La depressione generalizzata della prima età moderna e quegli inverni senza fine che, forse forse…

E poi, venne il giorno in cui l’Occidente sprofondò piano piano nella Piccola Era Glaciale.
Il primo a coniare il termine fu, alla metà degli anni ’30, lo scienziato François Matthes, e diciamo pure che non stava esagerando con l’enfasi: nel leggere le testimonianze di quei poveri disgraziati che si trovarono a vivere nell’Europa della prima età moderna, si ha l’impressione che il cambiamento climatico abbia davvero avuto le caratteristiche di una mini-glaciazione nel senso pieno di termine. Ben lo sapevano i contadini di Chamonix, che nel 1601 inviarono al duca di Savoia una disperata richiesta di aiuto facendo presente che, nell’arco di pochi di anni, il ghiacciaio oggi noto come Mer de la Glace aveva già inghiottito due villaggi e sembrava molto prossimo a distruggerne un terzo (risalgono a quell’epoca, e sono sinistramente “vere”, tutte quelle leggende alpine che parlano di città fantasma inghiottite dalle nevi eterne, senza dubbio a causa dei peccati dei residenti). E, giusto per chiarire che quello di Chamonix non era un singolo caso jellato, aggiungerò un paio d’altri esempi eclatanti: nel 1572, il lago di Costanza restò completamente congelato da inizio dicembre a fine marzo; a metà Seicento, Martin Zeiller definì «davvero molto inquietante» l’avanzata inarrestabile del ghiacciaio Grindenwald, che aveva da poco inghiottito un santuario dedicato a santa Petronilla. Fino a pochi anni prima, la chiesa era meta di allegre scampagnate montane per baldi giovani.

Quale fu la causa di questa catastrofe?
Probabilmente una lieve riduzione dell’attività solare, registrata da astronomi orientali della prima età moderna; col senno di poi, gli storici contemporanei puntano anche il dito contro una serie di violente eruzioni vulcaniche che si ripresentarono in rapida successione a partire dagli anni ’80 del Cinquecento e che effettivamente sembrarono determinare annate particolarmente fredde, probabilmente a causa dalle ceneri gettate in stratosfera.
Insomma: i nostri antenati si trovarono costretti a rapportarsi con un cambiamento climatico in piena regola, che ovviamente determinò tutti i disagi del caso. Non si trattò semplicemente di doversi mettere un maglione in più per fronteggiare il brusco calo delle temperature: vi furono anni in cui, a quanto dicono i cronisti, non una singola goccia d’acqua cadde a terra per tutto l’inverno e per tutta la primavera; ve ne furono altri in cui, per contro, a metà maggio sembrava d’essere in pieno novembre, con temperature rigidissime e piogge costanti che annacquavano i campi facendo andare a male i raccolti.

E fu grossomodo in quel periodo storico che la gente cominciò pesantemente a dar di matto.

Gli uomini del Cinquecento se ne accorsero fin da subito, seriamente preoccupati per il marcato aumento di malattie mentali che sembravano misteriosamente affliggere un crescente numero di loro contemporanei. «La gente è complessivamente demoralizzata e porta nel cuore null’altro che paura e afflizione» scriveva, sul finire del secolo, il pastore protestante David Schaller: «le persone somigliano a cadaveri» e «sembra quasi che desiderino esser morti invece che vivi». Un secolo più tardi, il medico inglese Timothy Rogers raccomandava ai suoi lettori di essere compassionevoli nei confronti dei pazienti colpiti da quel male: «se avete amici affetti da melanconia, non costringeteli a fare cose che non riescono a fare»; meglio sarebbe pensarli come «individui dalle ossa rotte, che sopportano ogni giorno grandi pene e dolori intensi» (e, tra parentesi, quanta delicatezza nell’affrontare il tema!). Nel momento in cui il dottor Rogers faceva tali considerazioni, questa epidemia di melanconia diffusa aveva raggiunto dimensioni tali, nella sua nazione, che il governo s’era visto costretto a creare centri di cura dedicati all’accoglienza dei casi più gravi; ma c’era anche chi sembrava divertirsi nel cullarsi in un mare di cupa disperazione, se vogliamo dar retta alle parole di Michel de Montaigne che, nel suo saggio Sulla tristezza, osservava come alcuni avessero preso l’abitudine di onorare questo stato d’animo «come qualcosa di molto pregevole», quasi fosse la nuova moda del momento.

Con la consueta delicatezza che caratterizzò le confessioni religiose dell’immediata post-Riforma, gli scrittori cattolici colpevolizzarono i depressi per i loro tentativi di migliorare la propria condizione (meglio sarebbe stato fare come Giobbe, che sopportava le sofferenze senza lamentarsi troppo!) e gli scrittori protestanti colpevolizzarono i depressi per il semplice fatto d’essere tali (certamente a causa di peccati gravissimi che gridavano vendetta agli occhi di Dio!). In particolar modo, la chiesa luterana pose un’enfasi del tutto inedita sulle celebrazioni del Venerdì Santo: che, per dirla con le parole di Wolfgang Behringer, furono spesso utilizzate come strumento «per la gestione di situazioni di grande dolore, dopo che le forme tradizionali di incorporazione della sofferenza», e cioè tipicamente quelle dei santi martiri, «erano divenute indisponibili» per le ovvie ragioni teologiche di fondo.

E qui, lo storico non può che domandarsi: ma qual è la causa di tutta ‘sta angoscia esistenziale?

Per carità: è pur vero che chi parla di «secoli bui del Medioevo» è tendenzialmente un individuo che non ha mai approfondito quell’incredibile catena di disgrazie che resero francamente invivibile l’Europa della prima età moderna. Fra guerre di religione, guerre di conquista, catastrofi ambientali ed epidemie tra le più schifide, diciamo pure che, globalmente, c’era ben poco da stare allegri; sicché, sarebbe senza dubbio parziale il voler ridurre a un’unica causa questo improvviso aumento del disagio mentale. Curiosamente, però, furono proprio i medici dell’epoca a identificarne la fonte in un fenomeno ben preciso; ovverosia, il maltempo: che, secondo molti uomini del tempo, era il principale responsabile di quel malumore generalizzato e perdurante.

Il primo a tracciare questo collegamento fu il vescovo anglicano Robert Burton: che, a inizio Seicento, dando alle stampe la sua Anatomia della Malinconia, citò a più riprese tra le cause scatenanti quegli interminabili inverni fuori stagione fatti di giornate cupe e pioggia fitta, che facevano scendere le tenebre fin dalle prime ore del pomeriggio dando alla brava gente l’insostenibile impressione di vivere in un mondo sempre più grigio e spento. Non tutti gli individui soffrivano allo stesso modo per questo clima avverso, argomentò il saggista, aggiungendo però che ne conosceva parecchi che si immusonivano visibilmente durante i lunghi periodi di pioggia, e poi sembravano rinascere a vita nuova non appena il sole graziava la terra inondandola di luce e di tepore.

Lungi dal guardare con aria di commiserazione quel prete strano dalle teorie bizzarre, i medici di mezza Europa si trovarono a convenire sul fatto che, in effetti, Burton ci aveva sicuramente visto giusto. Era infatti noto alla scienza medica dell’epoca che tutte le malattie (sia quelle fisiche, sia quelle mentali) si ingenerano nel momento in cui nel paziente viene meno quell’alchimia che tiene in equilibrio i quattro umori che compongono il corpo umano: l’atrabile, fredda e secca; la bile gialla, secca e calda; il flegma, freddo e umido; e infine il sangue, umido ma caldo. La malattia che si instaurava all’interno del corpo umano nel momento in cui, per così dire, “si sballavano i valori” poteva avere ripercussioni anche sul piano della salute mentale: e su questo, all’epoca, non v’era dubbio alcuno. Chi si trovava a dover gestire un aumento spropositato del suo flegma tendeva ad assumere comportamenti flemmatici (per l’appunto), diventando inoperoso e disinteressato; chi si trovava in balia d’un eccesso di atrabile si trasformava in un individuo bilioso (per l’appunto): mesto, ripiegato su se stesso, tutto preso a rimuginare sulle sue disgrazie. Insomma, stiamo parlando di individui depressi, o comunque caratterizzati da stati di salute mentale ben lontani dal poter essere definiti “ottimali”: e tenuto conto del fatto che questi stati di sofferenza si instauravano nel momento in cui il corpo “si raffreddava troppo” (venendo giustappunto invaso da flegma e atrabile: i due umori freddi per eccellenza) non c’è di che stupirsi che i medici attribuissero buona parte di quel disastro a quella successione di annate gelide e piovose, che costringevano la brava gente a battere i denti e stare all’umido per una decina di mesi all’anno. Dagli e dagli, era quasi inevitabile finire con l’ammalarsi!

***

Naturalmente, non c’è nulla di scientifico in queste teorie: gli inverni piovosi non provocano depressione, e la gente della prima età moderna aveva un’ampia gamma di validissime ragioni per maledire il periodo storico in cui le era stato dato in sorte di dover vivere. Eppure, in anni recenti, alcuni ricercatori si sono lasciati affascinare da queste suggestioni antiche domandandosi se i medici del passato non avessero forse un briciolo di ragione nel parlare di depressione meteo-indotta. In fin dei conti, la psicologia moderna ben conosce l’esistenza del Disturbo Affettivo Stagionale (in Inglese, Seasonal Affective Disorder, donde la simpatica sigla SAD), un disturbo dell’umore a pattern stagionale che determina l’instaurarsi di stati depressivi in alcuni periodi dell’anno, sempre uguali: terminati questi periodi, e mutate le condizioni meteo, i sintomi regrediscono spontaneamente salvo poi tornare esattamente identici l’anno dopo. Pare che il più diffuso tipo di SAD sia quello legato all’inverno: i primi sintomi si manifestano sul finire dell’autunno e degradano spontaneamente in primavera… sempre che quest’ultima sia una primavera decente e non un maggembre come quello che stiamo vivendo quest’anno (per ricorrere a una definizione ironica che vedo ormai molto gettonata sui social).

Fino a che punto il SAD è diffuso e capace di impattare sulla vita quotidiana di chi ne è affetto? A quanto leggo, si stima che circa il 20% della popolazione europea e nordamericana sperimenti occasionalmente lievi stati di malumore in concomitanza coi periodi più uggiosi dell’anno; fortunatamente molto più bassa (e stimata dall’1 al 4%) è la percentuale di popolazione che, nel periodo invernale, accusa disturbi depressivi gravi, tali da condizionare seriamente il suo benessere.
Insomma: dati alla mano, sembra quantomeno un po’ eccessivo ipotizzare che tutta l’Europa della prima età moderna fosse caduta vittima della depressione “solo” perché la temperatura era più bassa del normale e gli inverni sembravano protrarsi per periodi insopportabilmente lunghi. E infatti, giusto per esser chiari, nessuno storico si è mai spinto a dire questa cosa. Però, chissà: in un contesto in cui, tra guerre ed epidemie, c’erano fin troppi motivi per deprimersi, e il maltempo aggiungeva il carico da novanta avvolgendo il mondo in una cappa grigia che non si limitava solamente a provocare carestie, ma contribuiva anche a dare la tangibile impressione che le tenebre fossero calate sui mortali… beh: forse forse, non è poi così campata per aria l’idea che il Seasonal Affective Disorder possa aver avuto almeno un piccolo ruolo nell’aggravare quell’ondata di dilagante depressione.

E di peccato, aggiunsero alcuni, col caratteristico ottimismo che ho appena finito di descrivere: ché il diavolo è ben noto per la sua capacità di insinuarsi nella mente umana nei momenti di debolezza, illudendola con promesse di facile riscatto se solo si sarà disposti dalla parte del Male. O almeno: così scrissero, all’unanimità, sacerdoti cattolici e pastori protestanti, giusto per dare il loro contributo nell’abbassare ulteriormente l’umore collettivo: se l’umanità sembrava sempre più cinica e abbrutita; se i governanti si facevano la guerra con la stessa disinvoltura di un bambino che gioca coi suoi soldatini; se la stregoneria era una piaga fuori controllo che ogni giorno mieteva vittime e raccoglieva nuovi adepti: beh, tutto questo era colpa di quella tendenza generalizzata alla mestizia e alla depressione. E (naturalmente!) di chi, trovandosi in quello stato, non riusciva a trovare la forza necessaria per combattere le lusinghe del demonio, come pure sarebbe stato necessario saper fare.

Accipicchia! Toccherà essere ben cauti, noialtri, alle prese con ‘sto maggembre che ci fa tanto brontolare!


Per approfondire:

  • Wolfgang Behringer, Storia culturale del clima. Dall’Era glaciale al riscaldamento globale (Bollati Boringhieri, 2013)
  • Encyclopedia of World Climatology, a cura di John E. Oliver (Springer, 2008)
  • Lawrence Babb, The Elizabethan Malady: A Study of Melancholia in English Literature from 1580 to 1642 (Michigan State College Press, 1951)

…e, volendo, potrei anche citare me medesima, perché al tema dei cambiamenti climatici collegati alla crescente paura della stregoneria ho dedicato un capitoletto del mio libro: Ingannatori, malefici e sapienti.

20 risposte a "La depressione generalizzata della prima età moderna e quegli inverni senza fine che, forse forse…"

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  2. Francesca

    (“Con la consueta delicatezza che caratterizzò le confessioni religiose dell’immediata post-Riforma,” – LOL )

    “gli scrittori cattolici colpevolizzarono i depressi per i loro tentativi di migliorare la propria condizione (meglio sarebbe stato fare come Giobbe, che sopportava le sofferenze senza lamentarsi troppo!) ”

    Quindi, in pratica… Domanda: si può dedurre che ci sono state epoche o periodi diversi (o anche solo decenni diversi all’interno di un secolo) in cui la Chiesa giudicava alternativamente un bene oppure un male combattere la cosiddetta melancolia?
    Alla fine dell’articolo riporti appunto quello che – molto in generale – già sapevo anch’io, e cioè che per un certo periodo nel cattolicesimo (vertici o clerici o popolo, non lo so) si giudicava la melancolia addirittura un peccato della persona – perlomeno se non veniva attivamente combattuta e risolta.
    Oppure si tratta di correnti “teologiche-morali” diverse e coesistenti nei medesimi periodi storici?
    E dato che ci sono, aggiungo altra questione: hai notizie di qualche pronunciamento ufficiale, “registrato, firmato e timbrato” di vescovi o papi… o eminenti teologi? (Evidentemente sarebbero documenti non ufficializzati al punto da diventare dottrina sempiterna nonché universale… Altrimenti ce l’avremmo ancora nel catechismo… ma tali da determinare un mainstream nella morale, come sembra effettivamente dal tuo articolo… Oppure si può parlare piuttosto di semplice “andazzo” dell’opinione? – che comunque, si sa, l’opinione di un vescovo del passato aveva un peso diverso da quella di un vescovo o anche Papa di oggi).

    Articolo MOLTO interessante.
    Grazie!

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    1. Ago86

      Correnti, interpretazioni e opinioni differenti su una gran quantità di temi si sono accavallate nel corso della storia della Chiesa, ed è anche la norma quando si tratta di scrittori che argomentano ed espongono. Per quanto un’idea possa diventare generalizzata non ha però per questo semplice motivo valore dottrinale o normativo per la fede. C’è poi da dire che un conto sono le definizioni di fede (che si possono trovare nel Denzinger, ad esempio) e tutt’altro paio di maniche è la sintesi teologica che le sistematizza e cerca di trarne conclusioni e implicazioni, non solo a livello di fede ma anche di morale. I “sistemi teologici” non sono per nulla vincolanti, e le conclusioni che gli scrittori traggono dai loro sistemi di riferimento lo sono ancora meno, per quanto siano “popolari”.

      Diversi post di questo blog riportano casi simili – non era solo una questione di malinconia 😉

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      1. Francesca

        @Ago86
        Concordo con ogni riga del tuo commento.
        Dopodiché ci sarebbe da aggiungere, come riflessione personale di cattolici ma anche come tema che dovrebbe avere un certo peso nella Chiesa (“chiesa” in tutte le sue definizioni)… Quante persone hanno (ieri e oggi) la consapevolezza della tua giusta affermazione
        “Per quanto un’idea possa diventare generalizzata non ha però per questo semplice motivo valore dottrinale o normativo per la fede”
        ?

        E, in definitiva, come questo fatto “impatta” sulla vita delle persone e sulla Storia della Chiesa?
        È vero che il blog di Lucia fa parte del lavoro che dà una risposta.

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    2. Lucia Graziano

      Sì, esatto: in questo caso, come dice Ago86, più che un pronunciamento ufficiale (o anche solo ufficioso, per capirci), in seno alla Chiesa cattolica si trattò più che altro di una tendenza, una corrente di pensiero. Che per qualche anno sembrò quasi prevalente, complice anche alcuni libretti devozionali che furono stampati ad alta tiratura ed ebbero grande diffusione, in cui appunto i fedeli venivano invitati a “darsi una scrollata” e a sopportare le loro disgrazie senza troppe pantomime, perché in fin dei conti i cristiani vissuti all’epoca delle persecuzioni (e il buon Giobbe, che all’epoca andava tantissimo di moda) non avevano mica avuto una vita facilissima, però non ci risulta che si lagnassero di continuo. Il problema non era tanto la malinconia in sé e per sé, ma – a quanto dicevano molti di questi autori – l’implicita incapacità di accettare le proprie croci, che invece un buon cristiano dovrebbe portare con gioia e serenità, nella consapevolezza che è Dio che le manda. Diciamo fra l’altro che, almeno in certa misura, mi sembra che questo atteggiamento faccia ancora capolino di tanto in tanto, in alcuni 😅 (e non solo in ambiente confessionale, eh. Quante volte si sentono dire cose tipo “eddai, che sarà mai un po’ di depressione, mettiti un vestito bello e fatti una vacanza e vedrai che passa!”).

      Però ecco, sì: quella di cui sopra era una tendenza, una “moda” diffusa se vogliamo, ma non ci fu mai un pronunciamento ufficiale o qualcosa di neanche lontanamente simile. Per un po’ di tempo però fu la tendenza prevalente, almeno nella predicazione e almeno per il popolino, che tendenzialmente è sempre quello più soggetto alle mode del momento e ben poco si cura (soprattutto nel ‘500…) dei pronunciamenti delle alte sfere, ammesso che ce ne siano…

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  3. Ago86

    Se ci aggiungi che le annate piovose costringevano a restare chiusi in casa, inoperosi, in stanze buie perché difficilmente le finestre avevano vetri che facevano passare la luce, magari con una lanterna ad olio che non emanava buon odore…ci credo che a lungo andare si trova difficile alzarsi dal letto! 😀

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    1. Lucia Graziano

      Magari anche senza lanterna, nel senso che le candele e l’olio avevano un costo abbastanza elevato e non era così scontato che le famiglie povere se le potessero permettere (per diverse ore al giorno). Avevo trovato molto interessanti le considerazioni di questo rievocatore storico che, qualche anno fa, si era sottoposto a un’esperienza di vita estrema emulando per sei mesi le condizioni di vita di un pastore della Russia medievale costretto per qualche motivo a vivere da solo:

      https://unapennaspuntata.com/2021/01/09/alone-in-the-past-pavel-sapozhnikov/

      E, vabbeh: è abbastanza chiaro che a un certo punto nel rievocatore erano subentrati dei disturbi psicologici seri, probabilmente legati anche all’estrema solitudine. Ma mi aveva comunque colpito sentirlo parlare del senso di grande paura che induceva in lui il calar delle tenebre e le notti infinite nel buio costante. A un certo punto diceva che, nella stanza poco illuminata e rischiarata solo dal baluginio delle fiammelle in movimento, gli sembrava di scorgere negli angoli delle ombre in movimento che gli facevano paura, soprattutto nel dormiveglia. Chissà quanti dei diavoli e degli spiritelli che popolavano le leggende medievali avevano in effetti la stessa genesi…

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      1. Ago86

        Il fatto che condizioni di vita simili a quelle descritte siano state la norma fino al XIX secolo mi porta a concludere che in passato la tempra fisica e mentale degli uomini era completamente diversa da quella attuale. Ma credo basti pensare a cosa hanno vissuto i nostri nonni per rendersene conto: oltre a condizioni di vita per noi proibitive e disumane a livello fisico, a livello psicologico non si facevano problemi per cose che oggi farebbero finire in terapia – basta dare un cattivo soprannome ad un bambino e quello finisce o viene mandato dallo psicologo perché vittima di bullismo, una cosa che non ha interessato nessuno fino agli anni ’00…

        Tornando al post, in base a quanto esposto mi risulta sempre azzardato sovrapporre le discipline psicologiche moderne a persone che avevano tutt’altro carattere e costituzione, perché quello che in noi può ingenerare gravi disturbi psicologici in passato era praticamente acqua fresca. Anche perché la psicologia ha una forte valenza euristica, un po’ come in passato l’aveva la censura: si dà una definizione precisa di un disturbo e delle sue dinamiche mentali come un tempo si dava la definizione di un errore; in entrambi i casi le definizioni creano il disturbo/l’idea e da allora si fa riferimento alle sue caratteristiche precise che spesso non sono state abbracciate o sostenute da nessuno…prima che venissero definite! 😀

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        1. Lucia Graziano

          Meh… io non sono tanto d’accordo, sai?
          E’ vero che in passato c’erano pochi bambini che finivano in terapia per bullismo (anche perché, in un’epoca in cui era tutto sommato normale corcarli di botte per insegnar loro a comportarsi…), ma in passato per esempio c’erano uomini a cui crollava il mondo addosso quando per X motivi perdevano l’onore. Se leggi i romanzi cavallereschi medievali, i grandi cavalieri come Galvano e Lancillotto ti sembrano uomini gravemente complessati con problemi psicologici grossi come una casa, oltretutto insorti per un nonnulla (tipo una donna che ti dà il due di picche o una figuraccia sul posto di lavoro. Un uomo normale, ai giorni nostri, non fa una tragedia per ‘ste piccolezze, mentre invece una volta evidentemente sì. Cito Lancillotto perché è il caso eclatante ma abbiamo comunque fonti non letterarie e a suggerire la stessa cosa, eh).
          C’erano religiosi e religiose che si richiudevano in clausura perché (ci appare evidente col senno di poi, leggendo le loro vite) non sarebbero mai riusciti a “funzionare” nel mondo esterno e c’era gente plurilaureata che bruciava sul rogo la vicina di casa nella convinzione che fosse una strega. Le donne che avevano comportamenti un po’ strani (magari anche solo perché il marito diceva “mah, è diventata scontrosa e distaccata, io non la riconosco più, quasi quasi la faccio vedere da un medico”) venivano diagnosticate come isteriche e spesso sottoposte a terapie farmacologiche a base d’oppio che sicuramente riuscivano a far ammattire anche quelle che di per sé stavano benissimo.

          Per dire: non è che i disturbi psicologici siano una novità dei nostri tempi. Ci sono sempre stati; solo che in società molto diverse dalla nostra i trigger erano diversi rispetto a quelli conosciamo oggi (sol per quello, leggevo che in Giappone c’è il problema dei suicidi generati dal senso di colpa di chi perde il lavoro o viene bocciato a scuola. Grazie al cielo, qui in Occidente il problema è quasi inesistente: società diversa anche in questo caso).

          E penso che una riflessione andrebbe fatta anche sul tema “i nostri antenati hanno vissuto tragedie gravissime eppure se la sono cavata tutto sommato bene”. Vero, però è anche vero che i nostri antenati non avevano la televisione e molto spesso non erano a conoscenza della tragedia gravissima che avveniva a qualche chilometro di distanza. (I nostri nonni sotto le bombe in effetti sì, ma loro sono già un’eccezione rispetto alla media). Le notizie circolavano a scoppio ritardato e comunque non erano mediate dalle immagini, che hanno un impatto emotivo molto più forte: un conto è venire a sapere che, sei mesi prima, due torri sono crollate nel Nuovo Mondo comportando una grande perdita di vite umane, e un conto è rimanere attaccati alla televisione a guardare in tempo reale le sagome degli uomini che si buttano giù dalle Twin Towers. La morte dei 21 copti uccisi dall’ISIS io l’ho vista in ogni minimo dettaglio perché, all’epoca, una pagina FB evidentemente vicina al terrorismo islamico aveva pagato una sponsorizzata per farmi apparire nella home page di Facebook il video integrale dello sgozzamento (quello che i canali TV occidentali hanno ovviamente evitato di mandare in onda; ecco io mi son trovata la registrazione video di un reale omicidio tra un meme e una foto della mia pizza con le amiche) e si potrebbe andare avanti così per molto tempo. I nostri antenati non ricevevano questo tipo e questa quantità di stimoli, quindi è pur vero che vivevano in un’epoca piena di tragedie ma, a differenza nostra, non le conoscevano tutte.

          Ricordo distintamente un giorno di inizio marzo dell’anno scorso; nell’arco di 24 ore Boris Johnson aveva alzato l’allerta nucleare in UK e Macron aveva detto in campagna elettorale che la Francia doveva essere pronta a sostenere una guerra ad alta intensità sul territorio. L’Italia aveva annunciato l’imminente abbandono di molte misure anti-Covid suscitando nella stampa articoli sulle linee di “dai tutto finito, ormai possiamo considerarlo alla pari di un raffreddore” mentre in UK l’Università di Oxford diffondeva studi estremamente allarmati sugli effetti a lungo termine del long Covid, suscitando nella stampa britannica articoli sulle linee di “nessuno si azzardi a definirlo un banale raffreddore” (nonché, nel mio ateneo, la decisione di mantenere ancora attive almeno fino a fine term tutte quelle regole, dolorose ma ritenute strettamente necessarie, di cui invece la mia nazione annunciava l’abolizione imminente perché ormai non più necessarie). Tutto nell’arco di 24 ore e tutto nella mia casella di posta, spesso accompagnato da immagini a effetto di questa e quell’altra tragedia, montate in servizi strappalacrime fatti per colpire l’emotività dello spettatore. Ecco: questo non capitava ai nostri antenati (e secondo me capitava meno anche ai nostri nonni, che sicuramente avevano già i cinegiornali ma avevano anche la censura di guerra fatta apposta per tenere alto l’umore della popolazione). Il tipo di stimoli a cui è sottoposto un uomo del 2023 è profondamente diverso rispetto a quello che avevano i nostri antenati, quindi trovo molto naturale che la risposta psicologica alle difficoltà della vita moderna sia cambiata profondamente. E’ sicuramente vero che loro “stavano messi peggio” ma per molti versi non lo sapevano; noi per contro subiamo il peso emotivo di tutte le disgrazie di questo vasto mondo, anche di quelle che sono lontane da noi diverse centinaia di chilometri, perché dai… una volta che vedi in TV il bambino africano che muore di fame, la profuga ucraina che dice addio al marito soldato o il copto sgozzato dall’ISIS, come fai a restare indifferente? I nostri antenati sicuramente non avrebbero visti, che già vuol dire tanto, e nel 90% dei casi non avrebbero nemmeno saputo della loro esistenza in vita.

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  4. Francesca

    Grazie! 🙂
    Rivolgendo anche a te la stessa riflessione che ho scritto in risposta ad Ago86… Faccio inoltre presente che – forse – è anche qualcosa in più del “fare capolino”… Insomma, è un segnale che c’è ancora parecchio lavoro da fare su una marea di fronti.

    Hai scritto:
    “Diciamo fra l’altro che, almeno in certa misura, mi sembra che questo atteggiamento faccia ancora capolino di tanto in tanto, in alcuni 😅 (e non solo in ambiente confessionale, eh. […] )

    Ambiente confessionale.
    Beh, mentre ti/vi leggevo, continuava a tornarmi in mente un libro che ho avuto in casa per anni e che poi mi risultò troppo “specialistico” da affrontare, un po’ troppo complicato… E ad un certo punto rinunciai (cioè rinunciai a capire dove andava a parare, troppo difficile per la mia giovane età, troppi argomenti che non conoscevo, scritti in stile “da specialista”. Poco divulgativo – ed era normale che fosse così visto il “target”). Era un libro che fino a qualche anno fa circolava – non ricordo se consigliato o obbligatorio – ai corsi di teologia della mia diocesi, presso il seminario vescovile, aperti anche ai laici, catechisti parrocchiali, eccetera.

    Ve lo linko e già il titolo dice molto:

    “Malattia della mente o infermità del volere?”
    Psicologia, teologia morale e formazione.
    Pubblicato nel 2004
    Autore: Dr. Giuseppe Mazzoccato, prete e docente
    Curriculum al link
    https://fttr.discite.it/ppd/carriera.jsp?d=52

    Così, tanto per dire…
    L’argomento “fa capolino” ancora oggi, eccome 🙂

    Graditi ulteriori commenti, se avete tempo e voglia. Grazie

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    1. Francesca

      Mio commento qua sopra del 17 maggio ore 21.18 è in risposta a Lucia 17 maggio ore 12.14 . Non so come è finito qua, boh.
      Prosegue sul tema già iniziato con Ago86 e Lucia. Grazie.

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    2. Lucia Graziano

      Eh, lo so. “Fare capolino” era l’eufemismo del secolo, purtroppo è un atteggiamento che io vedo davvero molto diffuso (non solo in campo confessionale, ma anche in campo confessionale), e che in campo confessionale purtroppo si combina, almeno in certe fasce di credenti, con quella generalizzata e crescente diffidenza verso le istituzioni che credo sia abbastanza evidente a tutti gli osservatori attenti. E bisognerebbe francamente lavorare su questo tema. Laura Zaccaro, neo-laureata in psicologia, lo fa con grande passione sui social e sul suo sito, ma sarebbe bello che ci fossero più riflettori accesi su questo tema, secondo me.

      In ambiente confessionale, poi, io spesso mi interrogo sull’efficacia di quella pastorale in stile “uh ma la croce è così facile da portare”. Nel senso che capita spesso, ultimamente, di vedere e di trovare online dei credenti (cattolici, ma anche protestanti) che sfruttano i social per dare una testimonianza luminosissima e piena di speranza del loro modo di vivere le peggiori tragedie (diagnosi di cancro, malattie terminali, figli morti, figli con disabilità gravissime… e loro, i diretti interessati, sono sempre lì a sorridere in mezzo alla tragedia dicendo che, grazie alla fede, tutto si sopporta e tutto concorre al bene). Sicuramente vero in una prospettiva di fede, e sia ben chiaro: non c’è dubbio che queste persone diano la loro testimonianza in buona fede e senza alcuna malizia (ci mancherebbe). Mi chiedo però se non ci sia il rischio di creare, alla lunga, degli standard difficili da raggiungere che finiscono col mettere a disagio gli altri fedeli. Tipo che ti muore un figlio e ti diagnosticano un cancro e tu devi pure fare i conti col senso di colpa perché, per quanto ti sforzi, non riesci proprio a reagire con la stessa serenità mostrata dalla tizia X su Instagram.

      E questa è una cosa su cui mi interrogo, nel senso che non ho una risposta. Da un lato, si tratta senza dubbio di testimonianze luminose di speranza che sicuramente possono dare speranza; dall’altro… meh. Per come sono fatta io, non credo che a me personalmente farebbe bene seguire questo tipo di pagine, se mi trovassi in mezzo alla tragedia.

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      1. Francesca

        E grazie al Cielo c’è una che lo dice!
        Già da molto, forse troppo tempo, si è stabilito una sorta di automatismo nel giudizio sul “grado” della Fede altrui… basato sulle reazioni (a ‘sto punto immediate – perché il mondo le vuole pure immediate) delle persone davanti alle tragedie… Come se la “fede forte” significasse tout court (solo e soltanto) avere un costante bel sorriso, e pure ridere e scherzare in mezzo ai dolori di ogni genere.

        La penso come te. E la penso così avendo esperienza di entrambi gli atteggiamenti in me stessa medesima.
        Ma appunto: se ridi o non ridi, se riesci a ridere o se non ci riesci, questo DIPENDE da un sacco di fattori – e non solo dalla volontà di affermare la Fede nella maniera in cui vuoi (o vorresti).
        Tipo: se provi l’esperienza di quelli che vengono definiti “dolori da suicidio”… Ecco, ti basterà provarli una volta per non fare eventuali predicozzi a chi non sorride perché in preda al dolore fisico – pur non avendo lui o lei dubbi di Fede.
        Ma questo è solo un esempio (peraltro solo dal lato fisico), tra i tanti che si potrebbero fare.

        Perciò, sì, concordo con te:

        “Sicuramente vero in una prospettiva di fede, e sia ben chiaro: non c’è dubbio che queste persone diano la loro testimonianza in buona fede e senza alcuna malizia (ci mancherebbe). Mi chiedo però se non ci sia il rischio di creare, alla lunga, degli standard difficili da raggiungere che finiscono col mettere a disagio gli altri fedeli. Tipo che ti muore un figlio e ti diagnosticano un cancro e tu devi pure fare i conti col senso di colpa perché, per quanto ti sforzi, non riesci proprio a reagire con la stessa serenità mostrata dalla tizia X su Instagram.
        E questa è una cosa su cui mi interrogo, nel senso che non ho una risposta. Da un lato, si tratta senza dubbio di testimonianze luminose di speranza che sicuramente possono dare speranza; dall’altro… meh” -.

        P.s. A dirla tutta, l’allegria “ad ogni costo” mi sembra pure un accodarsi forzato agli standard “mondani”… E non è così peregrina l’ipotesi che questi standard concorrano (non poco!) alla convinzione sempre più diffusa che “se non ce la fai psicologicamente, non è male considerare le strade dell’eutanasia e del suicidio medicale” .

        P.p.s. Per non parlare del concetto di santità che rischia di ridursi ad un’ideologia da … “pensiero unico” (cattolico).

        In effetti… L’argomento è vastissimo.

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        1. Lucia Graziano

          Concordo moltissimo sul fatto che l’allegria a ogni costo è qualcosa che evidentemente va di moda; penso ad esempio alla storia di Nadia Toffa che aveva definito “un dono” il suo cancro (e che, proprio in virtù di questo, aveva cominciato a essere additata come modello da alcuni cattolici che fino a poco prima la criticavano!!). Lo ripeto ancora una volta per eccesso di chiarezza: che Nadia Toffa sia riuscita a vivere in questi termini la sua malattia è sicuramente una cosa meravigliosa, e sono moderatamente certa che le sue riflessioni abbiano aiutato un buon numero di persone, la mia non è una critica, ci mancherebbe altro. Ma mi pare innegabile fatto che l’allegria a tutti i costi di fronte alle peggio disgrazie sia diventato un po’ l’atteggiamento “che bisogna avere” (nonché, per i credenti, una specie di benchmark di santità o una cosa che quantomeno ti fa finire sui bollettini parrocchiali anche se, in assenza di quello, non ti ci avrebbero messa manco sotto tortura).

          Meh.

          Siccome l’argomento è vastissimo, aggiungerò anche che, in ambiente confessionale, mi sembra che ultimamente si punti un po’ tanto (un po’ troppo) sul concetto di “vieni da noi, è tutto più bello, ce la spassiamo alla grande, abbiamo i biscotti”. A me onestamente sembra pubblicità ingannevole e, fra l’altro, anche piuttosto masochista, perché è abbastanza noto che, nel momento in cui il prodotto ti delude, tu abbandoni il brand, ed eventualmente ripieghi altrove.

          Esempio concreto tra mille: a me manda ai matti quando sento dire ai giovani che “i metodi naturali per controllo delle nascite sono ganzissimi perché si gode molto di più” (ed è un’argomentazione che, almeno in base alla mia esperienza, anche online, è davvero molto usata. Quand’ero adolescente io, grazie al cielo, non mi è mai stata detta, ma adesso la vedo usata abbastanza di frequente).

          Mo’, a parte l’esperienza straniante di andare a una catechesi e sentirti fare paragoni su come si gode di più facendo cosa 😅 qualsiasi persona ragionevole potrebbe pacatamente far notare che, per carità, tutto bellissimo, ma per loro stessa natura questi metodi implicano periodi di astinenza di diversi giorni consecutivi, che fra l’altro coincidono coi momenti in cui, per mere ragioni ormonali, molte donne tendono a provare più desiderio. Ora, io non so chi sia che ha deciso che il claim pubblicitario vincente per ‘sta roba potesse essere “si gode come ricci, e chi non è con noi non ha la più pallida idea di cosa si perde”, ma diciamo che a me non sembra una scelta di marketing tra le più brillanti (è chiaro che ci sono ragioni molto più profonde e meno goderecce per cui la Chiesa comanda ai suoi fedeli di fare questa scelta). Se tu insisti a passare ai fidanzati ‘sto messaggio, e poi i novelli sposi si rendono conto che, ‘nsomma, “godere come ricci” a casa loro è un’altra cosa, o li fai sentire sbagliati o li fai sentire ingannati, ma in ogni caso non mi sembra ‘sto gran successo.

          E’ solo il primo esempio che m’è venuto in mente perché giusto un paio di giorni fa vedevo un video dove si tornava per l’ennesima volta su ‘sto concetto e quindi mi è rimasto impresso, ma se ne potrebbero anche fare altri su elementi meno “controculturali”. Il mio punto è proprio: ma è possibile che per convincere la gente a far qualcosa bisogni per forza dire che se fai così è bello? Ci sono anche altri sproni nel mondo, voglio dire 😅

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  5. Elena

    Ho letto da qualche parte che attualmente nei paesi scandinavi, in Svezia in particolare, alcune persone hanno bisogno di fare fototerapia durante i periodi invernali che da loro sono più lunghi dei nostri…si usano lampade che hanno la frequenza della luce solare. La spiego male: disturbi dell’umore possono essere causati da fattori prettamente “chimici”, se non siamo sottoposti alla luce solare andiamo incontro a squilibri che vanno compensati… Il famoso sad o la melancolia hanno cause biologiche che possono essere causa di depressione.

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    1. Lucia Graziano

      Vero! Vedevo quella lampada anche nelle stories di una piccola influencer italianissima, che però tendeva a soffrire di depressione in inverno e a cui il medico la aveva prescritta per saggiarne gli effetti. Lei ne diceva bene, apparentemente.

      Una cosa che mi sono sempre chiesta pensando di disturbi dell’umore innescati dalla mancanza di luce è: ma chissà perché capita ad alcuni e non ad altri. Perché se fosse una cosa puramente chimica dovrebbe trattarsi di una tendenza universale, invece per fortuna non è così (anzi, in una piccola percentuale di pazienti esiste anche il disturbo stagionale inverso che si innesca in primavera-estate, a quanto leggo). Chissà qual è il fattore che rende alcuni molto sensibili alla carenza di luce e altri no 🤔

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  6. Laurie

    Non mi sembra una follia: la gente più o meno metereopatica esiste e nei paesi nordici (cioè dove c’è buio per una buona parte dell’anno) i tassi di depressione sono più alti. Aggiungiamo a questi elementi: raccolti scarsi e, quindi, meno cibo, quindi generalizzata scarsa assunzione di vitamine e di altri oligoelementi che possono influenzare anche le funzioni psichiche, e tutti gli altri fattori “esterni” (anche avere fame, banalmente, non aiuta ad essere di buon umore!) …
    E poi, vuoi mettere un re metereopatico a cui salta la mosca al naso contro un altro governante altrettanto metereopatico? È guerra in un amen!
    Idem per chi predica (protestante e cattolico che sia): tenderà ad essere un filino più catastrofico?
    E le famigerate streghe non saranno anche loro contadinotte ignoranti che tentano di porre fine al maltempo con tutti i mezzi a disposizione (anche con rituali di dubbio gusto…)?
    È un cane che si morde la coda! Si salvi chi può! 😅

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    1. Lucia Graziano

      Sì, assolutamente: concordo su tutto, e anche sul fatto che, nella prima età moderna, ci furono Stati in cui erano al potere governanti che oggigiorno sicuramente sarebbero considerati degni di interesse clinico (per depressione, paranoia, fobie varie etc etc) o che, con i canoni di oggi, considereremmo estremisti religiosi violenti. E non lo diciamo solo io e te eh, è proprio un’osservazione che è stata fatta da numerosi storici osservando che probabilmente anche questi fattori contribuirono, almeno in certa misura, a creare un clima eufemisticamente poco disteso. Mo’, adesso sarebbe forse esagerato parlare di guerre che scoppiarono solo per questo, ma insomma probabilmente anche questo fu un fattore che aiutò.

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      1. Laurie

        Grazie per le tue risposte e precisazione, sempre interessanti!😁
        (Non volevo dire che sono scoppiate guerre solo per questo, spero proprio di no, ma mi chiedevo se e quanto anche i governanti potessero subire l’influenza di tutti i vari fattori di cui sopra.)

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        1. Lucia Graziano

          No no, ci mancherebbe, si capiva benissimo che tu non volevi dire quello, lo specificavo bene per chiarezza per eventuali altri lettori di questo scambio di commenti 😛 Guerre scoppiate SOLO per quello, non esageriamo… però sì, anche i governanti risentivano eccome del clima (e non solo di quello meteorologico ecco)!

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