a fine Ottocento, la crescente diffusione della bicicletta (e poi dei motocicli) aveva reso sicuramente più facile raggiungere la zona (e, ipoteticamente, anche far ritorno in città in tempo per prender servizio sul lavoro la mattina dopo). E, senza dubbio, la crescente scolarizzazione aveva permesso a un numero relativamente vasto di persone di mettere le mani sui tanti opuscoletti che parlavano di quello strano fenomeno solare, che già da tempo era noto all’accademia ma che pian piano cominciò a farsi conoscere anche tra le classi popolari. Che in effetti avevano ragione, nel rispondere ai giornalisti che “non so perché sono qui, ma dicono tutti che è un bello spettacolo”: è un bello spettacolo naturalistico per davvero, che può valer la pena di vedere anche solo per il fatto che il vicino di casa ne è rimasto assai colpito l’anno prima e ne ha poi parlato in lungo e in largo.

Certo è che, quando grandi masse di persone di scarsa cultura sono spinte su un sito archeologico da motivazioni così “di pancia”, non sempre la loro presenza è rispettosa il necessario. Nell’attesa dell’alba, molte persone alzavano il gomito sicché Stonehenge si ritrovava invasa da contadini alticci che, oltretutto, stavano cominciando a prendere il malcostume di infrangere sulle rocce delle bottiglie ancora piene, in una sorta di “battesimo” benaugurale. Molti si arrampicavano sui dolmen in una gara a chi arrivava prima, rischiando di danneggiare anche seriamente quei monoliti (che in effetti proprio in quegli anni andarono incontro a un rapido degrado): insomma, cominciarono inevitabilmente a levarsi delle proteste circa questo malcostume che esponeva a rischi concreti quello che, in fin dei conti, era pur sempre un sito archeologico di rilevanza nazionale.

E così, all’inizio del Novecento, Stonehenge fu chiusa al pubblico mediante una cancellata che fisicamente circondava il monumento e che era sorvegliata da un custode che permetteva l’accesso (a numero chiuso) solo a chi pagava un biglietto. A compiere questa scelta fu Edmund Antrobus, il gentiluomo che all’epoca era proprietario dell’appezzamento di terreno su cui sorgeva Stonehenge e dunque di Stonehenge stesso (all’epoca, bene culturale privato). Nonostante le inevitabili proteste che si levarono, Antrobus ebbe gioco facile nello spiegare che la sua scelta necessaria avrebbe impedito il viavai di gente che stava mettendo in pericolo la conservazione del cromlech, e che i biglietti di ingresso gli avrebbero permesso di raccogliere fondi necessari alla tutela del monumento. Valida argomentazione senza dubbio, ma che ai fini della nostra storia ebbe un effetto collaterale: quello di permettere a gruppi di privati cittadini di prenotare per sé il monumento per qualsiasi tipo di evento avessero voluto organizzare in quel setting scenografico.

Ed è ironico che questo post, che avevo in cantiere da alcuni mesi, veda la luce proprio mentre in Italia infuriano le polemiche sull’imprenditrice influencer che ha chiesto e ottenuto di poter organizzare un evento privato nei locali della Biblioteca Nazionale Braidense: perché le critiche che in questi giorni stanno investendo la fondatrice di Veralab sono davvero molto simili a quelle che, un secolo fa, s’abbatterono sugli enti che vennero giudicati responsabili d’aver concesso l’uso di Stonehenge a gruppi di persone quantomeno eccentriche, con ripercussioni (positive? negative? neutre?) che si vedono ancor oggi.

***

Non sorprendentemente, nel momento stesso in cui ci si rese conto che era possibile prenotare l’ingresso esclusivo a Stonehenge previo pagamento d’una congrua somma di denaro, molte fraternità che si ispiravano al druidismo decisero di approfittare della situazione. I primi a farlo, nel 1905, furono i dirigenti dell’Ancient Order of Druids, una confraternita che era stata fondata nel 1781 da un gruppo di amici appassionati di storia antica. Ben lontani dall’essere gruppi a natura confessionale come sono invece i movimenti neodruidici dei nostri giorni, queste fraternità non avevano niente a che vedere col neopaganesimo come lo intendiamo oggi, nel senso che gli associati non si radunavano per praticare una religione ispirata alla mitologia precristiana e/o comunque diversa da quella della Chiesa d’Inghilterra. In questi gruppi, si entrava più che altro per coltivare comuni interessi culturali, approfondire la peculiare storia della Gran Bretagna, conoscere gente interessante e, soprattutto, stringere contatti. L’Ancient Order of Druids, per esempio, aveva una struttura molto simile a quella della massoneria, con logge sparse sul territorio e in comunicazione tra di loro e con una rigida selezione d’ingresso per individuare i pochi eletti che sarebbero stati degni di entrare in questo contesto esclusivo.

Ambeh: furono proprio questi danarosi galantuomini a organizzare per la prima volta a Stonehenge un evento di PR ad altissima copertura mediatica che ebbe luogo nell’agosto 1905 e si tradusse in una suggestiva cerimonia di iniziazione durante la quale furono accolti all’interno dell’ordine nuovi membri (alcuni dei quali anche di gran pregio). L’evento fu organizzato con la massima attenzione al dettaglio, con gran maestri e iniziati in costume scenico da druido (con tanto di barbe posticce e trucco ad hoc!) e canti che inneggiavano ai quattro elementi.

Spettacolo eccentrico? Senza dubbio; e infatti, molti popolani che assistettero di lontano a questo rituale ne furono molto colpiti, e positivamente; ma non si trattò, in sé e per sé, di una cerimonia religiosa, ma di un puro e semplice spettacolo di PR in una location da capogiro.
E proseguirono su quella stessa falsariga anche i numerosi eventi a porte chiuse che si tennero a Stonehenge negli anni immediatamente successivi, per mano dell’Ancient Order of Druids o di altri gruppi similari. Anche perché, come fa notare Ronald Hutton «in molti sensi, queste fraternità erano il sogno di ogni conservatore culturale. Provvedevano con larghissimo anticipo a prenotare il monumento per organizzarci i loro eventi; esprimevano pubblicamente gratitudine per la concessione ricevuta; evitavano di tenere le loro cerimonie nei periodi di massimo afflusso turistico, e pagavamo un biglietto di ingresso che – visto l’alto numero dei loro associati – poteva permettere di raggranellare somme considerevoli. I loro eventi si traducevano in cerimonie altamente suggestive che i passanti potevano sbirciare (da fuori il cancello), e non contenevano alcun tipo di elemento che potesse offendere il pubblico, nemmeno quello più conservatore» – anzi, spesso e volentieri venivano intonati inni cristiani, proprio a sottolineare che sì, lì si giocava a fare i druidi per interesse culturale, ma la religione è tutta un’altra cosa.

Vi furono polemiche?

Sì, naturalmente; anche perché nell’arco di una ventina d’anni l’affermazione di cui sopra smise di essere vera: Stonehenge (ormai passata alla gestione pubblica dopo la morte del suo ultimo proprietario) cominciò a essere data in affitto anche a un gruppo religioso che continua a non aver niente a che vedere con il neopaganesimo come lo intendiamo oggi, ma che certamente non poteva più dirsi cristiano. Sto parlando della Church of Universal Bond, un gruppo di comunisti vedici adoratori del sole (…no, non sto scherzando) fondato nel 1908 da George Watson MacGregor Reid, un pittoresco e variopinto personaggio alla cui storia sarà forse il caso di dedicare poi un post a parte.

Comprensibile senz’altro che questo gruppo di persone, così strettamente legate al culto del sole, avessero deciso di celebrare le più importanti delle loro cerimonie proprio a Stonehenge, e proprio in occasione del giorno clou: quello del solstizio. Comprensibili senz’altro le polemiche che seguirono, motivate anche dal fatto che (oltretutto) permettere a un gruppo di privati di noleggiare Stonehenge proprio in quel frangente equivaleva inevitabilmente a impedire ai comuni cittadini di fruire di quel sito archeologico proprio nel giorno in cui più di ogni altro sarebbe stato interessante farlo. La Wiltshire Archaeological Society definì «un oltraggio quasi inconcepibile» il fatto che un sito architettonico di quella rilevanza internazionale venisse dato in concessione a «una setta» che voleva utilizzarlo per i suoi eventi privati; il direttore del Salisbury and South Wiltshire Museum fece notare che il mondo accademico britannico avrebbe perso ogni credibilità di fronte alle sue controparti estere, se avesse permesso a un monumento nazionale di diventare «il parco giochi […] di una setta semisconosciuta».

Ne scoppiò una protesta pubblica che tenne banco per mesi e che arrivò fino al parlamento, con la mobilitazione dell’intero mondo accademico: si disse che concedere luoghi di cultura per eventi privati può avere un senso finché l’evento stesso non ridicolizza il luogo che lo ospita (e l’ente che lo ha dato in concessione). E ancora: che un monumento di tale peso non può essere prestato a un gruppo di strambi; che avrebbe dovuto esserci quantomeno una selezione a monte, per evitare di far passare il messaggio per cui basta avere soldi per poterla fare da padrone in un luogo di cultura usandolo persino per ricreare falsi storici in salsa druidica che sono il contrario della cultura stessa. Insomma: per chi ha seguito le polemiche di quest’ultima settimana, sembra di leggere uno qualsiasi dei quotidiani di questi giorni, alla pagina di cronaca culturale.

Per inciso, le proteste del tempo non servirono a nulla: nei fatti, il gruppo religioso continuò a celebrare i suoi rituali a Stonehenge con crescente successo e con grande curiosità di pubblico, grazie anche una ritualità oggettivamente suggestiva che attirava molti spettatori e che guadagnò al leader religioso le simpatie di alcuni patroni provenienti dalla nobiltà britannica (“è uno spettacolo così bello, porta soldi e piace alla gente: suvvia, che male fa?”). Certo è che gli effetti di questa politica si resero evidenti nel lungo termine: quando, nel dopoguerra, nacquero i movimenti neopagani, anche queste nuove religioni ebbero gioco facile nel chiedere (e ottenere) di poter officiare a Stonehenge i loro rituali (e non solo: in anni recentissimi, essendosi ormai consolidati, «molti di questi gruppi stanno cominciando a muoversi su territori più controversi, accampando diritti sulle sepolture preistoriche scoperte in lunghi architettonici», e talvolta pretendendo essi stessi di poter usare quei luoghi per le loro proprie sepolture: «qualcosa che li sta portando in aperto conflitto con la comunità scientifica», nota senza mezzi termini Barry Cunliffe, docente di archeologica celtica all’Università di Oxford).

Certo, direbbero i gruppi che ogni anno animano Stonehenge, lo spettacolo naturalistico diventa ben più suggestivo grazie alla loro presenza e spinge sul luogo grandi masse di persone (con portafogli annessi) che, diversamente, ben difficilmente si sarebbero spostate dal divano di casa loro.

Chi ha torto? Chi ha ragione? Si sarebbe potuto fare diversamente? O fare meglio?
Beh, a quanto pare queste sono tutte domande di attualità bollente, a cui probabilmente ognuno di noi saprà dare la sua risposta (e, da operatrice dei beni culturali, sarei anche molto curiosa di conoscere la vostra!).


Per approfondire:

  • Ronald Hutton, Blood and Mistletoe. The History of Druids in Britain (Yale University Press, 2009)
  • Barry Cunliffe, Druids. A Very Short Introduction (Oxford University Press, 2010)

2 risposte a "La notte del solstizio a Stonehenge: storia culturale di una moda contestata"

  1. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Io avevo trovato un articolo diversi anni fa (una ventina) in cui si dimostrava, con tanto di foto, che Stonehenge è stata rifatta nell’Ottocento… Come stanno le cose?

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Beh oddio, “rifatta” è un po’ eccessivo, diciamo che è stata restaurata pesantemente ecco, sì.

      Fotografie di fine ‘800 la mostrano così:

      Molti dolmen erano in procinto di cadere e altri erano già caduti del tutto, per smottamenti del terreno etc. Diciamo che l’intervento di restauro ha consistito nel raddrizzare quelli storti e tirare su quelli che erano caduti (credo, facendo anche qualche intervento al terreno per renderlo più stabile nel lungo periodo). Però l’intervento si è limitato a riportare nella (presumibile) posizione originaria i dolmen che erano caduti, operando con le metodologie e le conoscenze archeologiche che erano in uso a inizio ‘900. ‘nsomma, da foto come queste si capisce abbastanza bene che lì il problema conservativo era legato al fatto che il terreno stava cedendo 🙂 non direi che si siano presi chissà quali libertà a parte questa ecco.

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