Se vi capitasse di passare da Milano, cercate di fare un salto in zona Porta Venezia, e in particolar modo in largo Bellintani. Lì troverete, seminascosta nel mezzo di tanti palazzoni, una piccola chiesetta a base ottagonale. I Milanesi la chiamano “San Carlo al Lazzaretto”, e lo fanno per buone ragioni: quella chiesetta è (quasi) tutto ciò che rimane del famoso lazzaretto di Milano. Sì, quello dei Promessi Sposi.
Ma come nasce il Lazzaretto di Milano?
Beh, la peste nera del 1348 impose un netto cambio di rotta alle politiche sanitarie che erano in uso fino a quel momento. Fino ad allora, nel Medioevo occidentale, le malattie a carattere epidemico venivano quasi sempre gestite “a domicilio”: dopo la diagnosi, i pazienti ricevevano l’ordine di non uscire di casa e attendevano fiduciosamente che qualche anima pia bussasse alla loro porta per consegnare acqua, cibo e (se avevano fortuna) medicine.
Il problema era che, talvolta, nessuno bussava. Solo in pochissime città è attestata l’esistenza di un welfare statale che si facesse carico di portare scorte di acqua e cibo ai malati che erano impossibilitati a lasciare la loro abitazione. Informalmente, erano spesso le parrocchie a farsi carico di questo ruolo, ma c’era sempre il rischio che qualcosa si inceppasse nel meccanismo (o che, banalmente, il parroco non fosse a conoscenza di tutti i fedeli che avevano bisogno di aiuto). Insomma, non era infrequente che i malati finissero con l’essere abbandonati a se stessi: c’era chi moriva d’inedia, consumato dalla fame prima ancora che dalla malattia, e c’era chi per disperazione violava la quarantena, finendo inevitabilmente col propagare il contagio.
Ovviamente, occorreva trovare un modo per risolvere il problema. E (seguendo la scia di Venezia, che nel 1423 aveva lanciato, per così dire, il progetto pilota riscuotendo ottimi risultati), Milano decise di erigere un gigantesco ospedale, esclusivamente dedicato ai malati contagiosi, nel quale i pazienti potessero essere isolati dagli individui sani ma in un contesto che permettesse loro di ricevere tutta l’assistenza del caso.
I lavori presero il via alla fine del XV secolo, in un appezzamento di terreno in prossimità della chiesa di San Gregorio dove già esisteva un piccolo ricovero per infermi affetti da malattie non contagiose; i lavori furono affidati a Lazzaro Palazzi (nomen omen!), un architetto che si era fatto le ossa nella fabbrica del duomo iniziando la gavetta come semplice scalpellino e finendo col guadagnarsi la qualifica di mastro ingegnere.
Il lazzaretto era stato modellato sulle forme di una vera e propria fortezza, con tanto di ponte levatoio che si apriva su un fossato alimentato dalla Martesana, che provvedeva a isolare la struttura e, al tempo stesso, a garantire ai suoi abitanti un afflusso costante d’acqua potabile. Era una costruzione gigantesca per l’epoca, con un’estensione di circa centosessantamila metri quadrati, che abbracciava tutto il quadrilatero oggi compreso tra corso Buenos Aires, via San Gregorio, via Lazzaretto e viale Vittorio Veneto. All’interno della struttura, trovavano spazio 280 camere singole (! cioè, oggi manco nelle cliniche a pagamento), ognuna delle quali era provvista di un letto, un camino, una latrina, un quadretto devozionale e un doppio punto luce: una delle finestre si affacciava verso il fossato, per permettere al malato di comunicare con l’esterno, e l’altra si apriva verso il cortile (nel quale, nei momenti di emergenza. venivano allestite tende e baracche per ospitare il crescente numero di malati).
Ma era uno e uno solo il punto verso cui tendevano gli sguardi di tutti i pazienti che s’affacciavano alla finestra lato cortile. Era quella che oggi è conosciuta come la chiesa di San Carlo al Lazzaretto: edificata nel centro esatto dell’edificio, in modo tale che chiunque, sollevando lo sguardo dal suo giaciglio, avesse modo di scorgerla di lontano e di abbeverarsi alla vista del Santissimo Sacramento.
Non a caso: la cappella non aveva pareti. Nel progetto originario, era una semplice struttura in legno volutamente aperta su tutti i lati, proprio perché l’architetto aveva voluto che il tabernacolo potesse essere visibile da ogni punto dell’ospedale.
…certo è che una struttura in legno, aperta da tutti i lati e costantemente esposta alle intemperie, finisce col deteriorarsi piuttosto rapidamente, cosa particolarmente indesiderabile se al suo interno viene esposta l’ostia consacrata. Alla fine del Cinquecento, la cappella del lazzaretto aveva drammaticamente bisogno di un restauro: e nel 1580 fu san Carlo Borromeo a dare ordine di demolirla per costruire una struttura più solida e un po’ più riparata.
Nacque così la piccola chiesa a pianta ottagonale che esiste ancor oggi a Milano, in quello che un tempo era il centro esatto del lazzaretto. Così la descrive Alessandro Manzoni, nel capitolo 36 dei Promessi Sposi:
La cappella ottangolare che sorge, elevata d’alcuni scalini, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati, senz’altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così, traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni; dentro girava un portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d’otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di maniera che l’altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo. Ora, convertito l’edifizio a tutt’altr’uso, i vani delle facciate son murati; ma l’antica ossatura, rimasta intatta, indica chiaramente l’antico stato, e l’antica destinazione di quello.
Il lazzaretto di Milano rimase in funzione fino alla peste del 1630; poi, pian piano, le ondate di contagio cominciarono a rarefarsi in tutta Europa fino a sparire completamente, rendendo obsoleta quella costruzione. Disinfettato da cima a fondo con doppia mano di calce (chiesa inclusa!), fu trasformato in caserma (ecco il «tutt’altr’uso» a cui allude Manzoni); e durante la dominazione napoleonica, la cappellina, ormai sconsacrata, fu addirittura trasformata in un altare della patria, con tanto di una statua della libertà collocata là dove un tempo s’era eretto l’altare cristiano.
Ma il lazzaretto non sarebbe sopravvissuto a lungo. A segnare la sua fine fu la diffusione della locomotiva: alla metà dell’Ottocento fu approvato un progetto che autorizzava la demolizione dell’edificio per permettere il passaggio dei binari che conducevano alla nascente stazione di Milano. Si levarono molte proteste da chi avrebbe voluto tutelare il bene architettonico, ormai divenuto celebre grazie al successo dei Promessi Sposi, ma non ci fu niente da fare: la struttura fu lottizzata, parzialmente demolita e parzialmente messa in vendita a privati. Oggigiorno, del lazzaretto sopravvivono solo due elementi. Il primo è, giustappunto, la cappellina centrale, che a fine Ottocento fu restaurata, riportata all’antico splendore e chiusa con l’aggiunta di mura esterne. Fu riconsacrata nel 1884 e, nell’occasione, dedicata a san Carlo Borromeo: oggigiorno, la piccola chiesa è aperta al pubblico dalle 9 alle 12, e nella sua semplicità secondo me merita una visita.
Ma del lazzaretto di Milano sopravvive anche un piccolo tratto in via San Gregorio: comprende cinque stanze, rimaste perfettamente invariate all’esterno (e addirittura circondate da quel fossato, ormai secco, nel quale un tempo scorreva l’acqua). Dal 1970, quei locali ospitano un monastero greco-ortodosso dedicato ai santi Nicola e Ambrogio al Lazzaretto, che un paio d’anni fa godette di una certa popolarità social quando collaborò con alcuni influencer milanesi per organizzare una raccolta fondi a favore dell’Ucraina, all’esplosione della guerra con la Russia. Ironicamente, la mobilitazione social contribuì a rendere celebre tra giovani il metropolita che coordinò la raccolta fondi e che ancor oggi vive all’interno del monastero.
Credeteci o no, ma vi giuro che non sto scherzando: costui si chiama Avondios – cioè Abbondio. Abbiamo don Abbondio dentro al lazzaretto dei Promessi Sposi!







silviatico
Per la verità il monastero era già uscito, dall’indigenza che l’aveva caratterizzato nei secoli, già tra il secondo e il terzo millennio. Grazie al fatto che un’icona si era inopinatamente messa a lacrimare. La cosa richiamò un sacco di curiosi, fedeli, illusi e donatori. I gestori del monastero poterono investire qualche soldo per innovare, ingrandire ed abbellire.
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Lucia Graziano
Sììì, è vero! Io l’avevo visitato negli anni ’10 quando ero all’università, e mi avevano proprio raccontato, infatti, questa storia. Però l’ondata di popolarità di cui avevano goduto quando è scoppiata la guerra in Ucraina penso sia oggettivamente inarrivabile e irripetibile, direi addirittura un unicum per un monastero italiano: non so se avevi seguito la cosa su Instagram, ma era ai limiti del surreale. C’erano tutti gli influencer di Milano a farsi i selfie con padre Avondios 😂 (ma davvero anche influencer importanti eh!). Padre Avondios aveva raggiunto 10.000 follower in pochi giorni!
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silviatico
Mi ricordo che chiamavamo il prete che lo gestiva padre “Tobia”, per la barba lunga e bianca. Non nuotava nell’oro. E le studiava tutte per sbarcare il lunario lui e gli altri preti e suore. Di preciso non so dirti in che anno cominciò a piangere l’icona. Però ricordo benissimo che, grazie alle donazioni ed alla vendita delle icone, ristrutturarono l’edificio, costruirono nel giardinetto interno un’altra cappelletta tutta in legno per le cerimonie, così da liberare spazio interno al monastero per farci locali per nuovi ospiti. Grazie a quelle lacrime quell’anno festeggiarono il Natale ortodosso in pompa magna e pure la Pasqua.
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Lucia Graziano
Da una veloce ricerca su Google, mi esce fuori questa data: 17 aprile 2011. E parrebbe anche che ogni anno, nell’anniversario del primo miracolo, l’icona torni a piangere di nuovo: non sapevo fosse un miracolo ricorrente, quello non ce l’avevano detto!
Che storia 😯
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Anonimo
160 metri quadrati mi pare proprio un valore improbabile! Magari un quadrato di 160 m di lato?
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Lucia Graziano
…mi era rimasto un “mila” nella tastiera: 160 mila metri quadri 😅😅
Grazie mille, correggo!
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Anonimo
che bella questa chiesa, peccato che all’ esterno sia stretta tra quei due palazzoni… E molto bello anche San Nicola, non sapevo nulla, grazie.
elena
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ac-comandante
Me ne sono ricordato solo ora dove avevo già saputo di quell’archiettetura, una chiesa aperta, senza pareti, che permette a chi sta nelle stanze di un edificio che la circonda di vedere la messa senza uscire: il carcere borbonico di Santo Stefano, concepito per evitare di far uscire di cella i detenuti.
Ci sono state anche altre architetture così?
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