Bonifacio Roero e la Madonna del Rocciamelone: la vera storia del primo alpinista della Storia

I Torinesi conoscono bene quel profilo che, nelle giornate di cielo terso, si alza, slanciato e bianco, oltre i tetti e i campanili. È quello del Rocciamelone, che con i suoi 3538 metri domina le Alpi Graie, ponendosi a confine tra la Val di Susa e la Val di Viù. Oggi sappiamo che non è lui a essere la cima più alta delle Alpi, ma per molti secoli lo si credette tale, e per lungo tempo si mormorò anche che il Rocciamelone fosse una montagna proibita, ricolma di tesori irraggiungibili e custodita da spiriti che non lasciavano scampo agli incauti esploratori che si fossero avventurati su quelle cime.

E proprio su questo dettaglio dovremmo riflettere, per comprendere appieno quanto incredibilmente coraggiosa dovette essere, per quei tempi, la decisione dell’uomo che, per primo, scelse di sfidare quel tabù e di salire fin sulla cima della montagna. Non per dimostrare quanto valeva, e non per impossessarsi del tesoro mitologico, ma per compiacere la Madonna. Il nome di quell’uomo era Bonifacio, e questa è la sua storia (vera).

Il suo nome era Bonifacio, dicevamo: Bonifacio Roero, per la precisione. Va specificato: ché, per un errore dei copisti, molte cronache medievali l’hanno erroneamente ribattezzato come Bonifacio Rotario d’Asti. Ma no: Bonifacio apparteneva alla casata dei Roero d’Asti, una famiglia appartenente alla piccola nobiltà locale che, nel corso dei secoli, aveva costruito un discreto gruzzolo grazie alle sue attività mercantili. Poco o nulla sappiamo della sua vita privata, prima dell’impresa che lo fece passare alla storia: certo è che Bonifacio si trovò a vivere ad Asti in un periodo a dir poco infelice per la cittadina, che in quegli anni era contesa tra i Visconti di Milano e i Marchesi del Monferrato. Nel 1348, molti ghibellini furono esiliati da Asti, e gli storici non disdegnano di ipotizzare che sia stato proprio questo il fattaccio che spinse Bonifacio a fare un voto alla Madonna: ti prego, fammi tornare a casa e io compirò per te un’impresa che nessuno ha mai tentato. Ai suoi contemporanei, decisamente più fantasiosi, piacque piuttosto immaginare un’avventurosa spedizione in Terra Santa al seguito dei Crociati, con tanto di rapimento da parte dei perfidi Turchi: messo di fronte alla scelta se morire o convertirsi all’Islam, Bonifacio si sarebbe appunto affidato alla Vergine… ed eccolo miracolosamente libero.

Quale sia la vera storia, probabilmente non lo sapremo mai (e ovviamente non è da scartare la possibilità che Bonifacio abbia fatto un voto alla Madonna per ragioni private sue: che ne so, un figlio malato che minacciava di non passare la notte o altre disgrazie di quel genere). Certo è che, nell’aprile del 1358, Bonifacio e alcuni membri della sua famiglia si recavano agli uffici comunali di Bruges, nelle Fiandre, per domandare (e ottenere) un permesso di soggiorno che consentisse loro di soggiornare per qualche tempo in città. Non erano lì per turismo, e nemmeno per un viaggio di lavoro: l’unico scopo del loro viaggio era quello di commissionare un’opera a uno degli artisti di Bruges, specializzato cioè in quell’arte fiamminga che all’epoca andava per la maggiore.

Trovato un artista che faceva al caso suo, Bonifacio impiegò una somma di denaro che non possiamo quantificare esattamente, ma che immaginiamo essere considerevole, per commissionare quello che lui, dichiaratamente, considerava un ex voto: un piccolo trittico in bronzo dorato, inciso a bulino, creato con una raffinatezza e un’attenzione al dettaglio che gli storici dell’arte definiscono notevolissime. Nella parte centrale, vediamo la Madonna seduta su una cassapanca, con il bambinello in braccio che le accarezza il volto: sugli sportelli laterali, san Giorgio che uccide il drago e un santo non meglio identificato (plausibilmente, il Battista) che presenta alla Vergine il committente dell’ex voto. Alla base, una dedica in latino: Qui mi portò Bonifacio Roero, cittadino di Asti, in onore di Nostro Signore Gesù Cristo e della Beata Maria Vergine, nell’anno del Signore 1358, nel primo giorno di settembre.

E qui si entra nel vivo della nostra storia.

Trittico del Rocciamelone. Madonna con Bambino, San Giorgio, San Giovanni Battista e Bonifacio Rotario, dal Catalogo Generale dei Beni Culturali

Immaginiamo Bonifacio, di ritorno in patria dopo il suo breve soggiorno a Bruges, a guardare il Rocciamelone stagliarsi nel cielo, in quell’estate 1358: un macigno di pietra e ghiaccio che nessuno aveva mai scalato per intero, né tantomeno mappato a favore dei posteri. Eppure, dentro di lui, era già stata presa quella decisione folle e visionaria: primo al mondo, avrebbe scalato il Rocciamelone per porre il suo ex voto sulla cima di quella montagna impossibile e indomabile.

Tenta per la prima volta la sua scalata negli ultimi giorni dell’agosto 1358, accompagnato da una piccola ciurma di amici e servitori. Con suo grande disappunto, si vede costretto ad arrestarsi a quota 2854 metri: troppo ripida, la scalata che gli si prospetta, e così roccioso da non avere appigli il costone che gli sta d’innanzi. Il buonsenso e l’istinto di autoconservazione gli impongono di ritornare a valle e di tentare nuovamente la scalata su un altro tratto della montagna, che gli sembra più percorribile. La decisione viene presa da Bonifacio e dai suoi compagni mentre sono accampati in un piccolo bivacco sul ciglio del precipizio: in quello stesso punto, secondo la tradizione, fu costruito nei decenni successivi un piccolo rifugio per tutti gli altri avventurosi che avessero voluto ripetere la stessa impresa. Il rifugio esiste ancora, a tutt’oggi operativo: è la Ca’ d’Asti, che fin dal nome richiama il nobile astigiano di cui stiamo seguendo le prodezze. In base alle conoscenze attuali, gli storici sono moderatamente certi di poterlo definire a buon diritto “il primo rifugio alpino della storia”.

La cappella edificata presso il rifugio Ca’ d’Asti

Qualche giorno in città, per riprendere le forze e per orchestrare una spedizione che questa volta è più organizzata, grazie alle conoscenze che gli esploratori avevano potuto raccogliere nel loro primo tentativo. La salita è lenta, faticosa, piena di ostacoli: non ci sono tracce o sentieri da seguire, e più si sale più ci si domanda se la determinazione non si stia forse trasformando in incoscienza. Bonifacio porta sulle sue spalle il trittico fiammingo, tutto imballato per evitare che si danneggi: è alto mezzo metro e pesa sette chili, non esattamente un carico da poco. Le ore passano, i muscoli bruciano e ogni passo è una conquista. E poi, finalmente, la piccola spedizione raggiunge la cima.

Sulla vetta, a 3538 metri, Bonifacio e i suoi provvedono a scavare a suon di picconate una piccola nicchia nella roccia: è la prima volta che una vetta alpina viene conquistata e abitata da un segno cristiano.

Da quel momento in poi, il Rocciamelone diventa il centro di una devozione popolare che ogni anno esplodeva (anzi: esplode) il 5 agosto, nella festa della Madonna della Neve. Fedeli ardimentosi (e, oggigiorno, semplici appassionati di escursionismo) si radunavano da ogni dove per una lunga marcia verso la vetta che si svolgeva nell’arco di due giorni, con tappa notturna al rifugio Ca d’Asti che si trasformava, per quel giorno all’anno, in un vero e proprio ostello per pellegrini. Sulla vetta, veniva celebrata una messa e speciali pagnotte benedette venivano distribuite ai pellegrini affinché le riportassero a casa e le condividessero con chi avrebbe voluto, ma non potuto, unirsi a tale impresa. E di questo pellegrinaggio, affiorano di tanto in tanto delle tracce archeologiche: come per esempio la forchetta del XIV-XV secolo che, non troppo tempo fa, fu rinvenuta a quota 3200 metri: chissà chi l’aveva persa, e chissà se il malcapitato riuscì a gustarsi comunque il suo pasto, una volta arrivato sulla cima.

***

Oggigiorno, (Bonifacio, secondo me, si rivolta nella tomba), il trittico della Madonna non è più sulla vetta del monte. Il 5 agosto 1673, un certo Giacomo Gagnor, soprannominato nei documenti d’epoca con l’eloquente appellativo di “il matto di Novaretto”, pensò bene di fermarsi un altro po’ sulla vetta della montagna, mentre gli altri pellegrini cominciavano la discesa… e di portarsi dietro il trittico. Così. Poco tempo dopo, provvide a recapitarlo al castello di Rivoli come suo dono personale per il duca di Savoia, in modo tale che la Corte potesse ammirare un’opera d’arte così carina senza doversi sobbarcare l’ascesa fin sul monte. Col cuore, verrebbe da definirlo uno spunto in faccia al povero Bonifacio e a tutti i suoi sforzi; col cervello, bisognerà onestamente ammettere che se il trittico della Madonna è giunto fino a noi e in perfetto stato di conversazione, lo dobbiamo probabilmente al furto sacro del matto di Novaretto.

Oggi è possibile ammirarlo presso il museo diocesano di Susa.
Assieme alla forchetta perduta ad alta quota dallo sfortunato pellegrino.
E (mi perdoneranno gli amanti dell’arte, ché il trittico fiammingo è oggettivamente d’una raffinatezza unica), ma, se mi chiedessero “qual è il tuo preferito tra i due reperti? Qual è quello che ti ‘parla’ di più?”… beh: onestamente, non saprei che scegliere.


Per approfondire, tra i mille libri a disposizione: Mauro Minola, Il Rocciamelone in Valle di Susa. Santuario mariano più alto d’Europa (3538m) (Susalibri, 2016)
Immagine di copertina: Roberto Ferrari, Rocciamelone. Monte Rocciamelone (3538 m) da Cima Fraiteve (2689 m) (Flickr)

Una risposta a "Bonifacio Roero e la Madonna del Rocciamelone: la vera storia del primo alpinista della Storia"

  1. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Oggi sappiamo che non è lui a essere la cima più alta delle Alpi, ma per molti secoli lo si credette tale, e per lungo tempo si mormorò anche che il Rocciamelone fosse una montagna proibita, ricolma di tesori irraggiungibili e custodita da spiriti che non lasciavano scampo agli incauti esploratori che si fossero avventurati su quelle cime.

    Una storia simile gira anche sul monte Tricorno (oggi Triglav, in Slovenia): secondo questa, questi tesori sarebbero stati vigilati da una “camozza” (una capra di montagna) dalle corna d’oro: chi l’avesse uccisa avrebbe preso il tesoro nascosto nella montagna. Però doveva farlo con un unico colpo, altrimenti dal sangue delle sue ferite sarebbe nato, anche sulla neve, un fiore rosso di cui la capra si sarebbe cibata e che l’avrebbe guarita, e allora per l’aspirante acquisitore del tesoro non si sarebbe stato scampo.

    Un giorno un cacciatore ottenne, non è specificato da chi, più o meno anche la storia degli spiriti è comune, la versione più comune li descrive di aspetto femminile, di poter cacciare nell’area a condizione di non tentare di ucidere la camozza. Solo che (va sempre a finire così…) questo si lascia convincere dalla fidanzata ad uccidere la camozza per impossessarsi del tesoro. Ovviamente la missione fallisce e il cacciatore cade in un precipizio.

    Gli spiriti di guardia, visto il tradimento della loro fiducia, fanno perdere a quella camozza (di capre in zona secoli fa ce n’erano parecchie) il suo potere e il suo aspetto, dove è avvenuto l’agguato a tradimento all’animale sarebbe cresciuto un pino e chi lo avesse poi tagliato, se ne avesse fatta una culla, avrebbe attribuito il tesoro al bimbo che per primo vi sarebbe stato collocato.

    La fiaba in questione ormai non circola quasi più (penso che la cultura della ex-Jugoslavia non la lasciasse circolare), mio padre l’ha trovata in un vecchio libretto, che non sono più riuscito a trovare dopo la di lui morte, ma sicuramente è posteriore all’apparizione delle armi da fuoco (tardo XV secolo o primo XVI), dato che è univoco che il cacciatore adoperi un fucile.

    Sorprendente che certi luoghi così distanti fra loro evochino leggende simili.

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