La strana storia di san Barbato, quello che eradicò il noce delle streghe di Benevento

Nel tempo in cui Grimoaldo teneva le redini del regno dei Longobardi e suo figlio Romualdo comandava sulle genti del Sannio, un insigne sacerdote di nome Barbato divenne famoso a Benevento.

Così si legge nella Vita Barbati, una breve operetta agiografica composta attorno alla metà del IX secolo e incentrata giustappunto sulla vita di Barbato, vescovo beneventano morto il 19 febbraio 682. L’opera è edita per i tipi di Carocci in un’edizione critica a cura di Marina Montesano, che molti dei miei lettori potrebbero conoscere per aver pubblicato eccellenti saggi storici sul tema della stregoneria; e, a questo punto, potrebbe anche venir da chiedersi per quale motivo una professionista coi suoi interessi culturali possa decidere di dedicarsi tutt’a un tratto alle agiografie di un oscuro vescovo beneventano. Detto in soldoni: che c’azzecca san Barbato con il core business della professoressa Montesano?

Eh, c’azzecca: come scoprirà chi, tra di voi, vorrà proseguire con me la lettura della sua agiografia. Dalla quale apprendiamo (o apprenderemmo) infatti che

in quei tempi, i Longobardi – sebbene formalmente battezzati – vivevano come bestie osservando antichi riti pagani, e dinanzi all’effige di un animale che il popolo chiamava “vipera” si producevano in quegli inchini che avrebbero dovuto offrire invece al loro Creatore. Come se non bastasse, non lontano dalle mura di Benevento ponevano in essere, in certi loro giorni sacri, dei riti pagani attorno a un albero al quale appendevano delle pelli di animale. Tutti quelli che erano lì riuniti, dando le spalle all’albero, gettavano al galoppo i destrieri e si lanciavano in una cavalcata sfrenata. A un certo punto, facevano fare dietrofront ai cavalli e cercavano di afferrare con le mani i pezzi di pelle che erano appesi all’albero, per mangiarne piccoli pezzi, secondo il loro rito empio.

Verrebbe la tentazione di dire che questa è la prima fonte a parlare (ancorché nei toni leggendari spesso tipici dell’agiografia) del famoso noce delle streghe di Benevento. All’atto pratico, bisognerà necessariamente puntualizzare che la Vita Barbati parla genericamente d’un albero (non ne specifica la specie) e che le corse di cavalli dei cavalieri longobardi hanno ben poco a che spartire con i sabba delle streghe dell’immaginario popolare. Ma il dettaglio agiografico d’un albero beneventano sotto il quale gli infedeli compivano riti paganeggianti è sicuramente curioso, alla luce delle leggende successive; e meriterà dunque d’essere esplorato un altro po’. Per esempio: come reagisce il buon Barbato di fronte a questi allarmanti rigurgiti di paganesimo a casa sua?

Prevedibilmente,

il sant’uomo non cessava di far presente che non c’è speranza di salvezza per chi segue due padroni, e che in alcun modo possono essere annoverati tra i figli di Dio coloro i quali si danno volontariamente all’angelo ribelle

cioè a Satana: ché se ti dici cristiano ma poi continui a praticare gli strani riti della religione del tuo trisavolo, evidentemente la cosa ti pone in una posizione un tantinello irregolare agli occhi della Chiesa.

E insomma, Barbato

predicava incessantemente queste cose, correndo di qua e di là, perché desiderava purificare costoro dai loro peccati prima che giungesse per loro il momento di presentarsi al cospetto del Creatore. Ma questi, accecati da un’ostinazione viscerale, non pensavano ad altro che alle loro usanze, e dicevano fosse giusto mantenere in vita le tradizioni dei loro avi, che nominavano a uno a uno esaltandone i pregi militareschi

(e l’agiografia non lo dice esplicitamente, ma verrebbe a questo punto da pensare che tutto l’ambaradan che si svolgeva sotto al noce, e di fronte a un pubblico del resto esclusivamente maschile, avesse proprio il pregio di accrescere quelle stesse abilità militari che i partecipanti attribuivano ai loro antenati).

Certo è che Barbato non è disposto a tollerare questo vitello d’oro in formato arboreo; e certo è che i Beneventani sono ancora men disposti a piegarsi ai rimbrotti del sacerdote. Iddio prova anche a offrire un aiuto al suo fedele servitore, investendolo di strabilianti abilità taumaturgiche che, almeno sulla carta, avrebbero dovuto renderlo più interessante agli occhi di questi villici alla perenne ricerca di miracoli; ma neanche questo riesce a smuovere davvero gli animi dei popolani, ferocemente ancorati alla religione avita.

Ma ecco d’un tratto la svolta di trama: ché se (come l’adagio ben insegna) non ci sono atei su un areo in avaria, anche i pagani tendono a scarseggiare nel mezzo di una violenta guerra, che gli alberi sacri, le effigi serpentine e le altre divinità pagane non sembrano in alcun modo in grado di frenare. E Barbato ebbe gioco facile nello sfruttare a suo vantaggio l’assedio che, nel 663, vide la città di Benevento accerchiata da un esercito bizantino in soverchiante numero.

I poveri beneventani

si trovavano circondati da ogni parte, tanto che non potevano uscire fuori dalle mura. E poiché erano costantemente vittima di violentissimi attacchi e non c’era più speranza di salvezza, convinti del fatto che tutti sarebbero stati presi prigionieri e spartiti tra i predoni, disperati, decisero di aprire le porte della città e uscire fuori, in modo da poter almeno morire combattendo

e non tanto per un’estrema manifestazione eroica di amor patrio, ma proprio per la banale considerazione pratica per cui una morte rapida sarebbe stata preferibile ad anni interi di schiavitù. Erano alla frutta, insomma, poracci.

Ovviamente, ogni buon santo sa bene che circostanze come questa sono una manna celeste per le conversioni: e

prontamente il beatissimo Barbato intervenne dicendo «se volete la salvezza, figli miei, convertitevi al Creatore: egli infatti può far cessare le guerre […]: promettetegli fedeltà incondizionata, e lui vi libererà dagli aggressori».

Messa così, sembrava una buona idea, se non altro perché nessuno ne aveva di migliori, e il principe Romualdo si fece avanti assumendo personalmente l’impegno di rigettare tutte le tradizioni dei suoi antenati e di guidare i suoi sudditi verso la vera fede, se davvero il dio di Barbato fosse sceso in loro soccorso.

Miracolo del cielo!, è proprio il caso di dirlo,

il giorno seguente, colui che aveva ordinato di distruggere Benevento e di massacrarne gli abitanti a uno a uno, e che non era stato smosso neppure da immense quantità d’oro e d’argento e enormi forzieri pieni di pietre preziose, abbandonò Benevento dopo aver chiesto come ricompensa solo la sorella di Romualdo

(poraccia).

Il dio di Barbato aveva fatto quanto aveva promesso, e i Beneventani non erano così sciocchi da venir meno alla parola data: sicché nessuno si lamentò quando

il beatissimo prese una scure, corse al luogo stabilito e con le sue mani tagliò l’albero nefando sotto il quale i Longobardi avevano praticato i loro riti, scavando per dissotterrarne persino le radici, e ribaltò la terra tutt’intorno di modo che non si potesse trovare più nemmeno una traccia del punto esatto in cui era cresciuto.

Dopodiché i Beneventani lo elessero loro vescovo a furor di popolo, inondandolo di gratitudine e di onori.

Tutto è bene quel che finisce bene?

In realtà no, perché il principe Romualdo (quello che per primo s’era preso l’impegno d’abiurare alla vecchia religione e assoggettarsi a quella cristiana) continuò a conservare in casa sua l’effige serpentina della vipera dorata che era stata anticamente venerata dai Longobardi… e che, in gran segreto, continuava a essere venerata da Romualdo e da un manipolo di suoi fedelissimi. Fu la moglie di lui, Teodorata, a denunciare al vescovo quanto stava accadendo, indignata per l’accaduto e fors’anche preoccupata dalla possibilità di ripercussioni celesti su quella famiglia di infedeli.

Barbato non perse tempo, ordinando a Teodorata di portargli quell’effige affinché potesse essere distrutta: e così la donna fece, profittando di un viaggio del marito per consegnare la vipera d’oro al suo buon vescovo, che provvide a farla fondere e a trasformarla in un calice da altare.

Proprio a quel calice si accostò Romualdo, la domenica di Pasqua, per una comunione blasfema perché insincera. E quando san Barbato lo mise a parte della cosa, Romualdo non la prese bene:

«se mia moglie ha davvero fatto una cosa del genere, le taglierò la testa!».

E non aveva l’aria di essere un’estremizzazione, ché Teodorata stessa aveva pianto lacrime amarissime quando il santo vescovo le aveva ingiunto di intervenire rubando l’effige sacra: anche lei temeva che il marito – evidentemente un manesco – la uccidesse di botte, se avesse scoperto l’inganno.

Ma il Buon Dio non abbandona mai le sue amate figlie, e così neppure fanno i suoi delegati:

Barbato, guardando Romualdo, gli disse allora: «poiché sei un vero servo di Satana, lo diventerai allora in tutti i sensi». E in quel momento il demonio entrò in lui, cominciando a tormentarlo crudelmente. Barbato a quel punto aggiunse: «e ciò sia monito del tuo patto col diavolo, per tutte le genti longobarde. Per generazioni e generazioni, non vi sarà un tempo in cui almeno uno dei tuoi discendenti non sia tormentato dal demonio».

Non è noto se e in che misura la povera Teodorata gradì questa premura, ché un marito manesco aspirante omicida posseduto dal dimonio che trasmette la stessa tara pure ai suoi figli non mi sembra esattamente la soluzione più brillante tra quella che si potessero tirar fuori dal cilindro, a voler semplificare un po’ la vita di ‘sta povera donna… ma vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, suppongo, e più non dimandiamo.

Più che altro, focalizziamoci sul fatto che

non si rammenta con esattezza quante generazioni furono così gravate; sino a oggi, tra tutti quelli che discendono da Romualdo, ce n’è sempre stato qualcuno invasato da uno spirito maligno.

E possiamo solo sperare che, col tempo, questa santa maledizione sia andata a esaurimento. Sennò, abbiamo un problema.

***

E su queste note finisce la storiella di san Barbato, che potrebbe di per sé già costituire una lettura sufficientemente interessante per il pubblico di questo blog. Ma data la particolarità della vicenda, verrà la pena di aggiungere qualche postilla in calce. Tipo: ma ‘sto nefando albero venerato dai perfidi pagani, avrà qualche attinenza con il famoso noce di Benevento sotto cui le streghe della leggenda si riunivano per i loro sabba?

Per certi versi, sì. Anche se è molto molto molto improbabile (e, soprattutto, non documentato dalle fonti storiche) che l’antico culto pagano praticato ai tempi di san Barbato abbia potuto sopravvivere nel nascondimento e viaggiare sottotraccia attraverso i secoli per poi riemergere di botto (o essere scoperto) in età moderna, suscitando l’allarme delle autorità locali.

Sarebbe uno scenario sicuramente molto suggestivo, ma non c’è una singola fonte che possa supportare questa ricostruzione. Sicché, in casi come questi, lo storico si trova necessariamente costretto a rinunciare ai suoi voli di fantasia per attenersi alla spiegazione più economica e più banale: quella cioè per cui, in età moderna, la Chiesa locale riscoprì per davvero delle trazioni antiche e ormai dimenticate… ma sto parlando delle tradizioni agiografiche relative al personaggio di san Barbato. Di cui, sul finire del XVI secolo, fu scritta una nuova Vita a firma di Ovidio de Luciis, monaco della congregazione di Montevergine.

Le vicende di questo santo sono senz’altro appassionanti, e infatti appassionarono moltissimo Pietro Piperno, un medico beneventano che, nel 1635, diede alle stampe un libro dedicato proprio alla Nuce maga Beneventana (cinque anni più tardi tradotto in volgare come Della superstiziosa noce magica di Benevento). Riagganciandosi alla tradizione agiografica legata al vescovo, l’autore si soffermava a lungo sulle vicende dell’albero beneventano, ormai diventato un noce a motivo di quella che Maria Montesano ci spiega sostanzialmente essere una questione fonetica. Fin dall’età classica, era diffusa la convinzione che gli alberi di noce fossero “cattivi” (e, per esempio, potessero avere effetti deleteri sulla salute di chi si trovava costretto a trascorrere troppo tempo in loro prossimità, per dirne una): tutto causa della somiglianza tra la parola noce e il verbo nocere, che faceva presagire sinistre affinità tra le due cose.

Pietro Piperno credeva ciecamente a quanto riportato nell’agiografia, e (assai piacevolmente, con toni accattivanti che invogliavano alla lettura) scelse di rielaborare la materia lasciando intendere che, con buona pace di san Barbato, l’intervento del vescovo non fosse riuscito a eradicare definitivamente l’empio culto. Tecnicamente, san Barbato non era stato capace di eradicare definitivamente manco l’albero: «vi è tradizione antica», scrive infatti Piperno, «che questa superstitiosa Noce prima di essere sradicata, come si è detto, verdeggiava con perpetue frondi tutto l’anno», sicché evidentemente non era un albero normale. E infatti, «ne’ tempi presenti per le confessioni di molte streghe ne’ Tribunali dell’Inquisitione si hà, che in detto superstitioso luogo apparischi di notte uno arbore di Noce grandissimo», che tra l’altro continua a essere «verdeggiante anco di mezo inverno». Così, a sfregio.

Insomma: tutto era, il noce di Benevento, tranne che un albero normale. E l’umanissimo intervento di Barbato, ingenuamente portato avanti a colpi d’ascia, non era stato sufficiente a eliminarlo completamente dalla faccia della Storia: ché ‘sto albero maledetto, ancorché sradicato, continuava a materializzarsi alla bisogna per intervento di Satana in persona, diventando scenario degli iniqui festini più in del momento. Cioè, ovviamente, i sabba delle streghe: ché le mode cambiano e anche i servi di Satana ci tengono a stare al passo con i tempi – e la stregoneria era evidentemente diventata la loro attività d’elezione in quel periodo.

È dunque questo il modo in cui nasce la leggenda dell’albero delle streghe di Benevento?
Sostanzialmente sì, anche se ovviamente si potrebbero aggiungere molti altri dettagli per integrare a dovere questa Storia. Ma per il momento lasciamola così: ché san Barbato merita ben di stare al centro dell’attenzione, oggi. È anche il giorno della sua festa!


Per approfondire:

  • Antonio Oliva, Le streghe di Benevento. La leggenda della “superstitiosa noce” (Caravaggio Editore, 2015)
  • Marina Montesano, Andare per i luoghi della stregoneria (Il Mulino, 2024)
  • Vita di Barbato, a cura di Marina Montesano (Carocci, 1994). La traduzione dal Latino è mia (per quanto anche Marina Montesano ne abbia fatta una), ed è fedele ma, a tratti, un po’ meno letterale della sua

3 risposte a "La strana storia di san Barbato, quello che eradicò il noce delle streghe di Benevento"

  1. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    Bentornata Lucia!

    Beh, io leggo, nell’intervento di Pietro Piperno, quasi un tentativo di smorzare la portata enfatica del successo di San Barbato.

    Lasciando stare l’identificazione dell’albero col noce (che come hai detto è fattibile in virtù di vari collegamenti) mi viene da essere maligno: Piperno infatti è un nome ebraico…non è che magari la famiglia del dottore gli aveva continuato a trasmettere una visione del divino molto “ebraica” (ovviamente tenendosi sul filo tra l’eresia e la personale filosofia di vita), dove Dio ha con se il tentatore Satana e non un mero Belzebù, un tentatore e non un oppositore? Che quindi non può (e forse nemmeno ritiene giusto) sconfiggere?

    Non so di preciso come si regola la teologia ebraica su questo, che ne pensi?

    PS: presto ho la prova scritta del concorso, speriamo in bene!

    "Mi piace"

      1. Avatar di Lucia Graziano

        Lucia Graziano

        Grazie per il bentornata (disgrazie familiari permettendo, stavolta spero di essere tornata per davvero 😅) e un grosso in bocca al lupo per il tuo concorso!

        Per san Barbato e i retroscena della sua agiografia romanzata: beh, oddio, da quello che ho scritto nel post potrebbe in effetti anche sembrare, ma a leggere l’operetta del 1635 nella sua interezza emergono anche altri temi che qui ho omesso per non farla troppo lunga, perché con san Barbato c’entrano solo marginalmente (magari potrebbe essere spunto per un altro post). Per esempio, l’autore crede fortemente all’esistenza delle streghe e usa la vita di san Barbato per “dimostrare” che fin dalle epoche remote succedevano cose oscure e losche a Benevento (quindi le autorità farebbero bene a indagare, sottinteso). Faceva anche il nome di una famiglia beneventana (quella dei Vipera) che secondo lui discendeva dagli antichi veneratori dell’effige a forma di serpente (più che altro a sottolineare che la leggenda agiografica era senz’altro vera; non è che ce l’avesse con ‘sti Vipera in particolare, poveracci, anzi a uno di loro dedica anche il libro).

        Insomma, penso che il suo intento non fosse tanto quello di “smitizzare” san Barbato, quanto più quello di sottolineare che le cose che si dicono sulle streghe sono SENZ’ALTRO VERE, c’è addirittura un testo del IX secolo a darne testimonianza!

        "Mi piace"

Scrivi una risposta a Anonimo Cancella risposta