Il dentifricio Erba-Giviemme aveva un problema, anzi due: il primo era un reparto marketing che evidentemente dava impiego a dei disturbati, visto che i grafici producevano locandine tipo questa, in un’epoca in cui non è che fosse molto normale pubblicizzare prodotti per l’igiene orale ricorrendo all’immaginario di spettri col trucco da drag che fuoriescono dalle labbra schiuse delle clienti.
Il suo secondo problema era la sua reputazione, probabilmente assimilabile a quella che hanno oggi le caramelle Rossana: il prodotto preferito delle nonne di tutta Italia, a cui i giovani guardano (se va bene) con affettuosa nostalgia, senza però avvertire il minimo desiderio di infilarlo nel loro carrello della spesa.
Fondata nel 1853, la ditta Carlo Erba era stata la prima industria farmaceutica italiana; e sarebbe decisamente eccessivo dire che avesse problemi di fatturato, ché per intere decadi ebbe il monopolio del settore e, quando anche le si accostò la concorrenza, poté beneficare della fama secondo cui il suo nome era sinonimo di eccellenza. All’epoca dei fatti che stiamo per narrare, c’era però uno specifico settore che stava cominciando a vacillare: quello legato alla cosmesi, in cui la ditta Erba si era lanciata a partire dal 1911 riscuotendo fin da subito buoni risultati. Grazie a una fruttuosa collaborazione con Giuseppe Visconti di Modrone (l’eclettico nobiluomo a cui dobbiamo, tra le altre cose, la costruzione del borgo neo-medievale di Grazzano), la ditta Erba aveva immesso sul mercato una serie di profumi per signora che avevano fin da subito conquistato i cuori delle donne degli anni ‘10: e se la Contessa Azzurra era stata per anni l’acqua di colonia preferita dalle signore italiane, aromi come l’Acqua di Fiume o il Giacinto Innamorato erano stati elogiati e sponsorizzati addirittura da D’Annunzio – niente meno.
Il problema è che D’Annunzio era del 1863; e anche le signore che negli anni ’10 erano state contagiate dalla Erba-mania cominciavano ormai ad avere le prime rughe e i capelli bianchi. Sicché, le giovani generazioni avevano smesso di sentirsi attratte da prodotti cosmetici che ormai percepivano come… beh: roba da vecchi.
Crollate le vendite degli storici profumi, la Erba doveva confrontarsi con un costante calo del fatturato per l’intero settore cosmesi, cui le acque di colonia avevano fatto da traino: e così, una pletora di ciprie, lozioni viso, paste dentifricie e creme mani restavano desolate negli scaffali dei negozi, snobbate esattamente da quelle fasce di giovani consumatrici che la ditta avrebbe invece voluto raggiungere. Ma niente.
O, quantomeno, “niente” fino al momento in cui un pubblicitario dalla mente illuminata ebbe un’idea che non solamente si rivelò funzionale, ma addirittura riuscì a influenzare a lungo il panorama culturale italiano: correva l’anno 1939, e la nostra nazione conosceva il primo secondo concorso di bellezza della sua Storia. L’antesignano di Miss Italia, per capirci.
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I concorsi di bellezza non erano cosa nuova: all’estero, si tenevano con regolare puntualità da almeno una ventina d’anni, con la popolare competizione di Miss America che aveva fatto da traino a partire dal 1921. Nella rigorosa Italia del Ventennio, non avevano però mai trovato diffusione: era stato il governo stesso a scoraggiarli apertamente, e per una triplice serie di ragioni. Innanzi tutto, avevano l’aria d’essere una deplorevole moda estera in salsa americana, francamente rinunciabile per l’operoso popolo italiano; secondariamente, sembravano propagare ideali di bellezza (donne snelle, longilinee, non formose) che il duce non voleva in alcun modo incoraggiare (ben più incline ad apprezzare le curve flessuose della muscolare donna lavoratrice che già si prepara a diventare a madre). In terzo, non pareva in alcun modo opportuno che «l’Italia, terra di santi, di navigatori ed eroi» potesse anche solo simbolicamente incarnarsi «in una ragazzola che si esibiva in braghette e reggiseno sulla passerella», a citare le impietose parole di un editoriale dato alle stampe sulla rivista Tutti.
E badate: l’obiezione ai concorsi di bellezza era una cosa seria. Nel 1938, niente meno che il MinCulPop si era scomodato per frenare sul nascere la sfortunata iniziativa del settimanale di moda Le Grandi Firme, che aveva indetto un concorso fotografico per scoprire chi, tra le sue lettrici, avesse maggiore somiglianza con l’immaginaria donna italiana che campeggiava in copertina su ogni numero della rivista.
Ma no: l’idea non piacque ai piani alti (ché alle Italiane, invece, piaceva un sacco). Il concorso di bellezza elesse pure una sua vincitrice, ma di fatto non ebbe un seguito, e il governo incoraggiò caldamente la rivista di moda a cessare le pubblicazioni ponendo fine alla sua avventura editoriale (come infatti fu, nel settembre di quello stesso anno, anche se probabilmente anche altre valutazioni pesarono sulla scelta di annunciare la chiusura).
Insomma: la materia era delicata, e andava affrontata con molta cautela; ché se il pubblico femminile evidentemente smaniava per poter mettere in mostra la sua bellezza, occorreva trovare un format che gli permettesse di farlo senza incorrere nelle ire di Mussolini. E, nel 1939, questo format fu identificato sotto il profilo di un concorso a premi volto a rilanciare una celebre azienda italiana che stava vivendo un momento di crisi.
Quale? Ma la Erba-Giviemme, evidentemente, che stava giustappunto cercando di ringiovanire uno dei suoi prodotti (non più così) di punta: il dentifricio, come appunto stavamo dicendo.
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Nel 1939, una legge di Pubblica Sicurezza vietava le sfilate in passerella e scoraggiava l’ostentazione del corpo femminile a scopi puramente estetici. Ma Dino Villani – il pubblicitario che la ditta farmaceutica aveva recentemente assunto per cercare di svecchiarsi – trovò brillantemente un modo per aggirare l’ostacolo: se non si potevano far sfilare donne in carne e ossa, e se lo sguardo dei giudici non avrebbe potuto soffermarsi sulle linee dei loro corpi, di certo non sarebbe stato né scandaloso né riprovevole concentrare le proprie attenzioni sulla ricerca del più bel sorriso d’Italia. Soprattutto se questa ricerca era finalizzata alla buona causa di aiutare una storica azienda emblema dell’orgoglio italico, e attualmente bisognosa di aumentare il suo fatturato!
All’epoca, e non sorprendentemente, molte ditte farmaceutiche pubblicizzavano i loro dentifrici attraverso delle illustrazioni in cui una donna immaginaria donava un sorriso smagliante agli osservatori che la guardavano. Villani fu il primo ad avere l’idea innovativa di sostituire quelle risa dipinte con fotografie di donne in carne e ossa, «di quelle belle ragazze che si incontrano ogni giorno per la strada e delle quali ammiriamo, o addirittura invidiamo, il sorriso» – segno di una dentatura sana, evidentemente. E dunque di un’igiene orale curata con attenzione, presumibilmente attraverso i migliori prodotti in commercio: un ottimo biglietto da visita per un dentifricio, com’è ovvio.
Coniato lo slogan accattivante per cui «a dir le mie virtù basta un sorriso» (ovviamente pronunciato dal dentifricio stesso, nella finzione pubblicitaria), Villani si appoggiò al settimanale Il Milione per dare il via a un concorso a premi che, astutamente, ebbe cura di non presentare in alcun modo come sfilata di bellezza.
In primo luogo, non ci sarebbe stata nessuna sfilata, ché i partecipanti avrebbero dovuto limitarsi a spedire un primo piano di un viso sorridente, allegando nome, cognome, indirizzo e autorizzazione a procedere alla stampa. In secondo luogo, il concorso era aperto a tutti: uomini, donne, anziani, bambini. Inoltre, la fotografia poteva anche non essere recente, e poteva addirittura raffigurare un soggetto che non necessariamente coincideva con chi sottoponeva il suo scatto alla giuria: insomma, anche il fotografo avrebbe avuto diritto a gareggiare e a concorrere per il suo premio, quand’anche il sorriso non fosse stato il suo.
Messa così, pareva una gara di fotografia, più che un concorso di bellezza; peraltro, volta al lodevole obiettivo pubblicitario di cui s’è detto. Il primo premio (un assegno di 5000 lire) era decisamente consistente per l’epoca, equivalendo suppergiù al salario di un intero anno per un operaio specializzato; né c’era da disdegnare i premi per tutti i concorrenti che si fossero comunque guadagnati un posto in classifica. E così, il concorso Cinquemila lire per un sorriso fece immediatamente boom, nella calda estate del 1939: le ragazze facevano la fila davanti agli studi dei fotografi, incredule al pensiero di poter vedere le loro foto stampate ad alta tiratura su una rivista nazionale; e chiunque fosse stato in possesso di una macchina fotografica se ne andava a zonzo per le spiagge, i cinema, gli stadi e le caserme, offrendosi di fotografare i sorrisi dei passanti e spartire con loro il primo premio. Al quale s’affiancavano comunque, e spontaneamente, molti altri “premi” di consolazione che potevano essere non da meno: ché le foto venivano accompagnate da una didascalia che riportava l’indirizzo di chi le aveva presentate; sicché, le signorine dai sorrisi più piacenti cominciarono a trovarsi subissate da lettere di ammiratori, proposte di matrimonio e, meglio ancora, offerte di lavoro da agenzie di modelle alla ricerca di un nuovo volto.
Ma (fortunatamente per gli organizzatori del concorso), il successo dell’iniziativa fu trasversale: e la rivista che ospitava la rassegna si trovò presto invasa di visetti sdentati di bambini che stavano perdendo i denti da latte; di smorfie buffe di uomini anziani che volevano prendere in giro le loro figlie; di sorrisi piacenti di giovanotti in posa o di soldati che stavano facendo il servizio di leva. Ci fu addirittura chi fotografò animali, con una certa ironica predilezione per i sorrisi di cavalli; e, a giudicare dalle foto che furono date alle stampe, ci fu pure chi andò giù pesante con gli antesignani di Photoshop.
Ma a vincere il concorso, non sorprendentemente, non fu un cavallo: fu Isabella Verney, una ragazzina torinese che aveva da poco compiuto quattordici anni – circostanza che purtroppo le impedì di accettare le numerose offerte di lavoro, anche prestigiose, che fioccarono alla sua porta di lì a poco, avendo la giovane due genitori che ritenevano prioritario farle finire gli studi e permetterle di vivere una vita normale nella quiete domestica che l’aveva cresciuta fino a quel momento.
Nel 1940, visto lo strabiliante successo dell’anno precedente, il concorso ritornò. Con qualche modifica al montepremi, garbatamente “suggerita” dal governo in carica a cui certo non era sfuggita la reale natura di quella gara di bellezza solo artatamente mascherato da competizione fotografica.
Sicché, giusto per soffocare sul nascere ogni velleità vanesia e rendere invece chiaro qual era il vero sogno cui avrebbero fatto bene aspirare tutte le Italiane, ancorché provviste d’un bel sorriso, il MinCulPop fece rinominare il concorso Cinquemila lire e un corredo per un sorriso: un’aggiunta di per sé eloquente. Al premio monetario, si aggiungevano infatti una pelliccia, un impermeabile, sei paia di calze di seta, una cucina a gas, un lampadario in vetro di Murano, un soggiorno di due settimane per due persone in un albergo di Cattolica e un corredo per cui le giovinette italiche avrebbero senza dubbio dovuto stravedere. E nel 1941 la dimensione matrimoniale del concorso, eloquentemente ribattezzato Una dote per un sorriso, fu resa ancor più evidente dall’abolizione del premio in denaro: al suo posto, un diamante dal valore equivalente, per la gioia di tutti i fidanzati che avrebbero potuto risparmiarsi la spesa legata all’anello da donare alla loro bella.
E nel 1942? Beh, il concorso non ci fu: né ci fu negli anni immediatamente successivi, ché l’infuriare della guerra e l’acuirsi della tragedia sconsigliarono di proseguire su questa linea. Le Italiane, ormai, avevano ben poca voglia sorridere, e peggio ancora di sorridere a comando. Fu Miss Italia, nel 1946, a riportare in auge i concorsi di bellezza: e ormai poté farlo in maniera esplicita, senza autocensure o censure di Stato, adottando le classiche tecniche delle competizioni in voga all’estero (sfilate dal vivo, vestiti succinti, premio al corpo più piacente e così via dicendo). A dirigere il concorso fu Villani, lo stesso pubblicitario che pochi anni prima aveva risollevato le vendite del dentifricio.
A proposito: e che ne fu del dentifricio?
Già a partire da quel glorioso 1939, le sue vendite avevano fatto il boom, godendo di una popolarità che faceva specchio a quella del concorso di bellezza. E la ditta Erba fu talmente compiaciuta dai risultati che, per diversi anni, divenne lo sponsor principale della rassegna nascente di Miss Italia – che ancor oggi mette in palio un piccolo montepremi anche per lei che sarà eletta Miss Sorriso, in un omaggio a quella storia ormai antica che molti considerano, de facto, l’embrione da cui nacque il concorso di bellezza più ambito dalle Italiane.
Per approfondire:
Marzia Leprini, Le Olimpiadi Della Bellezza. Storia del concorso di Miss Italia (1946-1964) (Pacini Editore, 2020)




