Cosa si mangiava in un collegio gesuita di metà Seicento?

Come molti sanno, sono un’archivista ecclesiastica.
Come sanno alcuni, ho avuto il piacere di lavorare per lunghi anni negli archivi di congregazioni religiose vocate all’insegnamento; e se i Gesuiti non sono mai stati tra i miei clienti (precisiamolo: così, a scanso di equivoci), sono ragionevolmente certa che quanto sto per dire s’attagli a qualsiasi istituzione ecclesiastica che si sia trovata a gestire collegi per figli di famiglie benestanti, se non ricche. Ebbene: a mio gusto, poche carte d’archivio sono più divertenti di quelle che danno conto della gran fatica con cui i cuochi del collegio si industriavano per portare in tavola dei menù di tutto rispetto nonostante i periodi di magra, le carestie, e le guerre – ché se paghi una retta considerevolmente alta per far crescere tuo figlio in un collegio rinomato, t’aspetti (e non a torto) che il pargolo possa godere di un buono stile di vita e di una dieta ricca e diversificata. E poche fonti sono più interessanti di quelle create dagli addetti alle cucine, tutti presi nei loro sforzi di portare in tavola qualcosa di buono e di gustoso: è la Storia che mi più mi piace, quella semplice e di ogni giorno, così minuta da non poter ambire alle grandi dissertazioni accademiche e quindi proprio per questo più preziosa agli occhi di quei felici pochi che possono invece toccarla con mano.

A meno che – come accade di tanto in tanto – anche questa piccola Storia diventi oggetto di studio. Così è accaduto per i menù dei collegi di Gesuiti, divenuti nel 2009 oggetto di studio da parte di David Gentilcore: attingendo a fonti documentarie di vario tipo, con un focus sulle carte d’archivio del Collegio Romano, lo studioso dell’Università di Leicester ha dato alle stampe un articolo gustosissimo che ci permette di fare virtualmente un viaggio nel tempo per ficcanasare un po’ nelle cucine d’una scuola per ricchi di metà Seicento.

E allora: che si mangiava in un collegio per ragazzi ricchi, al tempo dei Promessi Sposi?

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Al mattino, ovviamente, si faceva colazione, e fin lì poco da segnalare: nei giorni di festa (che includevano il giovedì, quando tradizionalmente tutte le scuole restavano chiuse e si faceva una pausa dalle lezioni) poteva capitare che i convittori se la vedessero servire direttamente in camera e con una dolcezza tutta speciale, nel senso che letteralmente il menù del giorno prevedeva un dolce (i ciambelloni andavano per la maggiore). Negli altri giorni della settimana, più prosaicamente, sarebbe toccato accontentarsi di una colazione a base di pane fresco, appena uscito dalla bottega del fornaio, accompagnato da un po’ di formaggio. La moda di bere di caffè a colazione non era neanche lontanamente diffusa, a quei tempi, sicché toccava svegliarsi con le proprie forze (per inciso, attorno alle 5:30, col primo sorgere del sole).

Il pranzo e la cena, beh: erano tutta un’altra storia.
Seguendo la tradizionale struttura che era diffusa in tutta la penisola, nelle case delle famiglie ricche o quantomeno benestanti, il pasto si componeva di tre portate: antipasto; minestra & porzione; postpasto. Quasi nessuna si presentava nelle modalità che normalmente assoceremmo noi moderni a questi nomi: per esempio, la minestra non era liquida e il postpasto non aveva neanche lontanamente l’aria di un dessert.

E anche gli antipasti ci lascerebbero probabilmente molto interdetti, se ce li vedessimo servire oggi: ché lo scopo di questa prima portata non era esattamente quello di stuzzicare l’appetito nell’attesa del piatto principale. Più propriamente, l’antipasto aveva all’epoca una funzione medica, volta ad aprire la bocca dello stomaco (così come si diceva a quei tempi, e in senso piuttosto letterale) e metterlo nelle migliori condizioni possibili per avviare il processo di digestione. Nell’Italia del Seicento, lo stomaco era inteso come una specie di forno che, sottoponendo i cibi a una “seconda cottura” tra le viscere del corpo, ne consentiva l’assimilazione: ma a evitare che questo forno si scaldasse eccessivamente (cosa che avrebbe potuto dare origine a – letterali! – bruciori di stomaco) era importante assicurarsi che esso fosse fresco e pulito, prima di metterlo al lavoro. Sicché, gli antipasti che venivano serviti all’epoca erano scelti non in base al loro sapore stuzzicante, bensì in base alla loro consistenza: la più fredda e umida possibile, a dare una rinfrescata allo stomaco prima di metterlo al lavoro. Sicché, se fossimo stati ospiti di un collegio gesuita di metà Seicento, avremmo facilmente potuto vederci servire insalate di stagione, tartare di carne cruda e taglieri di affettati (e fin lì, niente di strano, mi direte); ma anche macedonie di frutta e piccole porzioni di carne al guazzetto, accompagnate da bolliti freddi e piatti in umido.

A seguire, la portata principale (cioè porzione, nel linguaggio dell’epoca), accompagnata da quello che noi definiremmo probabilmente “contorno di verdure” e che all’epoca prendeva il nome di minestra, pur senza essere un minestrone. Ovviamente. Il gusto dell’epoca, però, gradiva molto i contorni con una consistenza semi-umida, o perché serviti in purè o perché legati da qualche salsa sfiziosa; quindi, non vere minestre ma neppure la nostra dadolata di patate al forno. Al loro fianco, sul piatto di portata, si trovava per l’appunto la porzione principale, a base di carne, uova, o crostate ripiene (quelle che oggi definiremmo torte salate); il pesce veniva consumato quasi esclusivamente in Quaresima, e senza troppo entusiasmo; durante il resto dell’anno, nei giorni di magro si preferivano altri tipi d’alimenti.

E infine, il postpasto: dalla funzione speculare e opposta a quella degli antipasti, aveva lo scopo di chiudere la bocca dello stomaco scaldandolo quel tanto che bastava per dare il via a quella “seconda cottura” che era il processo di digestione: via libera quindi a frutta candida, frutta secca, salse speziate e formaggi stagionati. Non esattamente il dessert che ci aspetteremmo di vederci fornire a fine pasto.

E se questo era lo schema principale dei pasti, non mancavano le eccezioni: ché i Gesuiti, a differenza di altri ordini religiosi, non davano un valore eccessivo alla morigeratezza a tavola; e, pur senza incoraggiare le abbuffate e gli stravizi, non lesinavano porzioni più abbondanti e piatti extra a vantaggio di chi sembrava averne bisogno. Per esempio, gli studenti sotto esame o impegnati nell’allestimento di un lavoro teatrale (una attività didattica che andava per la maggiore, nei collegi gesuiti) avevano diritto a una doppia razione di antipasti e di postpasti; e lo stesso benefit spettava a tutti i religiosi che tenevano gli esami, coordinavano la preparazione degli spettacoli teatrali o, più banalmente, erano impegnati anche fuori dalla scuola con attività pastorali che li costringevano a fare gli straordinari (sermoni quaresimali, cura d’anime in parrocchia, esorcismi, e così via dicendo). E se, di norma, non si mangiava fuori pasto, un’eccezione veniva fatta per tutti quegli ospiti o quei convittori che bussavano alla porta dei collegio a metà giornata, reduci da un viaggio che li riportava in città: era prescritto che ognuno di loro trovasse ad attenderlo, nella sua stanza, un lavabo pieno di acqua calda con cui potersi dare una rinfrescata a una insalatina di olive e finocchio, da sgranocchiare nell’attesa di potersi sedere a tavola.

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Ma se questa era – per così dire – l’intelaiatura dei pasti in un collegio del Seicento, cosa si mangiava concretamente una volta seduti a tavola? Insomma, quali erano le ricette preferite dei Gesuiti della Roma seicentesca?

Innanzi tutto, si mangiava un mucchio di pane (le spese per i farinacei ammontano al 15% del budget che il Collegio Romano stanziava per le spese alimentari!). Doveva essere bianco, di buona qualità, nutriente e rinnovato ogni giorno: era vitale che ognuno fosse libero di mangiarne fino a sazietà, senza sentirsi in dovere di razionare le porzioni. Tra i formati preferiti c’erano le classiche pagnotte lievitate ma anche dei farinacei che potremmo probabilmente assimilare alle nostre focacce, come le cacchiarelle che Mani di Pasta Frolla s’è divertita a preparare seguendo una delle ricette d’epoca; buone per davvero, e davvero da riscoprire se volete un consiglio.

La pasta, invece, veniva mangiata molto di rado (a voler fare un paragone, solo l’1% del budget annuale veniva stanziato per l’acquisto di pasta e riso): non tanto perché non piacesse, ma perché all’epoca era percepita – almeno a Roma – come un cibo eccentrico, da gustare con gioia ma senza esagerare troppo per evitare di farselo venire a noia. Veniva servita, occasionalmente, nei pranzi del mercoledì da ottobre a giugno (in estate veniva evidentemente considerata troppo pesante), spesso nella forma di tagliolini con formaggio. Per inciso, casomai voleste riproporre sulle tavole di casa vostra la pastasciutta gesuitica (cosa che sconsiglio), ogni porzione si componeva all’incirca di 55 grammi di pasta, 400 (!) grammi di burro e 225 grammi di formaggio grattugiato, a dare origine a una mostruosità che probabilmente troveremmo più simile al Mac&Cheese degli Americani che non ai nostri spaghetti cacio e pepe.

A Carnevale e in occasioni delle grandi feste, si consumava volentieri anche la pasta ripiena – curiosamente, ripiena di uova e formaggio ma non di carne. Molto apprezzati erano anche i ravioli nudi, frequentemente serviti ai malati perché considerati rinvigorenti: una ricetta del 1705 proveniente dall’infermeria del Collegio Romano suggerisce di prepararli mescolando in parti uguali ricotta dolce, provatura (l’omologo romano della mozzarella), farina, sale e zucchero. L’impasto veniva lavorato a creare piccoli salsicciotti che venivano bolliti, conditi con burro, cacio dolce, zucchero e cannella e poi ripassati in forno perché facessero una crosticina: una delizia prelibata, stando all’infermario del Collegio.

Il pesce? Lo si mangiava pochissimo, e quasi esclusivamente in Quaresima. E senza sbilanciarsi troppo, ché i cuochi del collegio si limitavano a portare in tavola tonno in tutte le salse (al forno, in guazzetto, fritto, sotto gelatina, in polpette…), molluschi e caviale (Quaresima sì ma con un certo stile, evidentemente). Di gran lunga preferite, nei giorni di magro, erano le uova, che davano l’idea di essere consumate a livelli che parrebbero inquietanti agli occhi di un uomo di oggi (ci si spendeva circa il 10% del budget annuale per il cibo). Venivano servite in ogni modo possibile: sode, fritte, al tegamino, strapazzate, oppure lavorate a creare una infinità di diverse frittate e una moltitudine di torte salate d’ogni tipo (una crostata di uova, zucchine e ricotta era, per la cronaca, il piatto che andava per la maggiore nelle giornate di magro non quaresimali).

I dolci come li intenderemmo oggi? Venivano consumati piuttosto di rado (anche se la cucina dell’epoca portava frequentemente in tavola piatti dal sapore agrodolce, che oggi assimileremmo ai dolci punto e basta). Con l’esclusione del ciambellone festivo del giovedì mattina e di alcune crostate che venivano portate in tavola in occasione di eventi davvero eccezionali (come la festa di san Luigi Gonzaga, nella quale i Gesuiti rinnovavano i loro voti), i dessert consumati dai figli di Loyola consistevano perlopiù in frutta cotta al forno, o (più frequentemente) trasformata in marmellata. La si serviva spalmata su una fetta di pane, con una spolverata di zucchero e cannella a esaltarne il sapore: pareva una prelibatezza, all’epoca; e il pensiero fa anche sorridere, tenuto conto del fatto che questo commento arriva da chi era abituato a pasteggiare col caviale per far penitenza in Quaresima. Ma la bellezza di queste chicche è proprio questa: farti vedere quanto profondamente cambino i gusti, le abitudini (e anche i prezzi) col passar del tempo.

E insomma: vi sarebbe piaciuto, mangiare come un Gesuita, nell’Italia del Seicento?


Per approfondire:

David Gentilcore, The Levitico, or How to Feed a Hundred Jesuits; paper originariamente presentato alla Sixteenth Century Studies Conference di Ginevra (28 – 30 maggio 2009)

12 risposte a "Cosa si mangiava in un collegio gesuita di metà Seicento?"

  1. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Giovedì le scuole restavano chiuse. Ho visto che anche le Tempora saltano il giovedi (Mercoledì, Venerdì, Sabato). Qui in zona le curie vescovili (Gorizia e Trieste) e anche diversi uffici parrocchiali ancora oggi sono chiusi quel giorno. Quindi il giovedì era festivo… perchè?

    I ragazzi dovevano svegliarsi con le proprie forze, ma veniva qualcuno, qualcuno suonava una campanella o dovevano proprio svegliarsi da soli?

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Questa in effetti è una bellissima domanda… a cui però non so dare risposta. Non credo onestamente che ci sia una motivazione religiosa; cioè, se ci fosse credo che in qualche modo lo saprei, l’avrei letto in giro. Per esempio, il mercoledì era tradizionalmente considerato giorno di penitenza (era il giorno in cui Giuda prese concretamente la decisione di tradire Gesù e andò ad accordarsi col sinedrio, secondo tradizione), ma il giovedì… boh?

      Ti posso dire però che le scuole restavano chiuse di giovedì anche nella Francia di metà ‘600 (lo so per altre carte che appunto ho archiviato), e che anche molti altri lavoratori riposavano quel giorno, ed erano al lavoro il sabato. Onestamente sospetto che fosse proprio un diverso modo di ripartire il riposo settimanale, banalmente (e chissà che non funzionasse anche bene. Chissà se ci si riposa meglio con 48 ore consecutive di stop o con due pause più brevi ogni tot. giorni)?

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      1. Avatar di Sconosciuto

        Anonimo

        non so se c’è un collegamento, ma anche in Alto Adige molti posti (negozi tipo panetteria, gastronomia intendo) sono chiusi il giovedì!

        PS sto scrivendo dal cellulare che non so perché mi va a capo ogni poche parole, mi scuso, non sto cercando di scrivere un testo poetico 🙂

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Io con la cannella sono molto medievale, la metto spesso anche là dove la gente sana di mente non si sognerebbe mai di provarla. Per esempio, nel ragù di carne ci sta che è una meraviglia (a mio gusto), e non la trovo male sulla carne in generale. Si sente, ma si accompagna anche bene.

      (La prima volta che l’ho mangiata nel ragù era in un ristorante oh, non sono pazza io che faccio esperimenti strani facendomi ispirare dai libri medievali! 😂)

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      1. Avatar di Sconosciuto

        Anonimo

        Ci sta la cannella nel ragù di carne!

        In generale (forse perché non amo tantissimo e non considero imprescindibili i dolci) non mi sembra male, questa dieta dei gesuiti! Spiace solo per la pasta che effettivamente cucinata così è un po’ inquietante…

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        1. Avatar di Lucia Graziano

          Lucia Graziano

          Ma sì, ti dirò… su Facebook questa dieta aveva suscitato scandalo e disgusto collettivo: che roba immangiabile, ma come resistevano. Con l’esclusione di cose evidentemente estreme tipo la pasta, posso dire che a me non sembra nemmeno poi così malaccio visto il periodo? 😝

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  2. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    ma quindi a colazione cosa bevevano? Latte? O acqua?

    immagino che l’ abitudine di mangiare pesce dipendesse anche da dove si trovava il convento, tipo in sud Italia o nelle località vicino al mare forse si mangiava più spesso in generale.

    mi piacerebbe provare a riprodurre i ravioli nudi, devono essere buoni, invece la pasta al burro deve essere micidiale 😅.

    bell’articolo, grazie .

    elena

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    1. Avatar di ac-comandante

      ac-comandante

      Quasi mezzo chilo di burro? 😮 Ma che dovevano fare, arrostirci gli svizzeri (che a Roma in effetti si trovano…)?

      😛

      Per me il burro è taref, al più la margarina e a piccole dosi, piccole dosi anche per la pasta (che non amo); per me sono taref anche le uova. La cannella mi dà fastidio, potrei perfino esserne allergico.

      ciaociao

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