Bartali, il ciclista santo che salvò l’Italia dai bolscevichi

Credo che non sia mai esistito un atleta così amato e osannato dalla comunità cattolica italiana. E con “comunità cattolica” non intendo i giovanotti che facevano il tifo per il loro eroe dopo aver preso la Messa domenicale come un buon cristiano: no no, intendo proprio orde di monaci, preti e vescovi, che stravedevano per Bartali e non ne facevano mistero.

Il fatto gli è, amici lettori, che Gino Bartali era un buon cattolico.
Punto e a capo.
Nel suo privato, era un cattolico convinto: non uno di quelli che sventolano la fede per guadagnarsi qualche titolone, ma poi chissà se ci credono davvero. No no: Bartali era un cattolico fervente, che teneva davvero alla sua religione, come non mancavano di testimoniare ai cronisti i suoi amici (tra i quali comparivano svariati sacerdoti). Sicché, quando il ciclista cominciò a diventar famoso (grossomodo, dopo la sua vittoria del Giro d’Italia nel ‘36), la stampa cattolica cominciò a parlare di lui come del Magnifico Atleta Cristiano per eccellenza.

A Bartali come ciclista cattolico è dedicato un intero capitolo nel bel saggio Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra fredda di Stefano Pivato, che ho già citato più volte su questi schermi. L’esaltazione di Bartali atleta pio e devoto è un crescendo lento e inarrestabile che, a partire dal 1936, è destinato a farsi sempre più radicato. Già nel 1937, il tifo cattolico per Bartali era così consolidato che, dalle pagine del Corriere, Orio Vergani poteva descriverlo in questi termini:

La voce si è sparsa rapida, ha raggiunto le chiese e i conventi. Non s’è mai visto un Giro d’Italia con tanti vecchi preti sulla soglia della chiesa, magari con un bandierone in mano. Un Giro d’Italia con tanti fraticelli che aspettano pazientemente sotto gli alberi. Un Giro d’Italia con tanti seminaristi allineati sui viali fuori porta e con tante monache che portano fuori dal cancello della loro scuoletta le bambine che battono le mani anche loro.

Ma questo entusiasmo popolare era ancora nulla, se paragonato a quello che sarebbe esploso, di lì a poco, di fronte alla strepitosa vittoria di Bartali al Tour de France del 1938, oltretutto maturata in un clima politico di tensione tra Italia e Francia. In quel caso, la stampa italica non esitò a definire Bartali un “crociato” dalla fede “semplice e ardente”, riuscito nell’impresa di far stravincere “in terre libertarie ed atee” i salutari valori della fede cristiana (?).

Casomai qualcuno si stesse chiedendo in che diamine di modo una pedalata in biciletta possa farsi portavoce dei valori del cattolicesimo: i giornalisti dell’epoca ci tenevano a spiegare che Bartali era un grande campione proprio perché era un grande cristiano. La sua regolarità di vita, le sue abitudini rese moderate dalla temperanza, il suo guardare al lavoro come a una sorta di vocazione – tutto questo contribuiva a fare di lui un grande atleta. Un Bartali che non fosse stato anche cattolico non sarebbe mai riuscito ad arrivare alle vette di perfezione che la pratica religiosa era in grado di donargli: o così almeno assicuravano in coro tutti i periodici italiani di ispirazione cristiana.

Non sorprendentemente, il fascismo visse malissimo tutta ‘sta esaltazione a natura confessionale. Mussolini voleva che Bartali fosse percepito, in Italia, ma soprattutto all’estero, come il campione fascista -non come il campione stinco di santo.
Oltretutto, la continua sottolineatura della temperanza del ciclista aveva l’imbarazzante capacità di mettere implicitamente in discussione il modello di “atleta fascista” propagandato dal regime. Gli sportivi di Mussolini dovevano essere espressione di quel “uomo nuovo” votato al Fascio, dalla virilità possente e ostentata (spesso accompagnata da eloquenti allusioni a una vita sessuale attiva e variegata). Bartali, per contro, era osannato dalla stampa cattolica come un giovane uomo “casto per convinzione morale e igienica”; giovane uomo che – come sottolineava la Rivista dei Giovani – non ha alcun bisogno di “distinguersi per essere un porcellino scatenato”.

E così, a un certo punto, il regime decise di finirla con questo confronto sotterraneo. Il 9 agosto 1938, a qualche giorno di distanza dalla vittoria al Tour de France, una velina del MinCulPop ordinava a tutti gli organi di informazione di finirla una buona volta co’ ‘sta propaganda da oratorio: “i giornali si occupino di Bartali esclusivamente come sportivo, senza inutili resoconti sulle sue giornate di libero cittadino”. E che siamo: stampa di regime, o bollettini parrocchiali della domenica?!

E anzi: sui giornali più vicini al fascismo, si cominciò a irridere, se non direttamente Bartali, quantomeno la sua tifoseria. Mentre il ciclista prendeva il soprannome (affettuoso?) di “fraticello”, i suoi sostenitori cominciavano a essere dipinti come una massa di rozzi creduloni che, durante le gare,

gli offrono delle immagini. San Gennaro in prima fila, poi in ordine sparso S. Teresa, S. Calisto o che so io. Naturalmente queste immagini hanno delle virtù miracolose, sono state fatte benedire apposta, e tutte le sere tutti questi reverendi dedicano una mezz’ora di preghiere perché Bartali vinca il Giro.

O così, almeno, assicurava Schermo sportivo.

Solo molti anni più tardi sarebbe stata resa nota l’attività di resistenza al regime che Bartali aveva effettivamente portato avanti, aiutando centinaia d’ebrei a mettersi in salvo. Per il momento, bastavano una fede sincera e una condotta privata un po’ troppo “bigotta” per attirarsi le antipatie del fascio.

***

E poi vi fu la guerra.
Le attività sportive si interruppero.
Bartali impiegò quegli anni dedicandosi a quelle attività eroiche che ormai conosciamo tutti.
E poi la guerra finì e riprese l’attività agonistica, in una Italia in cui nulla era uguale a prima… tranne una cosa: Bartali era lo straordinario campione di sempre.

Ormai trentatreenne (un’età non più giovane, per un atleta!) Bartali compì imprese che hanno del prodigioso: nel 1946 vinse il Giro d’Italia; nel 1947 si aggiudicò la Milano-Sanremo; nel 1948, trionfò al Tour de France. Ma non è finita: nel 1950, ri-vinse la Milano-Sanremo; nel 1952, a trentotto anni (!), si aggiudicò la maglia di campione d’Italia.

E indovinate a cosa fu attribuita la straordinaria prestanza fisica di questo atleta che stravinceva tutto e ovunque, all’alba dei suoi quarant’anni?
Sì, bravissimi: di nuovo, alle sue rette abitudini di buon cristiano: a “questa norma di vita religiosa che ha messo sul ritmo di un orologio la sua vita morale e fisica”, giacché “una vita cristiana e cristianamente vissuta è un mezzo idoneo per ottenere i successi anche terreni” (cfr. Il Popolo, 27/07/48).
Perdipiù, Bartali era un campione che era rimasto umile. Come sottolineava nell’aprile 1949 la rivista Stadium, “le tentazioni, i trionfi, i denari della grande città non l’hanno né allettato né mutato: egli è rimasto l’artigiano, il contadino, il lavoratore toscano, attaccato alla sua gente, alla sua terra, alla sua casa”.
E alla sua famiglia.

Un elemento, quest’ultimo, molto importante ai fini dell’esaltazione cattolica del ciclista, soprattutto se calcoliamo che il suo grande rivale, Fausto Coppi, era andato a infilarsi proprio in quegli anni in una situazione sentimentale scandalosa: accecato dall’amore per la Dama Bianca, aveva abbandonato moglie e figlia. Pubblico peccatore (e, oltretutto, trasgressore delle leggi, in un’Italia in cui l’adulterio era reato) Coppi – sebbene campione trionfante – cominciò a essere additato da molti organi stampa come l’atleta cattivo: fortissimo, sì, e sportivamente ammirevole, ma moralmente impelagatosi in deplorevoli vicende. Oh, quanta differenza, quanta triste lontananza con l’esempio positivo fornito da Gino Bartali, vero interprete di una fede luminosa e vera che rischiara ogni ambito della vita!

L’adulterio di Coppi contribuì a cementare, nell’immaginario collettivo, l’idea di una eterna rivalità tra lui e Bartali, che presto assunse, nell’Italia del dopoguerra, connotati che andavano ben oltre la competizione sportiva. A Bartali, ormai divenuto simbolo dell’Italia democristiana, si contrapponeva l’immagine di un Coppi che tutti si immaginavano filo-comunista…. mostrando, peraltro, una immaginazione abbastanza sfrenata: nei primi anni della sua carriera, Coppi aveva più volte dedicato alla Vergine le sue vittorie e fatto cospicue donazioni alla Chiesa di Roma. Prima dell’abbandono del letto coniugale, la stampa cattolica ne aveva addirittura esaltato le sue virtù di padre, stupendosi non poco di come alcune testate di sinistra si ostinassero a ritenerlo un comunista in pectore. E, in effetti, tanto tanto bolscevico Coppi non doveva esserlo, se, nel 1948, aveva posato, assieme a Bartali!, in un manifesto elettorale a favore della DC.

Eppure, fu proprio Bartali (e solamente Bartali) a diventare emblema dell’Italia della DC; e in ciò fu sicuramente aiutato dalla sua straordinaria vittoria “cattolica e democristiana” ottenuta al Tour de France del 1948. E per spiegare in che modo una gara sportiva possa avere ripercussioni addirittura partitiche, andrà sottolineato che quell’impresa ciclistica si svolse esattamente nelle stesse ore dell’attentato a Togliatti.

Mentre il leader del PCI veniva assalito a colpi di pistola all’uscita da Montecitorio, Bartali si stava giocando il tutto e per tutto nella tappa Cannes-Biançon, staccando di venti minuti il secondo classificato e portandosi a soli 21 secondi dalla conquista della maglia gialla. Il giorno dopo ripeteva l’impresa, stra-vincendo in solitaria ad Aix-Les-Bains. Le radiocronache della gara si inframmezzavano ai bollettini medici sulle condizioni di Togliatti e ai resoconti, ben più allarmanti, sui disordini di matrice comunista che l’attentato aveva ingenerato. La CGIL aveva proclamato uno sciopero generale; ovunque, gli operai erano scesi in piazza; nelle grandi città del Nord, numerose fabbriche erano state occupate e si registrava pure il caso eclatante dell’amministratore delegato della FIAT che era stato sequestrato da un piccolo gruppo di operai armati. Sul Monte Amiata, i minatori avevano manomesso le linee telefoniche riuscendo a bloccare per qualche tempo i contatti tra Nord e Sud. In numerose città erano volati colpi di pistola e, negli scontri di piazza, sedici persone avevano la vita. L’Italia sembrava seriamente sul baratro di una rivoluzione di stampo comunista, o quantomeno destinata a sprofondare in una situazione di disordini diffusi… ma non accadde nulla del genere. Due giorni dopo, fu revocato lo sciopero generale e gli operai ritornarono al lavoro.

I titoli dei giornali non mancarono di enfatizzare il ruolo di Bartali come salvatore della Patria: la sua straordinaria vittoria sportiva aveva, secondo loro, allentato la tensione rivoluzionaria, placando gli animi e appianando le diversità in nome di una esultanza collettiva.
Poco conta il fatto che questa fantasiosa interpretazione non trovi alcun riscontro nei fatti. I militanti del PCI hanno sempre attribuito la loro “ritirata” a un senso di responsabilità che li ha indotti a frenare la rabbia popolare per non gettare il Paese nell’instabilità. E, del resto, neppure i rapporti dei prefetti fanno il minimo cenno agli umori delle folle, influenzati dalla tifoseria: semmai, il merito d’aver evitato la catastrofe viene dato al giusto mix di fermezza e moderazione usato dalle forze di polizia.

Chi invece non sembrò nutrire il minimo dubbio sul ruolo di Bartali come salvatore della Patria fu – di nuovo – la stampa cattolica: Il Popolo si spinse addirittura a scrivere che la corsa sulle piste francesi era stata indubitabilmente protetta dalla Madonna. Era la definitiva consacrazione del ciclista come Magnifico Atleta Cristiano (…e democristiano). Nel 1951, un volumetto per bambini edito da Vallecchi e dedicato a I grandi campioni del ciclismo si spingeva addirittura a definire Bartali Il corridore santo, descrivendo in questi termini le prodezze dell’atleta:

Un giovane, non sappiamo se più cattivo o più pazzoide, aveva tentato di uccidere un importante uomo politico e per poco il nostro paese, dopo tutto il dolore e le rovine della guerra, non conobbe anche gli orrori della rivoluzione. Le città, le nostre belle città, avevano assunto un volto strano. Gruppi di persone si aggiravano per le strade con visi e atteggiamenti poco rassicuranti. I negozi erano chiusi, i tram non funzionavano, i giornali non venivano venduti. Ogni tanto le sirene delle auto della polizia spandevano un suono lugubre di sventura. Pareva di essere tornati ai tempi dell’emergenza. Nessuno rideva, tutti erano cupi in volto. La paura, l’odio, i sentimenti più terribili si leggevano sui visi dei rari passanti. Nelle case le donne tremavano al pensiero di dover i figli, i fratelli, i mariti con le armi in mano.

Ma una sera la radio annunciò che Gino Bartali aveva riconquistato la maglia gialla al Tour. La notizia passò più rapida di un fulmine, legò i gruppi dei cittadini in allarme con un nastro tricolore, ricordando a tutti che eravamo italiani. La gente sorrise: dalle città, dalle campagne si levò come un grande sospiro di liberazione. Di nuovo, nella gioia di una bella vittoria sportiva italiana, ci risentimmo uguali e ci riguardammo con amore.

E pensate che all’epoca non ci conoscevano ancora quelle attività, oggettivamente eroiche, che lo avrebbero portato a diventare Giusto tra le Nazioni. Solo negli anni Ottanta divenne di pubblico dominio la notizia dell’impegno di Bartali a favore degli ebrei.

8 risposte a "Bartali, il ciclista santo che salvò l’Italia dai bolscevichi"

  1. claudia

    Articolo meraviglioso 🙂 Gino Bartali era un grande ed anche modesto!!!
    Ho conosciuto la figlia di un “giusto tra le nazioni” che non avrà mai una medaglia. Salvò un uomo ebreo nella Roma occupata nascondendolo in casa propria. Poco dopo la liberazione mori di malattia lasciando la moglie incinta di sette mesi. Nacque una bambina che, all’epoca in cui la conobbi, aveva circa 70 anni. L’uomo salvato dal padre è sempre rimasto presente nella sua vita e dopo la sua morte era ancora amica della figlia di lui nata alcuni anni dopo. Quando le ho chiesto se avesse mai chiesto una medaglia per suo padre mi ha risposto “Non c’è bisogno. So che quello che ha fatto il mio papà”.

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    1. Claudia

      Scusa se ho raccontato una storia che divaga un po’, ma volevo ricordare un eroe (di cui non scrivo il nome senza autorizzazione della famiglia ) che mi ricorda in qualche modo il “Ginaccio”.

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  2. Laurie

    Grazie per aver raccontato un’altra parte di un umo che conoscevo “solo” come Giusto tra le Nazioni, oltre che grande campione, ovviamente! Chissà se lo santificheranno davvero…
    Mi permetto di restare sul discorso di Claudia perché credo che queste persone vadano ricordate, anche come esempio che sprona a fare il bene: ci dicono “tu puoi – e quindi devi! – fare qualcosa!”. Chissà quanti atri misconosciuti, che forse non verranno mai ricordati, ci sono. Conosco alcune storie, ignote ai più: di un uomo ebreo che è stato nascosto per mesi dalla moglie e dalla figlia (cristiane) in una stanza nascosta da un armadio (buggerando le SS che andavano a cercarlo!), di un sacerdote che inseriva gli ebrei nel registro dei battezzati e dava loro finti certificati di battesimo e della soffitta di una chiesa della mia città dove per mesi sono state nascoste numerose famiglie ebree. Penso anche a tutti quelli che nelle tragedie dell’umanità si sono dati da fare per cercare di salvare il prossimo. Mesi fa, ho letto un articolo su una coppia tedesca che ha salvato moltissime persone in Cina durante l’occupazione giapponese (mi pare a Nanchino, ma non mi ricordo la città).

    (P.S. il bello dei tuoi articoli è che poi si scatenano anche discussioni interessanti tra i commenti 😉 quindi sempre doppi grazie!)

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  3. Pingback: La storia di Gino Bartali tra fede, sport e politica

  4. Anonimo

    Secondo mio padre, suo grande estimatore, se qualche ciclista bestemmiava durante una gara, Ginettaccio lo picchiava sulla testa con la po la della bicicletta!
    Annalisa.

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