Nel dicembre 1753, nella città ucraina di Szczurowczyky (no, non è un errore di battitura) un bambino va a posare un attrezzo di lavoro nel porcile dietro casa sua. Non appena il bimbo apre la porta dello stalletto, uno spettacolo spaventoso si para ai suoi occhi: sdraiato per terra, circondato dai maiali, v’è il cadavere di un neonatino.
Comprensibilmente terrorizzato, il bambino corre ad avvisare il padre, che subito accorre e ha modo di appurare che il neonato è decisamente morto (e anzi: i maiali hanno anche avuto modo di infierire sul suo cadavere). Ovviamente, il ritrovamento viene segnalato alle autorità cittadine, le quali fanno prontamente partire le indagini – le indagini più veloci della Storia, si direbbe. Basta qualche domanda ai paesani per rendersi conto che la cittadinanza ha un’idea ben precisa di chi possa essere il colpevole: tutti puntano il dito su una certa Iewka Stanorycha, una straniera, che era arrivata a Szczurowczyky alcune settimane prima – e in stato di palese gravidanza. Una gravidanza che però Iewka si ostinava a negare ogni volta che qualcuno ne faceva menzione: era da qualche settimana che ‘sta storia andava avanti, con l’importante novità che, da un paio di giorni, Iewka era visibilmente “dimagrita” tutto d’un colpo.
Rintracciata nella locanda in cui dimorava e immediatamente trattenuta in arresto, Iewka fu portata al cospetto dei giudici dopo oltre un mese di prigionia, il 9 febbraio.
Agli inquirenti, la donna raccontò di essere nativa del villaggio di Poldisci e di essere andata in sposa, otto anni prima, a un certo Tymko Tyzniurczuk; l’uomo le aveva dato due figli, che però erano morti in giovane età a causa delle normali malattie dell’infanzia. Il resto della confessione è assai confusionario a voler usare un garbato eufemismo: Iewka dichiarò di essere stata abbandonata dal marito dopo sei anni di matrimonio, e di aver quindi cercato un po’ di calore umano tra le braccia di un certo Lesko. Da quando Lesko aveva intrapreso la relazione con lei – spiegò Iewka – più volte aveva cercato di convincere la donna a lasciare il marito per iniziare assieme una nuova vita, ma lei si era sempre rifiutata dichiarando di voler restare fedele a marito. La palese incongruenza destò non poche perplessità, che spinsero i giudici a indagare meglio sulle tempistiche: Iewka rispose che il marito l’aveva abbandonata, immotivatamente, due anni prima, quando l’aveva trovata a letto con Lesko e aveva scoperto che la relazione tra i due andava avanti da parecchio tempo. Ma fino a quel momento Iewka era sempre stata fedele al marito: infatti, non aveva mai preso in considerazione l’idea di lasciarlo!
Diciamo che Iewka comincia a configurarsi come una donna dalla mente non esattamente sopraffina. Ma almeno fu in grado di fornire agli inquirenti un punto fermo da cui partire: effettivamente era lei la madre del neonato morto, e Lesko era il padre del bambino. Dichiarò di aver scoperto di essere incinta piuttosto tardi nella gravidanza e di aver trovato vergognosa la sua situazione, perché in paese tutti sapevano che non era più sposata.
Per nascondere il suo peccato, aveva deciso di lasciare il suo villaggio e di soggiornare per qualche tempo proprio lì, a Szczurowczyky, dove aveva vissuto per circa tre settimane prima d’essere colta dalle doglie del parto. Per mettere al mondo in segreto il suo bambino, Iewka aveva deciso di nascondersi in un porcile che in quel momento le aveva dato l’aria di essere abbandonato: aveva partorito, ma il bambino era nato morto, sicché la donna l’aveva lasciato nel porcile e se n’era tornata in locanda a elaborare il lutto. Un paio di giorni dopo, nel villaggio s’era sparsa la voce di un neonato trovato morto proprio in quel porcile; a quel punto, Iewka aveva fatto la cosa giusta ammettendo la maternità del bimbo, e accettando così il processo.
Chiaramente, anche questa ricostruzione dei fatti, a base di un figlio non voluto che guardacaso nasce provvidenzialmente morto, parve sospetta per non dire altro.
Sei giorni più tardi, dopo aver riflettuto sulla sua posizione e dopo essersi forse consigliata con qualcuno di esperto, Iewka chiese di poter correggere la sua deposizione aggiungendo alcuni dettagli che, nella sua testolina, avrebbero evidentemente dovuto migliorare la situazione.
In primo luogo, ci tenne a precisare di non aver abbandonato il cadaverino sul pavimento del porcile: aveva scavato a mani nude una piccola fossa e aveva provveduto a dare degna sepoltura a suo figlio. Non aveva idea che i maiali, grufolando, sarebbero riusciti a disseppellire il corpicino facendone scempio: una precisazione che, con ogni evidenza, serviva a mitigare quello che gli inquirenti dovevano aver considerato un gesto di crudeltà inaudita, al limite del vilipendio di cadavere.
Ma, soprattutto, nel ritrattare la sua confessione, Iewka introdusse un nuovo personaggio in questa storia: Orzyska Lieczmanicha. Che, per l’appunto, è la strega della situazione.
Adottando una tecnica di difesa quantomai curiosa, Iewka dichiarò di aver sì partorito un figlio nato morto, ma dopo aver attivamente agito al fine di procurarsi un aborto. Ecco perché aveva abbandonato il cadavere nel porcile senza nemmeno cercar soccorsi: lei era assolutamente certa che non ci fosse più niente da fare per salvare quel bambino!
Non la definirei esattamente la strategia migliore della Storia, ma con ogni evidenza la nostra amica non brillava per intelligenza; e così, sollevata al pensiero di essersi brillantemente scagionata dall’accusa di vilipendio di cadavere, Iewka andò avanti a raccontare con animo sereno tutti i dettagli del suo aborto clandestino.
Naturalmente, lei era una donna per bene, che s’era procurata un aborto quasi per caso: l’idea malsana le era stata suggerita da Orzyska, una sconosciuta che aveva fortuitamente incontrato poco dopo il suo arrivo a Szczurowczyky. Sentendo un disperato bisogno di sfogarsi con qualcuno, Iewka aveva scelto di farlo con Orzyska, che non aveva mai visto prima in vita sua ma che le aveva ispirato fiducia fin dal primo sguardo. Guarda un po’ i casi della vita, saltò fuori che Orzyska era una mammana; infatti propose a Iewka di risolvere i suoi problemi con una soluzione che lei non aveva mai preso in considerazione: abortire!
Forse un po’ scioccamente, Iewka aveva accettato, sicché Orzyska aveva usato la magia per preparare con lei una pozione espressamente creata a tal scopo. La donna aveva tentennato un po’, ma poi si era risoluta a bere quell’intruglio: tre giorni più tardi, era stata presa dalle doglie partorendo il bambino, per l’appunto nato morto.
Chiaramente, i giudici non erano completamente scemi e non credettero affatto a quella bizzarra ricostruzione dei fatti che vedeva Iewka andare a confidare il suo più intimo segreto a una perfetta sconosciuta che guarda caso era una mammama. Era chiaro a tutti che, se Orzyska aveva procurato un aborto, era perché Iewka glielo aveva chiesto: in ogni caso, era appena saltato fuori il nome di una mammana clandestina, che oltretutto era stata dipinta con toni da mezza strega, dunque le autorità andarono a cercare Orzyska e la interrogarono due giorni più tardi.
La donna ammise candidamente di aver dato a Iewka (su sua richiesta) una pozione per abortire, e in effetti ammise anche di aver creato quell’intruglio ricorrendo alla magia. Spiegò agli inquirenti che il principio attivo della pozione era un’erba chiamata pilip ziele (essendo ‘ziele’, nell’Ucraino dell’epoca, un termine polisemantico che significava al tempo stesso pozione magica, erba o veleno). Questo preziosissimo ritrovato di natura aveva una molteplicità di usi: sicuramente poteva essere utilizzato per procurare un aborto, ma funzionava molto bene anche per far tornare a casa i mariti che avevano abbandonato le mogli. Tutto ciò che occorreva fare era mettere l’erba in un pentolino sul fuoco e declamare “cuoci, cuoci e vieni ad aiutarmi!”; immediatamente, una vocina avrebbe risposto dall’interno della casseruola dicendo “dimmi cosa vuoi”. Non restava a quel punto che esprimere i propri desiderata concludendo col comando “fallo per me”, e l’erba magica si sarebbe trasformata per incanto in un filtro capace di condurre a quell’esatto risultato.
A quel punto, Orzyska era una strega rea confessa. Sicché, gli inquirenti provvidero a torturarla per estorcerle maggiori informazioni: sotto i ferri dell’aguzzino, la donna dichiarò di non essere l’unica strega attiva nella zona; ve n’erano altre quattro: due residenti in quel villaggio e due che abitavano nel paese confinante. Spalleggiandosi l’un l’altra, le donne avevano creato una specie di società a delinquere attraverso la quale rubavano il latte alle mucche e procuravano grandinate. Di tanto in tanto, andavano anche ai sabba, librandosi in cielo su rami di betulla; Orzyszka però non le seguiva, traumatizzata da un brutto incidente di volo che le era occorso al secondo tentativo, quando s’era sbilanciata dal suo rametto magico ed era precipitata a terra da altezze considerevoli, spaccandosi il naso e facendosi parecchio male alla schiena. Da quel momento in poi, la nostra strega imbranata aveva deciso di rinunciare ai sabba, limitandosi a frequentare le quattro colleghe che vivevano nei paraggi: una tecnica di difesa curiosa, ma tutto sommato efficace, per attenuare le sue colpe sottolineando di essere una megera piuttosto incapace.
Insomma: come finisce questa strana storia?
Per Iewka, con una condanna a morte: la donna fu accusata di essersi procurata un aborto, come del resto lei stessa aveva confessato, con l’ulteriore aggravante d’aver lasciato il cadavere in pasto ai porci senza neppure provvedere a una degna sepoltura. Per la legge dell’epoca, tanto bastava a mandare una donna al patibolo.
Orzyszka, invece, sorprendentemente se la cavò; e lo fece grazie alla “collaborazione” delle altre streghe locali (cioè, delle donne che lei aveva definito tali). Chiamate a deporre davanti agli inquirenti, le signore negarono sdegnate ogni loro coinvolgimento nelle attività magiche descritte da ‘sta pazza, che anzi dichiararono di conoscere a malapena. I giudici organizzarono un confronto diretto tra le accusate e l’accusatrice, durante il quale maturarono l’impressione che Orzyszka fosse una testimone totalmente inaffidabile: probabilmente una mitomane, aveva tirato in mezzo gente che non c’entrava assolutamente niente e che viveva in un mondo tutto suo fatto di erbe parlanti e strane stregonerie.
Le donne che erano state accusate da Orzyszka furono rimesse in libertà con tante scuse. La mammana fu condannata, ma solamente per due capi d’accusa: quello di aver procurato un aborto, e quella di aver depistato le indagini dando falsa testimonianza.
In base all’ordinamento dell’epoca, nessuno dei due reati era tale da meritare la pena di morte. Orzyszka fu condannata a ricevere cinquanta frustate, una volta al mese, per quattro mesi consecutivi. Inoltre, fu avvisata del fatto che se, in futuro, avessero dovuto emergere evidenze a suo carico circa una reale pratica della stregoneria, lei sarebbe stata bruciata sul rogo seduta stante: un avviso che fu ripetuto anche alle donne che Orzyszka aveva accusato come sue complici.
All’atto pratico, le signore non si fecero ripetere due volte la raccomandazione: non risultano altri procedimenti a loro carico negli anni a venire. Tutto è bene quel che finisce bene, come si suol dire.
Il che, sotto certi punti di vista, è anche sorprendente, perché davvero questa storia aveva tutte le carte in regola per finire drammaticamente male. Non solo c’era la deposizione di una strega rea confessa, con accusa di altre quattro donne del paese, ma c’era addirittura una vittima ben identificabile: oggettivamente, un aborto c’era stato per davvero; un cadavere insepolto era stato ritrovato veramente. In periodi diversi, sarebbe bastato molto meno per far scoppiare una caccia alle streghe su larga scala.
Ma siamo pur sempre nel 1753. La cosiddetta età dei lumi era alle porte, e davvero in questo caso sembra di poter dire che i primi barlumi di ragionevolezza stessero cominciando a regolare le modalità con cui gli inquirenti gestivano una accusa per stregoneria. Quelle paurose storie di streghe ad alto tasso di soprannaturalità tendevano a non far più (troppa) presa sui giudici, i quali erano ormai intellettuali settecenteschi che si muovevano in un mondo razionale in cui tutto ciò che non era scientificamente indagabile tendeva a esser guardato con sospetto.
Fu un cambiamento lento e graduale, che non ebbe luogo in maniera uniforme: se, nell’Ucraina del 1753, la mammana Orzyszka fu assolta da ogni accusa, nella Germania del 1745 la povera Catharina Schimdt (di cui mesi fa raccontavo la triste storia) fu condannata a morte per il semplice fatto di essersi guadagnata molte antipatie nel suo villaggio. Ma, a conti fatti, si trattava di casi ormai rari ed isolati: l’epoca della caccia alle streghe stava per finire, dopo tutto.
E un’altra epoca che si avvia lentamente a chiusura (…almeno nella forma in cui l’abbiamo conosciuta fino ad oggi!) è quella in cui Babacio e io ci siamo messe a vagare attraverso i secoli e l’Europa, a caccia di streghe di cui raccontare la Storia.
È stata una caccia fruttuosa. Fin troppo! Le streghe hanno cominciato a braccarci spasmodicamente, desiderose di guadagnarsi un po’ di popolarità (ché quelle son tutte donne vanesie, avevano ragione gli inquisitori!); e non parliamo poi degli sguardi silenziosi e dolenti che di tanto in tanto ci lanciavano i maghi, rammaricandosi con composta malinconia di come nessuno pensi più a loro.
Quella varia umanità di praticanti di magia ci faceva troppa pena, non ci sentivamo di deluderli. E allora, Babacio e io ci siamo messe a lavorare in modo tale da farne arrivare qualcuno nelle vostre case: lei con le sue mani d’oro, io con la mia penna spuntata. Ed è così che, per quanto mi riguarda direttamente, è nato lui:
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Quanto a Orzyszka: la sua storia (inclusa nel libro, e con un commento ben più vasto) è citata anche in Ukrainian Witchcraft Trials, un saggio di Kateryna Dysa (Central European University Press, 2020)
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