Vogue l’ha definito “il vestito del 2022”, evidentemente scegliendo (anche) questa strada per esprimere il suo sostegno alla causa ucraina. Ma la rivista patinata non stava neanche esagerando: ché davvero la vyshyvanka, in questi ultimi mesi, è andata incontro a un’improvvisa ondata di popolarità che ha indotto starlet, politici e persino regine a sfoggiarla in segno di solidarietà.

Anche Babacio ha scelto di confezionarne una con cui vestire la bambola Orzyszka, creata su ispirazione della storia vera di una “strega” vissuta a Kiev alla metà del Settecento. E allora sarà forse il caso di scrivere alcune parole sulla storia di questa vyshyvanka: cos’è questo vestito, cos’ha di così speciale e perché ricopre un ruolo così importante nella cultura e nell’identità nazionale ucraina?
Un po’ riduttivamente, si può dire innanzi tutto che la vyshyvanka è il costume tradizionale ucraino (ma abiti molto simili si trovano anche in Bielorussia e nelle zone confinanti della Russia). Con piccole varianti locali, il concetto alla base è sempre quello: una blusa (o una tunica) di colore bianco, eventualmente stretta in vita da una cinta, che è decorata sul collo, sui polsini e sulle spalle mediante ricami geometrici dai colori accesi. Abbiamo evidenze storiche di come questi abiti fossero già diffusi in quelle zone entro la fine del XVII secolo (ma probabilmente anche prima); in forme più o meno elaborate, a seconda delle possibilità economiche (e della pazienza!) di ogni famiglia, le vyshyvanka facevano parte del guardaroba di qualsiasi cittadino ucraino.
A differenza di quanto accadde a molti altri vestiti tradizionali, sostanzialmente caduti nel dimenticatoio con la modernizzazione del dopoguerra, la vyshyvanka non fu mai abbandonata del tutto; anzi, a partire dagli anni ’50 del Novecento godette di un boom di rinnovata popolarità. E lo fece grazie a un (insospettabile!) testimonial d’eccezione: Nikita Chruščëv era un grande fan delle vyshyvanka, che amava indossare nelle occasioni pubbliche e con cui aveva addirittura deciso di farsi immortalare in fotografie ufficiali. Certo, la sua era una scelta simbolica e controcorrente (nessun impiegato statale si sarebbe sognato di presentarsi sul posto di lavoro indossando vestiti così estrosi); ma tanto bastò per far sì che la vyshyvanka restasse negli occhi e nel cuore di molti cittadini sovietici.
In maniera piuttosto prevedibile, gli Ucraini cominciarono a considerarla un simbolo di identità nazionale negli anni immediatamente successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica; a partire dal 2007, la nazione istituì un Vyshyvanka Day dedicato alla promozione internazionale dell’abito, che ancor oggi si celebra ogni anno nel terzo giovedì di maggio. Ma furono soprattutto le manifestazioni filoeuropee di Euromadian, nell’autunno 2013, a rendere davvero popolare la vyshyvanka, in Ucraina e all’estero: negli anni immediatamente successivi, l’abito tradizionale delle donne di Kiev cominciò a sfilare sulle passerelle e a fare bella mostra di sé sulle riviste di moda. A coordinare questo rebranding fu la stilista ucraina Vita Kin, che cercò di modernizzare la vyshyvanka adattandola al gusto estetico di un pubblico tradizionale: l’abito tradizionale ucraino si trasformò in una specie di kaftano colorato impreziosito da vistosi ricami geometrici; un design che ben si sposava con quel gusto per la moda etnica e bohémien che stava esplodendo proprio in quegli anni.
Tutto è bene quel che finisce bene?
Beh, non proprio. Clare Hunter, storica della moda e autore del saggio I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago fa notare che l’improvvisa modernizzazione della vyshyvanka, del resto inevitabile per chi ambisce a farne un trend internazionale, ha finito con l’eliminare, o comunque ridimensionare drasticamente, alcune delle caratteristiche che fino a quel momento avevano contraddistinto l’abito. Un po’ come è accaduto al tartan scozzese, che oggigiorno molti di noi scelgono per un mero gusto estetico senza essere consapevoli dei significati che si celano in ognuno dei diversi intrecci di quei fili colorati, anche la vyshyvanka viene oggi indossata come se fosse una semplice blusa ricamata.
In realtà, quei ricami avevano un valore ben preciso, che denotava innanzi tutto una provenienza geografica (a guardare i pattern decorativi, un uomo del passato sarebbe stato facilmente in grado di comprendere la zona di cui era originario il suo interlocutore).
Ma, soprattutto, quei ricami avevano un valore apotropaico e benaugurale. Ognuno dei motivi decorativi aveva uno specifico significato, che oggi piace molto definire “di origini precristiane” ma che, più probabilmente, affondava le sue radici in uno di quei tanti piccoli rituali propiziatori che anche la cultura cristiana ha prodotto a iosa. Genericamente parlando, gli intricati ghirigori ricamati sulla stoffa formavano simbolicamente un labirinto nel quale si riteneva che gli spiriti cattivi sarebbero rimasti intrappolati, senza riuscire ad attaccare il corpo di chi si proteggeva con questo “scudo magico” creato a punto croce. La ripetitività armonica dei motivi geometrici, che tornavano sempre uguali sulla stoffa, serviva inoltre a propiziare simbolicamente quel quieto tran-tran della vita di ogni giorno che pare noioso solo a chi ha avuto la fortuna di non vedersi mai crollare il mondo sotto ai piedi: per tutti gli altri, era confortante il pensiero di poter indossare un abito “magicamente” in grado di donare un’esistenza regolare e senza scossoni.
Significativamente, a essere impreziositi di questi ricami benaugurali erano innanzi tutto i polsini e il colletto, cioè tutti quei punti “di confine” che mettevano in contatto con il mondo esterno il corpo di chi indossava il vestito. Era fortemente simbolico che quei ricami benaugurali se ne stessero “di vedetta” in quei punti critici, a presidiare l’interiorità dell’individuo che se ne fregiava; e non stupisce notare che altri ricami fossero apposti all’altezza del cuore (che, naturalmente, rappresenta l’essenza stessa di una persona) e sulle braccia (a proteggere ogni gesto compiuto, favorendo la riuscita di ogni attività lavorativa).
I ricami, per antica tradizione, dovevano necessariamente essere apposti su una stoffa chiara e luminosa (simbolicamente, i colori scuri parevano presagio di una vita cupa e dunque piena di ostacoli); e la vyshyvanka sarebbe stata tanto più efficace quanto più ardente fosse stato il sentimento di chi si occupava di ricamarla, infondendo il suo amore e la sua benevolenza nei motivi che via via creava su stoffa. In Ucraina, la vyshyvanka era quasi sempre il dono di nozze che la fidanzata faceva al suo sposo, ricamandola con infiniti affetto e dedizione durante i mesi del fidanzamento.
E credo che Clare Hunter abbia le sue ragioni per dispiacersi, osservando come questi significati stiano pian piano scomparendo, mentre la vyshyvanka si avvia verso una produzione massificata che punta più all’estetica che alla simbologia.
Indubbiamente, una scelta inevitabile, ché l’estetica vende bene e la tradizione non altrettanto. Eppure sono proprio queste simbologie antiche a rendere ancor più bello un oggetto: basta imparare a conoscerle, e magari impegnarsi per raccontarle ai propri amici.
Immagine di copertina tratta dall’e-shop di VyshyvankaCarpathian, piccola impresa locale che produce e vende in tutto il mondo l’abbigliamento tradizionale ucraino.
Per approfondire, si potrebbero segnalare testi di vario tipo, tra cui sicuramente I fili della vita di Clare Hunter (Bollati Boringhieri, 2020), ma quello che è probabilmente più interessante, per il taglio sociologico con cui analizza il fenomeno di costume, è Identity and Nation Building in Everyday Post-Socialist Life (Taylor & Francis, 2017)
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