«In quei giorni», recita il Vangelo di oggi, «Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo». E la scena prosegue come tutti ben sappiamo: «a cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?», domanda santa Elisabetta. «Appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo!».
Bello, eh. Dolcissima scenetta tenera e commovente che riempie il cuore di buoni sentimenti, a meno che tu non sia un artista medievale al quale è stata appena commissionata un’opera ispirata a questo passo. Ecco: in quel caso, è più probabile che i versetti in questione ti facciano venir voglia di tirare un sacco di accidenti allo sciagurato che ha scelto di passare proprio a te quella patata bollente; perché, detto a chiare lettere, come accidenti la rendi questa scena, in un quadro?
Mica facile, far passare il messaggio per cui un feto sussulta nell’utero nel momento in cui sente la voce di Maria Vergine. Certo, lo spettatore può essere invitato a lavorare di fantasia (e, del resto, l’episodio della visitazione di Maria è così celebre da non aver bisogno di particolari glosse a margine); però, diciamo pure che è tutto fuorché facile, trasporre su tela un momento così intenso. Troppo alto è il rischio di trasformare la scenetta in un generico scambio di convenevoli tra due donne incinte, cosa che non è neanche lontanamente il fulcro dell’episodio evangelico: per la sensibilità dell’epoca (forse ancor più che per quella contemporanea) era molto chiaro che l’elemento davvero importante di questa storia fosse il riconoscimento collettivo dell’alterità e della divinità di Cristo, da prima ancora che il bambinello desse il suo primo vagito. Spesso si scrisse che la visitazione fu la prima e la più intima Epifania: ma se immagini tipo queste

rischiano di appiattire l’episodio a un generico baby shower tra cugine, esattamente quale sarebbe stata l’alternativa? In fin dei conti, mica puoi mettere in scena l’ecografia di santa Elisabetta col pargolo che le si dimena in grembo.
…o forse sì?

Negli ultimi secoli del Medioevo, e soprattutto nell’arte figurativa del Nord Europa, le rappresentazioni di questo episodio cominciarono a sfruttare artifici grafici che, agli occhi di noi contemporanei, sembrano davvero anticipare il concetto di ecografia. Spesso le gravidanze di Elisabetta e Maria venivano mostrate attraverso un effetto “a raggi X”: il ventre delle donne diventava trasparente per permettere all’osservatore di contemplare la presenza dei bambini. Oppure (lettura alternativa, forse anche più probabile): i nascituri erano circonfusi d’una aureola così luminosa da attraversare il corpo e le vesti delle madri per mostrarsi al mondo in tutta la sua potenza.
E per quanto riguardava le sculture in 3D? Beh, in quel caso non ci si faceva problemi a realizzare statuette con ventri apribili all’interno dei quali si potevano vedere i due bambini: detta così, sembra la versione medievale di Barbie incinta, ma esistono davvero esemplari di questo tipo!
Quello che vedete in foto – sicuramente il più originale tra quelli noti – fu scolpito entro la seconda decade del Trecento su richiesta del monastero domenicano di Katharinenthal, che all’epoca ospitava, sulle rive del lago di Costanza, qualcosa come centocinquanta religiose. La composizione, oggigiorno conservata al MET Museum, consta di due statue policrome in legno, sul cui ventre svettano cabochon di cristallo: sono proprio loro il fulcro dell’intera opera, incorniciati da un movimento di panneggi e di braccia che istintivamente spinge lo sguardo dell’osservatore a insistere proprio su di loro.
Cosa c’era sotto a quei cristalli?
La risposta alla domanda non è così scontata: sappiamo per certo che i cristalli potevano essere rimossi, ma in realtà non abbiamo evidenza che i ventri delle donne contenessero mini-statuette raffiguranti i due bambini. Anzi, possiamo dire con ragionevole certezza che quelle immagini (comunque non pervenute) hanno buone chance di non essere mai esistite: non per altro, ma i due cristalli non presentano spazi concavi in cui fosse possibile alloggiare altri oggetti. Al massimo, possiamo immaginare che le effigi di Gesù e del Battista fossero dipinte su foglietti di carta, applicati al di sotto della superficie traslucida: una soluzione possibile, però forse un po’ misera per un artista che s’è preso la briga di procurarsi due cristalli, tagliarli e metterli a misura.
No, la costruzione della statua suggerisce che qui ci possa essere in gioco qualcosa di diverso: sicuramente, lo scultore e le monache s’erano ispirati all’idea di “pancia a raggi X” nel dare vita a quella Visitazione, ma è probabile i due cristalli nel ventre della donne avessero un significato che andava oltre la mera necessità “ecografica”. Come spiegano i curatori del MET Museum, uno stilema molto diffuso nel linguaggio mistico medievale consisteva nel paragonare a cristalli e pietre preziose il corpo e l’interiorità delle sante, tutte pervase da purezza di cuore e da trasparenza di intenzioni. Così, per esempio, si esprimeva Gertude di Hefta (+1302) dando conto di una sua visione mistica:
immacolato è il ventre della Vergine gloriosa, trasparente quanto il più puro cristallo: attraverso questa trasparenza brillano luminosi i suoi organi interni, penetrati e ripieni di divinità, splendenti quanto potrebbe esserlo un pezzo d’oro avvolto in sete preziose di mille colori.
Insomma, la trasparenza delle due sante donne aveva probabilmente ben più d’un significato, agli occhi delle monache di Katharinenthal: le quali, tra l’altro, avevano la curiosa tendenza di diventare trasparenti a loro volta, di quando in quanto. A farlo notare è Frances Lillinston dell’Institute of Fine Arts di New York: scorrendo le pagine del Libro delle Sorelle, una sorta di biografia collettiva delle più rimarchevoli monache vissute a Katharinenthal tra il 1245 e il 1345, è difficile non notare la peculiare attitudine alla trasparenza che, apparentemente, accomunava molte di quelle donne. Suor Anna di Ramswag, per esempio, diventava periodicamente “chiara come cristallo” e rischiata da “aure di luce che emergevano da dentro”. Suor Mechthild di Eschenz, un bel giorno, era diventata completamente trasparente, nel senso che era stato letteralmente possibile guardare attraverso il suo corpo. E lo stesso valeva per un buon numero d’altre consorelle di questo strano monastero con tendenza all’invisibilità (e parlo di “monastero” non in senso figurato: di tanto in tanto, anche i mattoni della struttura diventavano trasparenti, per permettere alle monache di sbirciare nel mondo esterno. Naturalmente, infinitamente più brutto e più caotico di quella santa oasi di pace che s’erano ritagliate all’interno!).
E, naturalmente, quella della santità deve necessariamente essere la lente attraverso cui guardare a questi aneddoti: se, nella mistica dell’epoca, illuminata e circonfusa di luce era l’interiorità di ogni santa donna, va da sé che questi strani episodi di trasparenza claustrale dovevano essere considerati alla stregua di un miracolo, atto a testimoniare il candore (non solo) morale della monaca di turno. Allo stesso modo, anche i cristalli del gruppo scultoreo di fronte al quale le monache si riunivano in preghiera avevano (almeno in parte) la stessa funzione: certamente ricreavano quell’effetto ecografia di cui abbiamo già ampiamente detto, permettendo di intravvedere (o forse solo intuire) i due nascituri di cui parlano i Vangeli… ma non si limitavano a questo. Agli occhi delle monache, quei grembi traslucidi avevano probabilmente anche lo scopo di ricordare il modo in cui doveva mostrarsi al mondo una santa donna: pura e luminosa come le pietre più preziose; così trasparente da non aver segreti. Insomma: un duplice messaggio e un prezioso insegnamento, in questa strana statua a raggi X.
- Amiri Ayanna, Bodies of Crystal, Houses of Glass: Observing Reform and Improving Piety in the St. Katharinental Sister Book, in: Journal of Medieval Religious Cultures, vol. 43, no. 1, 2017
- Frances Lilliston, “As clear as crystal”: transparency in the Katharinenthal Visitation Group and Sister Book, in: Lapis: The Journal of the Institute of Fine Arts (23 giugno 2021)
- The Visitation, MET Museum


Elena
In tutte le immagini che hai inserito le due donne portano il velo, in un caso il velo copre solo parzialmente la testa, nell’altro copre completamente la testa e parte della fronte…che significato hanno?
Molto interessante Lucia, questa simbologia del cristallo ha un significato importante e, se posso dire, dolce allo stesso tempo.
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Lucia Graziano
Uh, bella domanda! Non sono una storica dell’arte, ma (così a naso, andando a mio intuito) secondo me in questo caso si trattava semplicemente di un artificio grafico per distinguere le due cugine. Che alla fine erano entrambi due donne incinte (neanche troppo visibilmente) e della stessa classe sociale, quindi con abiti simili. Ok, Elisabetta era più anziana, ma non è questo dettaglio si noti moltissimo, almeno in queste opere.
Quindi penso che banalmente il velo fosse un modo per distinguerle, che evidentemente a un certo punto era diventato topos. Elisabetta aveva il velo austero da “vecchia”, Maria un’acconciatura molto più sbarazzina da giovane donna (e vergine!) quale era.
Credo eh. Così a naso.
In effetti dando un’occhiata su Google Immagini mi sembra che sia proprio un topos diffuso: Maria ha quasi sempre i capelli semiscoperti, se non scoperti del tutto (nel senso che le manca proprio il velo). Elisabetta è sempre velata o comunque col capo coperto.
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