Il santuario di San Besso svetta a 2019 metri d’altitudine all’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso, incorniciato dai monti della Val Soana che lo circondano tutt’intorno. Imponente, lo protegge un gigantesco monolite alto circa 60 metri e largo 40: stando alla leggenda, fu proprio ai piedi di quel monte in mezzo ai monti che san Besso perse la vita, martirizzato in odium fidei.
La tradizione ci spiega che san Besso fu uno dei soldati della Legione Tebea, un’unità dell’esercito romano che, sul finire del III secolo, era di stanza nelle vallate alpine. Con ogni probabilità, la Legione Tebea non è mai esistita (o quantomeno, non nei termini descritti dalla leggenda); e tuttavia, la tradizione ce la presenta come una legione composta in gran parte da soldati cristiani, in incognito. Il loro capitano Massimo sarebbe salito alla gloria degli altari guadagnandosi l’appellativo di “santo”.
Essere un soldato romano di fede cristiana (ancorché in incognito) non era esattamente la cosa più facile del mondo, sul finire del III secolo. Ad esempio, nell’anno 286, i militi della Legione Tebea ricevettero l’ordine di dare il via a una persecuzione anticristiana ai danni degli abitanti delle vallate alpine.
Per ovvie ragioni, i soldati rifiutarono di uccidere i loro correligionari: molti di loro preferirono abbandonare le file dell’esercito. Per ragioni altrettanto ovvie, la storia finì male: colpevoli di diserzione (e, a questo punto, legittimamente sospettati di essere cristiani in pectore), i soldati della Legione Tebea furono perseguiti, tallonati e riconsegnati alla giustizia (se non direttamente uccisi sul posto, vittime di una folla inferocita).
Quantomeno, ebbero la consolazione di diventare santi: e santi amatissimi nelle vallate alpine, perdipiù!
San Besso, per esempio, dopo la diserzione visse per qualche tempo facendo il pecoraio; fu ucciso da un gruppo di pastori pagani che l’avevano riconosciuto come cristiano e che pensarono bene di legarlo come un salame e poi buttarlo giù da quella roccia di 60 metri. Sotto alla quale – non a caso – ancor oggi sorge il santuario dedicato al santo martire.
La chiesa che oggi è possibile ammirare risale al 1669; in realtà, una qualche cappellina dedicata al santo doveva certamente esistere da tempo, perché fonti storiche risalenti alla prima metà del Seicento ci testimoniano già la tradizione di compiere pellegrinaggi verso il luogo del martirio nel giorno in cui la Chiesa faceva memoria di san Besso. E cioè, il 10 agosto.
Il fatto di dover condividere il giorno di festa con san Lorenzo non scalfì neanche di striscio la popolarità di san Besso, che è amatissimo ancor oggi in quelle vallate alpine. Nel 1913, il culto tributato al santo era così rumoroso da aver fatto parlare di sé anche sull’alto lato delle Alpi, suscitando la curiosità professionale del sociologo francese Robert Hertz. Ebreo osservante (e dunque nelle condizioni di poter guardare con un certo distacco alle devozioni dei Cattolici), Hertz fu così affascinato da questo fenomeno di costume da volersi unire alle folle di pellegrini che ogni estate si inerpicavano sui monti, in direzione del santuario. Dando alle stampe nel 1913 il suo Saint Besse: Étude d’un culte alpestre, apparso tra le pagine della Revue de l’Histoire des Religions, Hertz ci consegnò insomma un resoconto di prima mano di quanto avveniva all’epoca in quella sperduta vallata alpina: una cosa (ahimè) non poi così per i sociologi e i folkloristi che lavoravano in quegli anni (e che tanti danni hanno fatto, a causa della loro disinvolta approssimazione).
Quello di Hertz, al contrario, è una testimonianza vibrante di vita vissuta, che immediatamente entra nel vivo descrivendo la lunga camminata in salita affrontata, nel pieno della calura estiva, da centinaia di persone che si inerpicavano sulle rocce e lo facevano nei loro abiti di festa (!), rivestiti dei costumi tradizionali dei reciproci paesi. Arrivavano da ogni zona della valle (e alcuni, da molto più lontano) e non lo facevano mai a mani vuote: ognuno portava con sé un omaggio da donare al santo. C’era chi si trascinava dietro una pecora, una gallina; c’è chi donava al martire veli da Messa, piccoli gioielli o persino abiti da sposa ormai già utilizzati. Alla fine della giornata, dopo la Messa di ordinanza, i beni che san Besso aveva ricevuto in dono venivano messi all’asta, per destinare il ricavato ai bisogni della chiesa: ed ecco che la memoria liturgica del santo si trasformava in una festa di paese ad alta quota, durante la quale si poteva bere, mangiare, fare un po’ di shopping, godere del panorama (e magari anche fare incontri interessanti, per i ragazzotti).
Ma i giovanotti che si inerpicavano fino al santuario di San Besso non erano spinti solamente dalla devozione (o dalla voglia, non meno importante, di godersi quel delizioso dì di festa). La visita a quel santuario alpino dava loro una speranza non da poco: quella cioè di poter sfuggire alla naja.
Mostrando un’indulgenza quantomeno appropriata per quello che – dopo tutto – era un santo disertore, Besso s’era infatti guadagnato la fama di aver miracolosamente risparmiato il servizio militare a tutti quei giovanotti che glielo avevano chiesto con vera devozione. Per buon conto, guardava con simpatia anche a quei ragazzi che, non osando sottrarsi al dovere patrio, si trovavano a vestire i panni di soldato: per citare le parole di Robert Hertz, “nessun uomo in procinto di partire per la guerra, o semplicemente per la caserma, avrebbe perso l’occasione di unirsi alla festa e di approfittarne per portarsi a casa una pietra di san Besso, che da quel momento in poi avrebbe indossato costantemente”. A mo’ di portafortuna, va da sé (o di scapolare, o di medaglietta miracolosa, come preferite): si riteneva che le pietre di san Besso, quasi fossero intrise della miracolosità del santo, potessero far scendere su tutti i devoti una speciale protezione celeste, tenendo lontani da loro tutti i colpi di fucile. A detta di quanto era stato riferito a Robert Hertz, tutti i giovanotti di Cogne che erano stati chiamati al fronte durante la guerra libica del 1911-1912 si erano procurati uno di questi sassi: e infatti, tutti loro erano tornati sani e salvi, senza nemmeno l’ombra di un graffio.
Ma che cos’era, concretamente, questa pietra di san Besso?
Era nulla più che un frammento di quel monolite che sovrasta il santuario.
Hertz testimonia la consuetudine dei valligiani di sfregarsi la schiena contro il macigno nella speranza di curare il male alle ossa, o di poggiare il ventre sulla roccia chiedendo la grazia di una gravidanza. Nell’Ottocento, quando il monolite era ancora sormontato da una croce in ferro, gli ardimentosi si arrampicavano fin sul cucuzzolo della roccia per grattar via un po’ della ruggine che s’era accumulata sulla scultura sacra. Si mormorava che, al momento del bisogno, quella polverina potesse essere mescolata ai farmaci da somministrare a un ammalato: grazie all’intercessione di san Besso, l’infermo si sarebbe ripreso senza dubbio.
Ma entro il 1913, anno in cui Hertz dava alla stampa la sua testimonianza, la croce in ferro era stata abbattuta da un temporale e sostituita con una nuova, che però non arrugginiva. Alla brava gente in cerca di souvenir sacri, non restava che ripiegare sulla roccia stessa, del resto già nota per le sue proprietà guaritrici: e infatti i fedeli, armati di coltellino, staccavano piccoli frammenti da quell’enorme monolite, conservandoli poi come cosa cara e sacra.
In tempi normali, il semplice fatto di averne in casa un pezzo avrebbe dovuto essere più che sufficiente per garantire protezione celeste e buona sorte. In tempi di crisi, quando il gioco si faceva duro, le pietre di san Besso sapevano premiare i loro proprietari: se immerso nel bicchiere d’acqua destinato a un malato grave, il frammento lo avrebbe aiutato a riprendersi; se indossato da un ragazzo destinato al fronte, lo avrebbe protetto dai proiettili nemici; se portato su di sé durante la visita di leva, avrebbe miracolosamente spinto il medico a dichiarare inabili anche i più valenti marcantonio.
O almeno: la gente ci credeva molto, nell’anno 1913. Sarebbe interessante sapere che accadde di questa convinzione popolare negli anni immediatamente successivi, con lo scoppio della Grande Guerra.
A oggi, non sono nemmeno certa che sia legale staccare pezzi di roccia da un monolite all’interno di un parco nazionale. Ma consoliamoci: procurarsi una di queste pietre miracolose era cosa ardua anche in passato; innanzi tutto, il frammento di roccia non poteva essere ceduto, cioè bisognava prendersi la briga di andare fin lassù a procurarselo personalmente. Inoltre, la pietra sembrava acquisire proprietà miracolose solo se veniva staccata dalla roccia nel giorno della festa di san Besso: per citare le parole di Hertz, “è il 10 agosto che i debiti contratti col santo vengono saldati; è il 10 agosto che si va sui monti per procurarsi una nuova riserva di grazia per l’anno entrante”.
E c’è da far notare che inerpicarsi fin lassù non è cosa da poco. I ragazzi di Cogne che, grazie alle pietre di san Besso, s’erano salvati la vita durante la guerra in Libia, avevano camminato per circa nove ore su una mulattiera impervia a 2900 metri di altitudine, prima di raggiungere il santuario in tempo per la Messa. I più fortunati erano gli abitanti di Campiglia, il comune più vicino al luogo di culto: e in ogni caso, il pellegrinaggio non era una passeggiata di piacere neanche per loro, costringendoli a 700 metri di ripida salita (che alcuni, addirittura, facevano a piedi nudi, per penitenza e nella speranza di ottenere dal santo una grazia supplementare!). Con rispetto ammirato, Hertz commentava: “i pellegrini che si mettono in marcia per la festa, sfidando la fatica e il tempo avverso, davvero portano in dono al santo una preziosa offerta per il solo fatto d’essere lì: è l’offerta del loro tempo e della loro sofferenza fisica”.
Gli appassionati d’escursionismo direbbero forse che una passeggiata in montagna non è poi questa gran tragedia, il che è indubbiamente vero; ma va pure sottolineato che non necessariamente i pellegrini di inizio Novecento avevano l’hobby dell’alpinismo per diletto.
Gli appassionati d’escursionismo, in compenso, potrebbero forse essere interessati a visitare personalmente il santuario. Il grande pellegrinaggio del 10 agosto si tiene ancora, e parte da Campiglia (ma non mancano nemmeno gli ardimentosi che arrivano da Cogne, dopo un’escursione di due giorni!); il santuario, invece, è accessibile dodici mesi all’anno, con quell’opportuno rispetto che da sempre i valligiani sanno di dover rendere alla montagna (e amano ricordare ai turisti di città). A questa pagina, per chi volesse, alcune indicazioni per farsi una prima idea del percorso.
Gesù detto il KRST
Le puttanate cristiane di pura INVENZIONE, hanno sfoltito i neuroni a molti creduli paduli😓😓😓
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Lucia Graziano
Beh, “invenzione”. In questo caso, per quanto non ci siano testimonianze storiche sulla cosa, davvero vien da pensare che quel monolite potesse essere già stato oggetto, in epoca pre-cristiana, di una qualche forma di culto legato alla fertilità e alla salute. Non sarebbe la prima volta che rocce erranti, o comunque di forma strana (e questa rientrava certamente nella categoria) attiravano attorno a sé forme di culto di vario tipo.
Più che una invenzione verrebbe da pensare a una cristianizzazione di culti pre-esistenti 😉 (anche se è solo una supposizione di buon senso, in realtà non esistono evidente per poterlo dire con certezza)
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Ago86
Sulla legione Tebea è interessante quanto esposto nell’opera “L’era dei martiri” di Giuseppe Ricciotti, per via della comparazione delle fonti che opera:
Per domare l’insurrezione Massimiano aveva raccolto le sue truppe non dalle legioni che stavano a guardia dei confini germanici (e che non dovevano essere indebolite a causa della continua minaccia dei Barbari), ma le aveva prese specialmente dalle zone a nord del Po e attorno alle Alpi, dove potevano stanziare reparti distaccati da formazioni maggiori.
Con questa occasione è ricollegato il martirio della legione Tebea dalla relativa Passione che fu scritta nel secolo VII, probabilmente da un monaco del posto (Saint-Maurice). Secondo questo documento Massimiano, prima della campagna contro i Bagaudi, radunò a Octodurum (oggi Martigny, nel Vallese della Svizzera) sia altre truppe, sia una legione Tebea fatta venire dall’Oriente e allora accantonata ad Agaunum (oggi Saint-Maurice, egualmente nel Vallese) e quindi comandò a tutti i soldati di partecipare a sacrifizi pagani richiedendo loro anche il giuramento di combattere contro i Bagaudi e contro i cristiani; sennonché la legione Tebea era tutta di cristiani, i quali perciò rifiutarono di obbedire; sottoposti alla decimazione militare, furono infine tutti trucidati ad Agaunum.
Più antica è la relazione di Eucherio di Lione (prima metà del secolo V), il quale fece ricerche speciali e pare anche che visitasse la chiesa eretta, già nel secolo IV, sulla tomba dei martiri. Secondo questa relazione il martirio avviene sotto la persecuzione di Diocleziano, senza che ne sia precisato il tempo; ne è vittima ad Agaunum l’intera legione Tebea, tutta cristiana, i cui ufficiali più alti sono Maurizio (che ha il grado di primicerius), Esuperio (campiductor) e Candido (senator militum); naturalmente i legionari si rifiutano di partecipare alla persecuzione generale contro i cristiani, e perciò sono sottoposti due volte alla decimazione; persistendo poi nel loro rifiuto sono tutti trucidati.
Le due relazioni mostrano incongruenze fra di loro, e anche ripugnanze con fatti storici bene accertati. Sotto l’aspetto cronologico è più autorevole la posteriore Passione che mette il martirio sotto Massimiano in occasione della campagna dei Bagaudi, e non sotto Diocleziano, che a quei tempi era in buone relazioni con i cristiani e che permise la persecuzione generale solo più tardi. Massimiano infatti poteva benissimo agire contro i soldati cristiani in forza, non di qualche editto anticristiano, ma della generica disciplina militare: trattandosi di combattere contro i Bagaudi, egli poté sospettare nei suoi soldati qualche simpatia per i ribelli e quindi esigere da loro la partecipazione al sacrifizio pagano e al giuramento, come si era praticato altre volte in occasioni analoghe. Se questo è il nucleo storico dei fatti, si comprende facilmente come la tradizione orale, da cui attinge Eucherio, conglobasse i provvedimenti di Massimiano con la successiva celebre persecuzione di Diocleziano, confondendo date e amplificando come al solito gli avvenimenti.
È certo, infatti, che non fu trucidata un’intera legione: tutt’al più fu martirizzato un esiguo numero di cristiani appartenenti a quella legione. E in realtà la tradizione orale, che durante un secolo e mezzo trasmette le notizie fino ad Eucherio, non è riecheggiata da altri scrittori gallo-romani del secolo VI, come Avito di Vienna, Gregorio di Tours e Venanzio Fortunato; i quali conoscono benissimo la venerazione tributata ai martiri sul luogo del loro martirio, ma non parlano mai di Tebei e per il resto si esprimono in maniera storicamente vaga, mostrando di essere informati assai scarsamente. In conclusione, siamo davanti ad un episodio che ha indubbiamente un fondo storico, ma che nella sua trasmissione ha subìto sia spostamenti cronologici, sia le amplificazioni quantitative abituali nelle leggende popolari.
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Lucia Graziano
Grazie mille! Davvero un intervento utilissimo e eloquente! 😀
Ci sarebbe anche da aggiungere che, storicamente, i primi autori che hanno parlato di questi presunti martiri della legione tebea l’hanno fatto facendo i nomi di un numero molto ristretto di soldati martirizzati. Vale a dire: se leggi i primi autori cristiani (che pure credevano al martirio dei soldati della Legione), si ha l’impressione che a essere stato ucciso in odium fidei sia stato un numero molto ristretto di individui.
E’ stato solo col passar dei secoli che il numero di martiri s’è moltiplicato, nel senso che se adesso fai il censimento di tutti i santi “della legione tebea” venerati in giro per l’arco alpino, veramente ne trovi a decine o forse centinaia, un numero degno di una legione per davvero. Ma ecco: nella stragrande maggioranza dei casi, si è trattato di aggiunte posteriori. Ti trovavi di fronte a un personaggio di cui non si sapeva niente e che veniva venerato come santo nella zona: nove volte su dieci, gli attribuivi una appartenenza alla “mitica” legione tebea e te la cavavi così 😉
Di che anno è il libro che citavi, per curiosità? Molto equilibrato e filologicamente corretto, sul tema.
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Ago86
E’ del 1953. Lo trovi agevolmente on-line in versione .pdf, o se preferisci posso inviartelo via mail.
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