La chiesa di santa Dinfna a Geel: là dove i malati mentali vivevano una vita normale – nel pieno Medioevo!

Quella che segue è una storia così inverosimile da farvi dire “sì, vabbeh, e poi? Gli elefanti volano?”.
Reazione che, beninteso, sarebbe anche comprensibile di fronte a un’agiografia medievale infarcita di elementi leggendari, come in effetti è quella di santa Dinfna.

La cosa bizzarra, però, è che la parte più inverosimile di questa storia non risiede nella leggenda, ma nella Storia con la S maiuscola, quella cioè che trova conferma in una molteplicità di fonti archivistiche sparpagliate uniformemente attraverso otto secoli di documentazione. Insomma: la storia di santa Dinfna, molto probabilmente, non è vera; eppure, è incredibilmente vero tutto ciò che crebbe, attraverso i secoli, attorno alla sua figura. E questa è una Storia che davvero merita d’essere raccontata.

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Santa Dinfna, a quanto ci narra la sua Vita, era una fanciulla nata in Irlanda attorno all’anno 620. Suo padre era un certo Damon, che l’agiografo ci presenta come il capoclan della tribù di Airgialla – insomma, un piccolo re locale, ammesso e non concesso che l’affermazione possa avere un qualche reale valore storico.

L’agiografo prosegue nel dettagliare che la madre di Dinfna era una principessa cristiana che aveva cresciuto la figlia alla luce del Vangelo, col beneplacito del marito, che invece era ancora legato all’antica religione e ciò non di meno era comunque un brav’uomo dalla mente aperta. E insomma, l’allegra famigliola visse in serenità e concordia fino al momento in cui tutto andò a schifio: la madre di Dinfna morì quando la ragazzina aveva quattordici anni, lasciando il vedovo nella più totale disperazione. E questa non è nemmeno la parte più tragica della storia.
Il peggio deve ancora venire: perché, purtroppo per Damon, il pover’uomo era circondato da consiglieri politici che avevano evidentemente le idee poco chiare circa le varie fasi di elaborazione del lutto, e cominciarono a premere – e con insistenza – perché il re si risposasse immediatamente. La ragion di stato, ovviamente, aveva i suoi perché (urgeva un erede maschio; la tribù non poteva permettersi di avere un capoclan ripiegato sul suo dolore; e un sacco di altre valide considerazioni sullo stesso genere, difficilmente contestabili sul lato pratico): il fatto è che, con ogni evidenza, quello di cui Damon avrebbe avuto bisogno in quel momento sarebbe stato un buon terapeuta, e non un wedding planner. E poiché il dolore lo aveva trasformato in un pazzo furioso da manicomio aveva chiaramente annebbiato la lucidità dell’uomo, il re vide un giorno affacciarsi alla sua mente il più insano di tutti i pensieri. Se proprio doveva prendere moglie, avrebbe sposato sua figlia: in fin dei conti, la amava così tanto!

La povera Dinfna, comprensibilmente atterrita, cercò inutilmente di far ragionare il padre; qualche tentativo di conversazione infruttuosa le rese dolorosamente chiaro che quello era fuori come un balcone il suo povero babbo era vittima di un male che gli impediva di ragionare lucidamente. E così, non vedendo altra soluzione, la fanciulla chiese qualche giorno per “riflettere” sulla proposta di matrimonio e si preparò a scappare, accompagnata da un sacerdote e da un paio di amici che vollero restare al suo fianco.

Fuggirono di notte, abbandonando l’Irlanda in gran carriera e imbarcandosi sulla prima nave in partenza per il continente. Il veliero attraccò qualche giorno dopo sulle coste del Nord Europa; e fu così che – cammina cammina – i nostri eroi arrivarono a Geel, una piccola cittadina delle Fiandre che li colpì per le attività che lì si svolgevano. Stando all’agiografia, la popolazione di Geel, animata da altruismo e carità cristiana, aveva preso l’abitudine di accogliere nelle sue case quegli individui affetti da malattie mentali che non avevano comportamenti pericolosi ma che non sarebbero stati in grado di vivere autonomamente. E fu probabilmente ripensando a suo padre che santa Dinfna decise di stabilirsi in quel luogo, affascinata dalla carità con cui i malati venivano accolti e accompagnati, nel rispetto del loro dolore.

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E questo sarebbe un finale edificante per la nostra agiografia, se il colpo di scena non fosse in agguato. Il Belgio e l’Irlanda non sono proprio dietro l’angolo, ma in qualche modo Damon riuscì a scoprire qual era la cittadina in cui la figlia aveva preso dimora; e, accecato sempre più dalla sua follia, la raggiunse con l’intenzione di prenderla con la forza. Dinfna fronteggiò suo padre con coraggio, gridandogli che giammai sarebbe stata disposta ad assecondare quella pazzia; e l’uomo, che evidentemente aveva perso del tutto il controllo delle sue azioni, reagì con violenza decapitando la ragazza.

Per casualità, a quel terribile spettacolo assistettero cinque dei malati mentali che soggiornavano nella città Geel. Immaginiamo il panico, lo sconcerto, le grida disperate e l’agitazione con cui quei poveretti (vieppiù traumatizzati dal barbaro omicidio di una donna che avevano cara) andarono a dormire quella notte. Ma la misericordia celeste si rese evidente l’indomani mattina, quando i cinque si risvegliarono completamente sanati dalla loro malattia: era un miracolo in piena regola… certamente, avvenuto per intercessione di quella giovinetta di buon cuore, che gli abitanti di Geel cominciarono da quel momento in poi a chiamare santa martire!

E così finisce la nostra storia, lasciandoci ovviamente la solita domanda che è opportuno porsi nel momento in cui si chiude un libro di agiografie medievali: ovverosia, quanto c’è di vero?

Probabilmente, poco o niente (e verrebbe anche da dire “per fortuna”): la prima Vita di santa Dinfna è stata composta nel 1250, quindi in epoca molto tarda rispetto a quella in cui sarebbe vissuta la diretta interessata. Visto il tenore della sua storia, che sembrerebbe uscita da un feuilleton scandalistico più che da un libro di storia, vien ragionevole pensare che la maggior parte degli episodi narrati siano di contenuto leggendario (e meno male). Quel che è certo, però, è che a Geel i malati mentali cominciarono ad accorrere a frotte – e per valide ragioni, visto che la cittadina era una anomalia totale per l’epoca. Di tutto ciò che narra l’agiografia di Dinfna, l’unico elemento che è certamente vero è anche il più improbabile: nella città di Geel, i malati mentali non venivano rinchiusi in manicomio o comunque isolati dal resto della società. A patto che avessero mostrato di non essere pericolosi per se stessi o per gli altri, venivano assegnati alle cure di “famiglie affidatarie” che, spinte da carità cristiana, li accoglievano sotto il loro tetto.

Incredibile, ma vero. E non solo “vero”: così vero da essere testimoniato da una infinità di fonti: la più antica tra quelle in nostro possesso (al di là delle fonti agiografiche, che lasciano il tempo che trovano) è un documento che risale al 1286 e che riguarda la gestione di una pensione dedicata ai malati di mente che era appena stata costruita a Geel nelle adiacenze della chiesa di san Martino (quella in cui riposavano all’epoca le spoglie di santa Dinfna). L’edificio, inaugurato di recente, era stato affidato alla gestione di due locandieri che venivano coadiuvati dalle loro famiglie per portare avanti la pensione. Altre carte ci informano di come, nel 1349, iniziò a Geel la costruzione di una nuova e più grande chiesa, dedicata proprio a Dinfna: entro la metà del XV, accanto a essa era stata costruita una grande camerata nella quale trovavano dimora provvisoria i folli, gli ossessi e gli indemoniati che si recavano a pregare sulla tomba della martire.

Stando a quanto ci spiegano le fonti d’epoca, gli individui affetti da malattie mentali (e/o da sospette possessioni demoniache, due diagnosi che all’epoca erano spesso usate come sinonimo) affluivano a Geel in gran numero, accompagnati dai loro parenti. Una volta accolti all’interno della chiesa, iniziavano un periodo di preghiere, mortificazioni fisiche e piccoli atti di penitenza della durata di nove giorni: una novena che veniva dichiaratamente compiuta nella speranza di un miracolo risanatore.
Chi, al termine di quei nove giorni, otteneva la grazia richiesta, se ne tornava ovviamente a casa; ma se il miracolo non si compiva, e se la famiglia d’origine sentiva di non essere in grado di farsi carico oltre dell’assistenza del malato, ai parenti veniva offerta la possibilità di lasciare il loro caro a proprio a Geel. In custodia. Sarebbe stato affidato a una delle tante famiglie del posto, che l’avrebbero accolto sotto il loro tetto prendendosene cura come un ospite gradito nella certezza di poter ricevere, in cambio di questo gesto, una ricompensa celeste dopo la morte.

…e anche una piccola ricompensa monetaria in questa vita: ché (giustamente) i parenti del malato si impegnavano a ricompensare le famiglie affidatarie con la corresponsione di una ragionevole quota di denaro. In alternativa, se l’infermo era in grado di svolgere piccoli lavori di manovalanza, era possibile cercare un accomodamento stilando un contratto in base a cui il malato si impegnava a prestare servizio domestico presso la famiglia che lo accoglieva.
E, incredibile ma vero, questo modello di cura proseguì nel tempo, attraversando ininterrotto quell’epoca incerta e piena di scossoni che furono i secoli turbolenti della prima età moderna.

Naturalmente, non era tutto rose e fiori. Per esempio, alcune regolamentazioni risalenti a metà Settecento e volte a elencare le tecniche che era lecito adottare nel caso in cui i malati fossero diventati violenti ci danno conto di strumenti di contenzione abbastanza tradizionali per l’epoca: corde, catene, fasce… insomma, sarebbe eccessivo voler dipingere Geel come un’isola felice in cui malati mentali e cittadini comuni vivevano fianco a fianco in perenne concordia, come in un angolo di paradiso in terra.

Certo è che, se Geel non era il paradiso, era comunque un luogo decisamente meno infernale di quelli che tipicamente accoglievano in passato i malati mentali: a dircelo sono una infinità di fonti, e sono innumerevoli le testimonianze di medici stupiti (e semplici turisti di passaggio) che trovandosi a soggiornare a Geel venivano colpiti dall’efficienza di una sistemazione che, tutto sommato, sembrava loro molto funzionale. E decisamente più efficace della media: in età napoleonica, il prefetto francese insediatosi a capo del dipartimento della Gyle arrivò addirittura a smantellare il manicomio di Bruxelles spedendo a Geel tutti i suoi ospiti, ritenendo che in quella cittadina i pazienti godessero di cure nettamente migliori.

Nel 1850, lo stato belga si fece carico di tutte quelle attività assistenziali che fino ad allora erano state gestite dalla diocesi: con la Legge nazionale sui malati mentali regolarizzò la posizione di Geel definendo l’intera città “istituzione psichiatrica”, da tutelare e sovvenzionare con fondi pubblici. Nel 1875, dettagliato reportage del New York Times commentava in questi termini questo strano esperimento: «è nell’interesse personale degli abitanti accogliere gli infermi, poiché essi sono affidati solamente alle cure delle famiglie di specchiata condotta e con uno stile di vita immacolato. A Geel, una famiglia non è considerata rispettabile se non ha in custodia un malato mentale». Al punto tale che, nelle parole del giornalista, «i figli dei residenti, vivendo fin dalla più tenera infanzia a contatto coi malati mentali, ci si affezionano, non trovano in loro niente di ridicolo, esercitano su di loro una buona influenza con la loro semplice compagnia, e ovviamente non sono minimamente intimoriti. Quando una giovane coppia si sposa, chiede alle autorità di poter avere in affido un malato, come se fosse una sorta di dote».

Incredibile?
Sì (e probabilmente un po’ infiorettato a scopo giornalistico)… eppure vero. Le fonti sono così numerose, concordi e sparpagliate omogeneamente su diversi secoli da rendere la verità inequivocabile: a Geel, i malati mentali godevano davvero della imperdibile occasione di essere inseriti in un contesto sociale il più possibile “normale”. Mentre il resto del mondo ragionava ancora in termini di manicomio!
Disagi, tragedie e incidenti derivanti da questo esperimento sociale? Se ce ne furono, non hanno lasciato traccia: solo nel 1971 abbiamo notizia di alcuni malati che, divenuti violenti, avevano aggredito le loro famiglie ospiti (e alcuni sfortunati gabbiani di passaggio); ma, a quanto pare, si tratterebbe di un caso unico. Sembrerebbe che, per la maggior parte del tempo, l’esperimento di Geel abbia funzionato e portato frutti.

E che ancor oggi funzioni, continuando a portarli: sì, perché ancor oggi esiste a Geel un Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum, che – come si legge sul sito Internet – «mira a un’assistenza equilibrata, con la minor invasività possibile e preferibilmente nell’ambiente domestico del paziente», grazie alla collaborazione di duecento famiglie affidatarie che spalancano le porte ai pazienti che hanno bisogno di ospitalità. E, ancor oggi, lo fanno senza alcun tipo di preparazione formale, al di fuori di qualche incontro preliminare col personale medico per fornire loro una minima infarinatura su ciò che gli aspetta: tutto il resto sono cure amorevoli che pongono la loro efficacia nella buona volontà e nella dedizione alla causa.

Nel 2001, l’OMS citava Geel come caso di studio sottolineando la peculiarità dello scenario in cui è una comunità intera a stringersi attorno al malato, diventandone care-giver: uno scenario più unico che raro. E visto la storia agiografica che ci sta dietro, a qualcuno verrebbe forse anche da dire: “un piccolo miracolo”.


Per approfondire:

– Henck P. J. G. van Bilsen, Lessons to be learned from the oldest community psychiatric service in the world: Geel in Belgium, in The Psychiatric Bulletin 4/2016
– Jackie L. Goldstein e Marc M Godemont, The legend and lessons of Geel, Belgium: a 1500-year-old legend, a 21st-century model, in: Community Ment Health Journal 05/2003
– Gianfranco Aluffi, Dal manicomio alla famiglia. L’inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici (Franco Angeli, 2001)

14 risposte a "La chiesa di santa Dinfna a Geel: là dove i malati mentali vivevano una vita normale – nel pieno Medioevo!"

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  2. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    Ancora una volta, mia Signora, non posso che ringraziarvi, ammirato, per i vostri bellissimi e dotti racconti.

    Attendo, ansioso, i vostri resoconti di agiografie e leggende che, senza di voi, rimarrebbero perse in qualche polveroso archivio, o, database.

    Apprezzo, ogni volta, il vostro umorismo, e la capacità di rendere, con prosa attuale, vicende così antiche.

    Non mi resta che ribadire la mia ammirazione e porgervi i miei più cordiali saluti.

    Gian Carlo Stellini

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  3. Avatar di Umberta Mesina

    Umberta Mesina

    Grazie. Questa è una storia stellare!!! Il fatto che non ne sia nato un metodo farebbe pensare proprio a un miracolo, non è vero? Che peccato. La sola eco che ha lasciato nelle nostre vite è nella fiaba di Pelle-d’asino… Immagino che Perrault conoscesse la leggenda.

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Mi verrebbe da dire che, con più probabilità, Perrault e l’agiografo conoscevano entrambi molte storie di questo tipo. Nel senso che nel Medioevo le fanciulline minacciate da padri incestuosi andavano tantissimo, si trovano in un sacco di storielle/agiografie/storie edificanti e così via dicendo. E andavano molto di moda anche i prodi cavalieri dati in adozione che inavvertitamente finivano a letto con la propria madre biologica senza saperlo. In agiografia è proprio un genere a sé stante, sono le agiografie edipiche del XII secolo. Probabilmente influenzate dal fatto che, in quel periodo, la Chiesa aveva emanato una serie di norme più stringenti per vietare i matrimoni tra consanguinei (ovviamente tra parenti lontani, ma gli agiografi medievali erano notoriamente gente fantasiosa 😂)

      Io ogni tanto mi chiedo cosa diremmo noi se scoprissimo che il parroco a catechismo racconta ai nostri figli storie trucide su padri che minacciano di stuprare le figlie quattordicenni o su milfone che senza saperlo vanno a letto con i loro figli dati in adozione, e mi rispondo che ne scoppierebbe uno scandalo con gente che grida “che società corrotta, ai bei vecchi tempi andati nessuno avrebbe concepito cose così abominevoli e diseducative” 😂

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        1. Avatar di Lucia Graziano

          Lucia Graziano

          Sarebbe interessante vedere se storie di incesto siano presenti anche in altre mitologie oltre a quella greco-romana. Onestamente non ne ho idea e ora come ora non me ne vengono in mente altre (ma non è che sia ferratissima in mitologia pre-cristiana, è senz’altro possibile che ce ne siano molte che non conosco).

          Me lo chiedo, perché a me, così su due piedi, verrebbe da pensare a un tabù universale, legato a una delle cose più innaturali che possano essere concepite. Cioè, non so onestamente se immaginerei una filiazione dalla mitologia greca (sicuramente possibile, eh, le storie erano note): a me più che altro verrebbe proprio da pensare a un tabù che semplicemente riaffiorava di tanto in tanto perché era “roba forte”, faceva presa sull’immaginario popolare.

          Pure la storia di san Giuliano l’Ospitaliere, per dire, con la profezia terrificante del santo che scopre di essere destinato a uccidere i suoi stessi genitori. Questo non è un incesto, è un parricidio, ma per dire: a costo di sembrare banale, io non mi stupirei se i narratori (e gli agiografi) avessero inserito questo elemento nelle loro storie perché semplicemente era roba potente capace di fare boom di ascolti 😅

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  4. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Disagi, tragedie e incidenti derivanti da questo esperimento sociale? Se ce ne furono, non hanno lasciato traccia: solo nel 1971 abbiamo notizia di alcuni malati che, divenuti violenti, avevano aggredito le loro famiglie ospiti (e alcuni sfortunati gabbiani di passaggio); ma, a quanto pare, si tratterebbe di un caso unico.

    Ecco un’altra prova che la pericolosità del malato di mente è rara, i “pazzi pericolosi” sono solo quelli finiti sugli organi di informazione (alla faccia di MS e GM, che vorrebbero riaprire i manicomi); oggi nessuno psichiatra sostiene più che qualunque malato di mente sia comunque pericoloso e che quelli che lo sono si possono riconoscere tali solo dopo che abbiano fatto qualcosa. Men che meno che sia possibile definire “pericoloso” uno dopo una visita di cinque minuti (come succedeva dopo il 1978 negli ospedali militari di Udine, Torino e Firenze che, fino al 1991, denunciavano alle questure competenti tutti i riformati per problemi psichici come pericolosi).

    A riprova: alla vigilia dell’introduzione della legge 180/78 c’erano circa 50000 detenuti negli OPP, mentre negli OPG ce n’erano solo circa 1500, che almeno avevano fatto qualcosa (non tutti: c’erano anche quelli che avevano dato di matto in galera dopo aver commesso il reato, subito il processo e ricevuto la condanna da sani).

    Era vera la storia che nel Medioevo cristiano i “matti” venivano spesso e volentieri bruciati sul rogo col beneplacito della Chiesa perchè, pensando la presenza del diavolo, per allontanarlo dovevano distruggere il corpo guasto? Pare invece che nel mondo islamico l’approccio alla psichiatria abbia fatto la direzione inversa, sorprendentemente umana nel nostro Medioevo, crudele fino all’eliminazione fisica oggi.

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      “Era vera la storia che nel Medioevo cristiano i “matti” venivano spesso e volentieri bruciati sul rogo col beneplacito della Chiesa perchè, pensando la presenza del diavolo, per allontanarlo dovevano distruggere il corpo guasto?”

      No, assolutamente no 🙂

      Casualmente ne parlavo con un amico pochi giorni fa, e lui mi faceva la domanda speculare: “è vero che nel Medioevo cristiano i posseduti venivano bruciati al rogo?”. Ecco, no: se si sospettava una possessione demoniaca (e sicuramente capitava molto di frequente che la si sospettasse, di fronte a malattie mentali o a certi disturbi neurologici come l’epilessia) la strada che veniva intrapresa era quella di un esorcismo. Ma l’idea di base era quella di cacciar via il demone cattivo dal corpo di quel poveretto che (fino a prova contraria) non aveva fatto niente per meritarsi quella sciagura ed era solamente la vittima della situazione.

      Nel Medioevo non esisteva ancora un rituale unico per l’esorcismo adottato in maniera universale da tutta la Chiesa cattolica (è stato stilato più avanti), quindi i singoli esorcisti potevano anche affidarsi al fai-da-te e non mi sentirei di escludere del tutto l’eventualità che qualche esorcista un po’ troppo energico abbia finito con l’uccidere accidentalmente qualche malcapitato (non mi vengono in mente singoli casi in cui questo sia successo per davvero, ma per esempio so che alcune volte si cercava di esorcizzare i posseduti buttandoli nell’acqua gelata, per dire. La morte del posseduto non era l’obiettivo, ma magari ogni tanto la tragedia capitava). Ma la morte sul rogo per allontanare il diavolo: no, quello proprio no. Anzi, sarebbe stata addirittura una resa da parte della Chiesa, come a dire “non siamo capaci di prevalere sul demonio, a questo punto non ci resta che far fuori il corpo in cui s’è installato”.

      Sul rogo, semmai, venivano bruciati gli eretici e le streghe (o per meglio dire i loro corpi, ché quasi sempre la vittima veniva strangolata prima che la pira venisse accesa), ma in quel caso la funzione era più che altro simbolica, a sottolineare la gravità della colpa commessa. Anche nel caso delle streghe, per dire, non è che fosse il rogo in sé a risolvere il problema delle loro malefatte, ecco 🙂

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