Suvvia, Carlotta: il corsetto è più femminista di quanto pensi!

Nella scena d’apertura de La regina Carlotta, la nuova miniserie storica targata Neflix, assistiamo al rant della nobildonna che, costretta a viaggiare con vestiti scomodi che non la fanno sentire a suo agio, si sfoga con suo fratello spiegando che: “la crinolina dell’abito è fatta interamente di osso di balena”, “sì, una balena è morta per dare le sue ossa affinché io apparissi così. I corsetti più pregiati sono di osso di balena, se solo tu sapessi qualcosa. E se fossi informato sapresti anche che il problema dell’osso di balena è che fragile come il cristallo nonché tagliente come una lama, e io rispetto i dettami della moda, quindi il mio corsetto è molto attillato”, “e dovendo apparire in pubblico mi trovo ingabbiata in questo grottesco abito, così sofisticato che se provo a muovermi corro il rischio di morire trafitta dalle mie stesse sottane”.

Ellamiseria.

A voler usare un eufemismo, queste esternazioni hanno suscitato una certa perplessità globale: e non solamente nel fratello di Carlotta, che rimane comprensibilmente attonito di fronte a cotanto sfogo. A dirla tutta, a inarcare le sopracciglia sono stati anche e soprattutto gli storici, che hanno dovuto riguardare la scena due o tre volte per esser sicuri d’aver capito bene.
Diciamolo con chiarezza una volta per tutte, visto che adesso ci si mette pure Netflix a diffondere ancor più il malinteso: regà, le donne del passato non venivano rinchiuse in una gabbia d’ossa. Nessun corsetto è stato confezionato grazie all’uso di ossa di balena: per quanto fraintendibile, il termine inglese “whalebones” (la cui corretta traduzione italiana sarebbe, peraltro, “stecche di balena”) indica tutt’altro tipo di materiale, tra quello che veniva ricavato dalla carcassa del cetaceo. Per la precisione, indica i fanoni, cioè le lamine che i cetacei utilizzano per filtrare il plancton: bisognerebbe essere dei pazzi allucinati per scambiarli per pezzi d’osso, visto che sono flessibili e di colore scuro. Sono ‘sta roba qua, tanto per rendere l’idea:

Lavorando i fanoni, i fabbricanti di corsetti creavano delle stecche semi-rigide che venivano poi cucite all’interno dell’indumento, per aiutarlo a mantenere la forma desiderata. Non erano dure come ossa, né tantomeno taglienti come lame (!); senza dubbio poteva capitare che dessero un certo senso di costrizione, soprattutto se il corsetto era di bassa qualità oppure (cosa ancor più frequente) di una taglia troppo piccola. Ma, di norma, un buon corsetto fatto su misura non avrebbe dovuto dare particolari problemi alla sua indossatrice, soprattutto se non veniva stretto più del dovuto nel desiderio vanitoso di accentuare il punto vita (ma quella era una scelta individuale, peraltro già all’epoca sconsigliata dai medici. Sol per quello, oggi i medici suggeriscono di moderare l’uso dei tacchi a spillo ma ci sono donne che li indossano otto ore al giorno su base quotidiana. So’ scelte. Estetiche).
Giustamente, Chrisman-Campbell ci suggerisce di immaginare queste benedette stecche di balena come qualcosa di simile ai ferretti che si trovano in molti reggiseni d’oggi: non esattamente gli accessori più comodi da avere addosso per tutto il giorno, soprattutto se la taglia non è perfetta e la giornata è movimentata, ma nemmeno vestiti confezionati con ossa taglienti come una lama che rischiano di trafiggerti ad ogni movimento, per la miseria. Certo, è pur sempre possibile che gli sceneggiatori di Netflix volessero immaginare una regina Carlotta così infiammata dalla causa proto-femminista da voler polemicamente estremizzare i disagi derivanti dall’indossare il corsetto, un po’ come fanno quelle donne del Duemila che definiscono il reggiseno “uno strumento di tortura” e rifiutano di metterlo per partito preso, schifando persino i modelli più comodi. Ce ne sono, ma diciamo che in genere le altre donne le considerano delle strambone eccentriche.

Ma, ammettendo per amor di discussione che la Carlotta immaginata da Netflix fosse donna così attenta alla questione femminile da sentire il bisogno di prendersela con la sua stessa biancheria, c’è un altro piccolo dettaglio a rendere inverosimile (o quantomeno molto immaturo) quel suo sfogo puerile. Ben difficilmente, in quel periodo storico, una femminista ante litteram avrebbe deciso di indirizzare i suoi strali contro i corsetti: e ciò per una semplice ma validissima ragione. Non prendetemi per scema, ma tra Sei- e Settecento i corsetti divennero uno dei più importanti strumenti di emancipazione femminile: non tanto per le donne che li indossavano, quanto più per le donne che (indossandoli a loro volta) li confezionavano.
Non ci credete? Beh, eppure è vero!

***

Tutto iniziò nella florida Parigi, che già all’epoca era la capitale della moda (e soprattutto della moda lussuosa, quella pensata per la nobiltà e i funzionari di corte). Proprio lì, alla metà del XVII secolo, accadde un bel giorno qualcosa di rivoluzionario e impensato: le donne che lavoravano (in nero, e sottopagate) per i grandi sarti parigini iniziarono a riflettere sul fatto che, tutto sommato, il mestiere lo conoscevano benissimo. Quasi quasi, sarebbe stato il caso di organizzarsi fra di loro e di fondare atelier interamente femminili, dove lavorare più liberamente.

Non si trattava solamente del pur sano desiderio di lanciarsi in una start-up di sole donne. I sarti francesi, a quell’epoca, erano riuniti in una corporazione professionale i cui statuti imponevano regole molto rigide circa la possibilità di impiegare dipendenti di sesso femminile: un provvedimento che, in teoria, serviva a mantenere alta la qualità del prodotto. Sostanzialmente, vigeva un divieto assoluto, che consentiva al proprietario dell’atelier di mettere a libro paga solamente le donne facenti parte della sua famiglia.
All’atto pratico, erano molte le case di moda che davano lavoro a esponenti del gentil sesso; e, in particolar modo, era cosa risaputa che la produzione dei corsetti fosse appannaggio quasi esclusivo delle dipendenti donne (se non altro perché confezionare biancheria intima su misura costringe inevitabilmente a un contatto fisico molto intimo; naturalmente, le clienti si sentivano rassicurate nell’apprendere che queste delicate operazioni sarebbero state svolte da signore perbene). Ma, poiché gli statuti della corporazione dei sarti impedivano l’impiego di personale femminile, tutta questa torma di dipendenti donne era giocoforza costretta a lavorare in nero: senza un contratto, e senza alcuna garanzia circa il fatto che il lavoro sarebbe proseguito. Non si trattava solamente del pericolo d’esser buttate in mezzo alla strada nel momento in cui si diventava scomode, magari perché affaticate dalle gravidanze; poiché non era consentito assumere legalmente lavoratrici femmine, ma ovviamente vigeva anche il divieto di impiegare lavoratori in nero, le autorità preposte facevano periodiche retate negli atelier per sincerarsi che tutto si svolgesse come da normativa. Le donne che fossero state scoperte a lavorare in una di quelle sartorie sarebbero state allontanate seduta stante, restando senza impiego e senza alcuna forma di tutela.

Al giorno d’oggi, la soluzione più ovvia ci sembrerebbe, ovviamente, una mobilitazione collettiva per chiedere l’abrogazione della norma che impedisce l’assunzione di dipendenti donne. All’epoca, però, nessuna delle parti in causa pareva particolarmente incline a quest’operazione di buon senso: tutto sommato, nonostante il fastidio occasionale dell’ispezione che ti costringe a rinunciare a qualche brava dipendente, ai grandi atelier faceva comodo impiegare a nero professioniste sottopagate, attingendo a quel vasto sottobosco di lavoratrici che sarebbero state pronte a tutto pur di portare a casa un po’ di soldi. E, a dirla tutta, nemmeno le professioniste sentivano il bisogno di battersi per regolarizzare la propria posizione – obiettivo che pareva loro troppo poco ambizioso. Il loro vero traguardo era un altro, e ben preciso: mettersi in proprio e organizzare una corporazione di sarte interamente al femminile, nella quale le donne si sarebbero potute auto-governare dimostrando di valere (e poter guadagnare) tanto quanto un uomo.

Era il 30 marzo 1675 quando, con lettere patenti, il re di Francia cedette alle richieste delle sue suddite istituendo una corporazione delle cucitrici interamente al femminile, che da quel momento si sarebbe affiancata a quella maschile dei sarti. I due enti avevano pari doveri e diritti impari: alle cucitrici fu data facoltà di produrre abiti femminili d’uso quotidiano nonché indumenti per bambini maschi e femmine, fino agli otto anni di età. I sarti conservarono il diritto di continuare a produrre qualsiasi tipo di capo venisse commissionato loro e mantennero alcune rigide escluse: quella sugli abiti maschili, innanzi tutto, e poi quella sui completi femminili formali (quelli “d’alta moda” o “per donne ricche”, diremmo oggi) che le lettere patenti così definivano: abiti con gonne a strascico, corpetti decorati e decorazioni applicate su stoffa.

Va da sé: le determinate cucitrici parigine ingoiarono il boccone amaro con scarso entusiasmo; e, soprattutto, con la ferma intenzione di ribaltare questa discriminazione ingiusta. Ed economicamente onerosa, oltretutto: va da sé che gli abiti formali erano quelli più remunerativi, che permettevano davvero agli atelier di andare avanti e di farsi un nome tra la gente che contava.
Con una sagacia francamente non comune, le cucitrici decisero di portare dalla loro l’opinione pubblica tramite un’argomentazione che non faceva leva sulla necessità di dare alle donne pari diritti, ma anzi sottolineava l’importanza di tutelare il buon costume e proteggendo quello spontaneo senso di pudore così naturalmente connaturato nel sesso debole. Come era possibile – dissero le cucitrici, con sdegno teatrale – che le donne d’alto rango, che desideravano un abito sontuoso con un bel corpetto lavorato, fossero costrette a farsi letteralmente mettere le mani addosso da sarti di sesso maschile, che s’erano maliziosamente riservati il monopolio di quel capo? Dov’era finito il riguardo per il riserbo di cui le brave donne da sempre s’ammantano? E dove sarebbe andato a finire l’onore di quei mariti le cui mogli sarebbero state costrette a mostrarsi seminude di fronte a torme di uomini con la bava alla bocca, manco fossero spogliarelliste dei quartieri a luci rosse? Passi per le gonne con lo strascico, o per le giacche decorate con pizzi e trini, ma era assolutamente imperativo che la produzione dei corsetti diventasse monopolio esclusivo della corporazione femminile: e questo, non perché le cucitrici parigine avessero ambizioni di carriera (giammai!), ma perché sarebbe stato ingiusto, immorale e contronatura mantenere una legge che costringeva le clienti ad atti promiscui e inopportuni, ma divenuti ormai tragicamente inevitabili.

Come chiusa a effetto, le angeliche professioniste aggiunsero anche che molte di loro avevano lavorato per anni come produttrici di corsetti, e ben difficilmente ormai sarebbero state capaci di riciclarsi con pari successo in altri settori della filiera produttiva. Impedir loro di preparare quegli indumenti avrebbe significato costringerle ad abbandonare il comparto della moda; e sappiamo tutti a quale tipo di professione si vedono costrette a volgersi le donne che hanno disperatamente bisogno di danaro, ma non possono ahiloro esercitare un lavoro che pure sarebbero perfettamente in grado di svolgere.

***

Quando parliamo delle donne forti che hanno cambiato la Storia, noi figli del terzo millennio tendiamo istintivamente a pensare alle suffragette, alle prime operaie in fabbrica, alle femministe degli anni ’60. Ma io confesserò di avere una marcata preferenza per le cucitrici parigine di fine Seicento, che praticamente nessuno conosce e che pure meriterebbero (davvero!) un monumento: perché francamente non è così comune assistere a una rivoluzione di costume così garbata e astuta da riuscire a innovare puntando sul conservatorismo. E le sarte di Parigi riuscirono proprio in questa mission impossible, grazie a una retorica così accorta e tagliente da rendere vani tutti i tentativi di protesta della concorrenza. Che, naturalmente, tentò di controbattere, argomentando che sì, ci mancherebbe altro, il pudore femminile era senza dubbio una bella cosa e i sarti l’avrebbero certamente tenuto in conto; e tuttavia, era importante che i corsetti fossero confezionati dai migliori professionisti del settore, giacché non si trattava di un accessorio come un altro. Molti medici prescrivevano l’uso del corsetto per correggere difetti di postura, e molti altri mettevano in guardia dai pericoli di indossarne esemplari malfatti: davvero si voleva affidare a umili cucitrici (e senza alcuna supervisione!) il confezionamento di un capo così importante e delicato, tale da influenzare il benessere fisico dell’intero organismo?

La risposta collettiva fu, globalmente, un netto “sì”, anche perché alla prova dei fatti le cucitrici ebbero gioco facile nel dimostrare la loro innegabile professionalità nel campo (molte di loro preparavano quegli indumenti da una vita!). E così, paradossalmente, furono proprio i corsetti (oggigiorno additati come uno dei grandi simboli di sottomissione femminile) a permettere a queste professioniste di raggiungere l’effettiva parità sul luogo di lavoro: nell’arco di poche decadi, divenne per molte donne abitudine comune il dare la preferenza ad atelier “in rosa” quando si trattava di commissionare indumenti intimi (poi, naturalmente, molte clienti profittavano della visita per dedicarsi allo shopping in senso più ampio). Fu una rivoluzione che partì sulle rive della Senna ma presto si estese a tutta la Francia e, da lì, a buona parte dell’Europa (a inizio Settecento, gli usi francesi dettavano legge in ogni dove, quando si trattava di stile e moda). Insomma: è molto probabile che il corsetto decorato contro cui la regina Carlotta lancia i suoi strali nella serie Netflix fosse stato confezionato per lei dalle abili mani di una sarta esperta, che proprio grazie a quei corsetti era riuscita ad affermarsi come una professionista così stimata da poter essere preferita alla concorrenza maschile degli storici atelier di moda.
E dici poco!

I corsetti femminili, oggi odiatissimi, furono effettivamente il capo d’abbigliamento che per primo permise alla manodopera femminile di introdursi con un ruolo da padrone nelle sfere dell’alta moda: quella che, fino a metà Seicento, era stato appannaggio esclusivo degli uomini. E sarà pur vero che i corsetti non erano esattamente la cosa più comoda da indossare (ma erano pur sempre meno meno scomodi di quanto probabilmente immaginereste, a patto che li si indossasse con ragionevolezza)… ma “strumenti di sottomissione”? Io direi proprio di no, volendo allargare un po’ lo sguardo con cui si osserva la cosa. Anzi: per alcune donne, furono lo strumento attraverso cui ottenere parità di diritti; e questo tendenzialmente non te lo raccontano quando tirano in ballo il povero corsetto: un po’ scomodo senza dubbio, ma senza dubbio anche bistrattato e incompreso.


Per approfondire:

  • Richard Thompson Ford, Dress Code. Come la moda dà forma alla storia (Il Saggiatore, 2023)
  • Jones Jennifer, Sexing La Mode: Gender, Fashion and Commercial Culture in Old Regime France (Berg, 2004)

16 risposte a "Suvvia, Carlotta: il corsetto è più femminista di quanto pensi!"

  1. Avatar di Whitewolf

    Whitewolf

    Tra l’altro una volta lessi che se è vero che la moda prescriveva un corpo a clessidra, di solito il corsetto era stretto relativamente poco quando non semplicemente allacciato stile comparsa.
    Non ho capito però se effettivamente stringeva (e quindi serviva effettivamente a stringere il torso) o se era un po’ come la cintura per noi maschi con pancetta, cioè più uno strumento per tenere su il decoltè e mantenere una postura rigida.
    Mi scuso in anticipo per l’ignoranza

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Sì, diciamo che il gusto estetico dell’epoca apprezzava molto il vitino sottile e che sicuramente c’erano donne che, per accentuare questa caratteristica, si torturavano con corsetti strettissimi per stringere la vita e sollevare il seno. Però non era normale stringere il corsetto “fino a non riuscire più a respirare” (come tante volte si sente dire nei film), e anzi: già allora i medici sconsigliavano quella pratica e la gente assennata la ridicolizzava (un po’ come noi ridicolizziamo le donne che si cambiano i connotati con trucchi eccessivi o con reggiseni imbottiti che aggiungono due o tre taglie, per dire). Diciamo che i film tendono a far passare come una norma quella che invece all’epoca era un’esagerazione.

      Secondo me, il capo d’abbigliamento più adeguato con cui paragonare i corsetti sono le moderne guaine contentive (tipo le Spanx, per capirci) che molte donne (tra cui anche io, alla bisogna) indossano sotto ai vestiti aderenti per scolpire la figura. Probabilmente a te non diranno nulla 😅 ma se cerchi “Spanx” su Internet te ne fai una idea. A seconda dei modelli e dei gradi di compressione, questi body servono a comprimere leggermente quello che c’è da comprimere (quel po’ di pancetta o quei fianchi un po’ grossi) e a sollevare quello che c’è da sollevare (ci sono modelli che hanno l’effetto push-up su seno e natiche).

      Io ho sempre avuto l’abitudine di indossarle sotto certi modelli di vestito (non tutti i giorni ovviamente, ma secondo me sotto certi abiti è il complemento naturale che ti aiuta ad avere lo stesso fitting che vedi addosso alle indossatrici e che ti fa pensare “ma perché a me non sta così?”. Perché non hai l’intimo giusto, nel 99% dei casi). Non sono la cosa più comoda da avere addosso e ovviamente non mi metterei mai una Spanx per andare a fare ginnastica o per un viaggio lungo ore (…a onor del vero, anche le donne dell’epoca avevano abiti da viaggio molto meno strutturati di quelli che han messo addosso alla povera Carlotta della serie tv), però per il resto sono assolutamente confortevoli, compatibilmente col fatto che ovviamente sono fatte per comprimere e modellare e un pigiama di flanella è ovviamente un’altra cosa.

      Ecco: allo stesso modo, non risulta che un corsetto della giusta taglia portasse chissà quale senso di disagio nella normale vita quotidiana di una donna che stava seduta sul sofà a leggere un libro o che andava a spasso con le amiche passeggiando per le vie del centro. Quello è oggettivamente un mito moderno derivante da film tipo “Via col vento” dove vediamo gente che si fa stringere il corsetto più del normale (ma appunto, non era normale). Mi chiedo, in effetti, come dovesse essere ballare due o tre valzer di fila indossando un corsetto strettino (anche perché secondo me le feste da ballo erano quelle occasioni in cui ci tenevi a essere carina e magari te lo stringevi un po’ più del solito), ma suppongo che ognuna si regolasse in base al suo stato di allenamento, per così dire. Il mito delle donne che non riuscivano a fare due passi senza ritrovarsi col fiatone a causa del corsetto è francamente un mito moderno, e fra l’altro ci sono su Youtube molti video di rievocatrici storiche che dimostrano che, con un buon corsetto ben calzato, si riesce a fare sostanzialmente qualunque cosa (ecco, magari non correre la maratona, ma ‘nsomma ci siamo capiti).

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  2. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    Sono nata nel 1955 e a 15 anni ho contratto la TB ossea vertebrale, ossia il m. di Pott.
    Risultato: per sei mesi, busto di gesso, poi per anni, un busto a crociera.
    Era costituito da un’armatura metallica, sostenuta da un corsetto in tela con stecche simili a quelle di balena.
    Indossandolo ho sciato a 3000 metri di quota, praticato trekking e alpinismo, frequentato la scuola, viaggiato…
    Annalisa Neviani.

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Immagino che il tuo fosse solo rigido senza comprimere (i corsetti obiettivamente erano fatti per stringere – auspicabilmente non troppo), però ecco sì, ci siamo capiti 😉 I film la fanno molto più tragica di come fosse in realtà.

      Per curiosità, adesso esistono supporti meno invasivi per chi contrae la stessa malattia, che tu sappia, o si va ancora avanti a busti e corsetti? Sei mesi con un busto di gesso (!!) mi sembrano una discreta tortura davvero, povera! 😮

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      1. Avatar di Sconosciuto

        Anonimo

        Comprimeva a tal punto che ancor oggi ho le coste deformate!
        È stato faticoso, ma ne è valsa la pena.
        Oggi i busti sono realizzati in materiale plastico leggero e possono essere messi e tolti, non come il gesso che restava fisso, provocando seri problemi di igiene personale.
        Annalisa.

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Ah, di sicuro! Ma – per dire – all’epoca lo furono anche i primi monasteri femminili, dove tutto sommato si radunavano donne che, spesso rifiutando di piegarsi a un matrimonio combinato e di interesse e a tutte le brutture e i pericoli di una vita coniugale (marito violento che magari te mena, morte di parto etc etc) ottenevano di poter vivere in una comunità dove le donne che non erano interessate alla vita familiare ottenevano ampie possibilità di realizzazione personale in un contesto protetto e ragionevolmente solido dal punto di vista economico.

      Chiaro che ai nostri occhi la prospettiva di diventare monaca o beghina non sembra esattamente il top del femminismo rivoluzionario 😅 ma a pensarci bene, per quei tempi…

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        1. Avatar di Lucia Graziano

          Lucia Graziano

          Sì, infatti. E comunque, al di là della dimensione religiosa di vocazione e bla bla bla, io penso davvero che entrare in monastero fosse, almeno in una certa misura, la “scelta comoda” per le donne che non avvertivano un particolare desiderio di realizzarsi nella famiglia (con tutti i rischi che la cosa comportava, ripeto. La morte per parto era frequente).

          Tra matrimonio d’interesse con un tizio che non ti convince troppo e vita ritirata in un monastero prospero, con la certezza di aver qualcuno che ti accudisce in vecchiaia e che dopo la morte prega per la tua anima… ma chi te lo fa fare di sposarti?

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          1. Avatar di 𝕬𝖗𝖈𝖆𝖉𝖎𝖔🌀𝕷𝖚𝖒𝖊

            𝕬𝖗𝖈𝖆𝖉𝖎𝖔🌀𝕷𝖚𝖒𝖊

            non è che che chiunque si svegliasse la mattina poteva entrare in convento: era un sistema elitario, con una certa apertura solo alle terziarie. Quindi, se scelta era, era tale come appannaggio(parola non scelta a caso) dell’appartenenza a famiglie facoltose. Le motivazioni ed implicazioni prettamente religiose confermo che erano in molti casi pretestuose e marginali: ho visitato monasteri femminili dove lo percepisci benissimo le ospiti non si facessero mancare niente, in barba a qualsiasi precetto di rigore

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      In effetti mi sono chiesta se quello di Netflix Italia sia stato un errore di traduzione propriamente detto o se sia stato un “seguiamo l’onda, tanto ormai”. Nel senso che tanto la scena era quella, con la protagonista che si abbandonava a un lungo sfogo contro il corsetto che minacciava di trucidarla viva: l’errore era proprio nella versione originale, ed era un errore di concetto. Sì, in Italiano avrebbero potuto doppiarlo correttamente con “stecche di balena” ma comunque ci saremmo in ogni caso trovati di fronte all’improbabile affermazione per cui i fanoni sono rigidi e taglienti. Forse forse a ‘sto punto era meno peggio fare un errore di traduzione per restare fedeli all’errore concettuale del testo originale?

      Non so come me la sarei cavata io al posto loro, onestamente 😅 certo è che il grosso errore l’ha fatto Netflix USA!

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  3. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    In Lunigiana le donne irrigidivano il loro corpetto con fascette di steli di saggina!
    È possibile ammirare gli antichi costumi presso il Museo etnografico e diocesano di La Spezia.
    Annalisa

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Eh… non potevano perché non potevano 😅 Sai quelle leggi corporative, un po’ assurde ai nostri giorni, per cui tutti i professionisti iscritti alla gilda X devono accettare di uniformarsi agli stessi regolamenti per evitare situazioni di imparità e di concorrenza sleale. Una di quelle regole prevedeva appunto il divieto di assumere personale di sesso femminile: non so esattamente come mai fosse stata introdotta, ma immagino che in teoria servisse a mantenere alta la qualità del prodotto (partendo dall’assunto che i maschi erano sicuramente più abili, e magari avevano anche fatto apprendistati specifici in scuole che non ammettevano la frequenza femminile). Siccome all’epoca le donne venivano tendenzialmente pagate meno dei maschi, e spesso chiedevano di poter lavorare da casa per non lasciare soli i figli, probabilmente anche quell’elemento aveva avuto un ruolo nella decisione, per evitare che qualche atelier facesse soldi facili assumendo solo personale malpagato e abbassando ulteriormente i costi permettendo alle sarte di lavorare in case che magari erano pure lerce e piene di malattie (con ovvio detrimento della qualità finale del prodotto).

      Così a naso eh, sto ipotizzando. Però effettivamente parliamo di un’epoca in cui non c’era parità sul posto di lavoro proprio nel senso che uomini e donne lavoravano in contesti diversi e con paghe diverse, e in cui effettivamente uomini e donne non avevano nemmeno le stesse possibilità formative. Non mi stupirebbe scoprire che nella Francia dell’epoca esistevano scuole di alta sartoria per scolari maschi che non avevano il loro corrispettivo femminile. Poi, è chiaro che le donne erano perfettamente in grado di imparare sul campo o di formarsi per vie alternative, ma non mi stupirebbe venire a sapere che magari il problema era anche che mancavano “i titoli di studio”.

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  4. Avatar di Axel

    Axel

    Una curiosità.
    A maggio, ho visitato la mostra organizzata a Palazzo Pitti su Eleonora da Toledo.
    La duchessa è stata presentata come ” fashion icon” , dell’epoca ed ho visto un corsetto di velluto rosso, senza stecche che Eleonora era solita indossare , sotto gli abiti di corte per ripararsi dal freddo e come ausilio per una corretta postura.

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