La madre di Esmeralda non è che l’esempio più famoso: la letteratura è piena di questi strani personaggi femminili, dal fanatismo francamente un po’ inquietante, che spuntano fuori di tanto in tanto nei romanzi storici dell’800. “La reclusa”: gli autori ce la presentano così, lasciandoci però a crogiolarci nel dubbio: chi e che cosa è esattamente, una reclusa medievale?
Un’eremita? Una beghina? Una suora di clausura?
A dire il vero, è un po’ dell’una e un po’ dell’altra – avendo cura, però, di essere anche un qualcosa di profondamente diverso ancora.
Giusto per essere sicuri di capirci, quando parliamo di “recluse” parliamo di donne che, a causa di un particolare afflato religioso, prendono la decisione di trascorrere un periodo di tempo più o meno lungo (che in alcuni casi può anche coincidere con la loro intera vita) all’interno di un “reclusorio”. Il “reclusorio” è uno spazio dalle dimensioni anguste, molto più simile alla cella di un carcere che alla celletta di un monastero, isolato dal resto mondo mediante una grata o un letterale muro, nel quale viene lasciata solamente una fessura per consentire il passaggio dell’aria e dei viveri.
Le recluse, dunque, sono esistite davvero: lungi dall’essere l’invenzione scabrosa di un romanziere ottocentesco dalla fantasia malata, sono state un fenomeno reale e anche numericamente significativo. Messo in chiaro ciò, allo storico della Chiesa resta da rispondere alla domanda più ovvia: ma chi e perché decide di farsi murare vivo e di finire i suoi anni in tale modo?
Alcuni storici amano parlare di reclusione come di una sorta di eremitismo hardcore.
Altri sostengono che, semmai, è l’esatto opposto: gli eremiti se ne vanno in un eremo e scompaiono nel nulla per allontanarsi dal mondo. Ma ben difficilmente potrebbe essere definita “eremita” una tizia che si fa murare viva in una stanzetta che si affaccia sulla piazza del paese: quella non è una donna in fuga dal mondo; anzi, è una donna che, nel bel mezzo del mondo, ci si è letteralmente incarcerata.
Inoltre: se gli eremiti tendono a fuggire il contatto umano, la reclusa che volesse provare a fare altrettanto avrebbe un problema non da poco, giacché è totalmente incapace di procacciarsi da sola le fonti di sostentamento e dipende interamente dalla misericordia (e dall’interesse umano) di quelli che ogni giorno vengono a portarle il cibo.
In effetti, nemmeno le recluse ricorrevano al vocabolario dell’eremitaggio per descrivere la loro scelta di vita. Molte di loro amavano definirla piuttosto un “martirio bianco”: cioè la volontaria decisione di autoinfliggersi sofferenze, fino alla morte, per testimoniare la loro totalizzante fede in Cristo. Guardando alla loro scelta di vita con il piglio analitico dello studioso, potremmo dire che la via del reclusorio è l’estrema risposta all’ordine di essere nel mondo, ma non di questo mondo. In effetti, con la sua sola esistenza in vita, la reclusa medievale attira, spaventa, ammonisce, turba. La sua è una scelta efficace, che funziona: con le parole e con i fatti, realmente converte le masse.
La Chiesa, a onor del vero, ha sempre guardato al fenomeno con un fortissimo sospetto.
Anzi, ha proprio provato a scoraggiarlo, innanzi tutto per una questione di sanità mentale di colei che decideva di intraprendere questo cammino. Per quanto la reclusa fosse ovviamente libera in ogni momento di uscire dalla sua cella, il solo fatto di intraprendere un simile cammino poteva incoraggiare nella donna comportamenti anti-sociali. Se a sentirsi chiamata a questa vita era una donna già inserita all’interno di un ordine religioso, la Chiesa, ad esempio, sconsigliava fortemente la scelta del reclusorio se la persona non aveva già trascorso un congruo numero di tempo in una dimensione religiosa comunitaria. E, anche in quel caso, prima di poter fare il grande passo avrebbe avuto il bisogno di una approvazione esplicita da parte dei suoi superiori, i quali avrebbero anche potuto optare per un “no” insindacabile.
La vera gatta da pelare – le vere mine vaganti – erano semmai le donne laiche che dichiaravano di sentirsi vocate alla reclusione, senza neppure aver mai sfiorato le porte di un monastero.
E se pensate che quest’ultima evenienza avesse una frequenza scarsa o nulla: ebbene, vi sbagliate. Paradossalmente, erano proprio le laiche ad essere più attratte da questa scelta: in parte, perché consentiva loro di abbracciare la vita religiosa anche se la famiglia non poteva o non voleva pagare la dote che era richiesta da molti monasteri, a titolo di “contributo spese”. Probabilmente ancor più rilevante, agli occhi di queste laiche, era la possibilità di diventare, con la reclusione, una sorta di “libera professionista” della religione: una donna cioè totalmente in grado di autodeterminarsi, senza dover rispondere agli ordini di una madre superiora e senza doversi sottoporre ai vincoli di una vita comunitaria.
Del resto, detto brutalmente, non è che ci fossero molte alternative, per una giovine che non voleva monacarsi ma desiderava ugualmente votarsi alla vita religiosa (…e/o sfuggire a un matrimonio combinato, con la nobile scusa del voto di castità). Come sottolinea André Vauchez in La santità nel Medioevo, la scelta della reclusione era sicuramente estrema, ma anche relativamente “sicura” e priva di pericoli concreti fatto salvo quello della morte per stenti. Al di là di questo, la reclusa è una donna sola e indipendente che però non verrà mai aggredita, né violentata, né avrà da temere invasori né briganti. Anzi: vivrà – in povertà, ma relativamente quieta – nella sua piccola celletta: misera sicuramente; spoglia, senz’altro; ma, tutto sommato, non poi così lontana dall’ambiente domestico in cui la donna era cresciuta.
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Fenomeno quasi totalmente femminile (esistono alcuni casi di reclusi uomini: ma, in proporzione, sono la minoranza) la reclusione vive il suo periodo di massima popolarità a partire dall’XI secolo. Per un po’ di tempo, è tutto un fiorire di queste pie donne, equamente ripartite tra “gloriosi esempi di misticismo estremo” e “tizie inquietanti con tendenze al fanatismo”.
Si è già detto del forte sospetto con cui la Chiesa guardava a questo fenomeno – e, infatti, ben presto agì al fine di regolamentare adeguatamente questa scelta di vita. Innanzi tutto, le recluse furono sottoposte alla tutela del vescovo, e dunque affidate alla cura (e al controllo) della Chiesa locale. Ché nessuno vuole trovarsi con ‘na pazza antisociale che s’è murata viva in piazza del mercato e che dissemina eresie ammantata di un’aura di santità.
A partire suppergiù dal secolo XII, le recluse cominciano ad essere indirizzate ai vicini monasteri anche proprio in senso fisico. Se, inizialmente, era consentito alla reclusa farsi murare viva sostanzialmente dove preferiva lei, adesso le donne che si sentono chiamate a questa vita vengono invitate a rinchiudersi in apposite cellette preparate per loro in prossimità dei monasteri. Il rigido regime di penitenze e privazioni viene drasticamente attenuato: se, ad esempio, nel IX secolo, una santa Viborata poteva ancora perdere l’uso di un arto a causa di un principio di congelamento standosene nel suo reclusorio esposto alle intemperie, le recluse new deal possono beneficiare di cellette attigue al monastero, e dunque ben riscaldate. Anche le giornate di queste donne si riempiono improvvisamente, allontanando dalle recluse lo spettro dell’accidia (…o della follia). Spesso, le penitenti che dimorano presso un monastero sono invitate a svolgere, nel chiuso della loro cella, dei piccoli lavori di utilità pratica per le monache che le ospitano: rammendo, sartoria, copia di libri di preghiera.
Attenuato, privato delle sue manifestazioni più estreme, assimilato sempre più a una scelta di vita monacale (per quanto un po’ sui generis), il fenomeno scompare gradualmente verso la fine del Quattrocento. E, probabilmente, non è un caso che il fenomeno sia sparito più o meno in concomitanza con il sorgere del movimento delle Osservanze – quel movimento che, richiamando gli ordini religiosi a una più scrupolosa osservanza della Regola originaria, riformava molti conventi dando alla vita religiosa i connotati di una scelta più radicale (e, dunque, più simile a quella che molte recluse avevano ricercato per se stesse).
Anche se… paradossalmente, la Storia è nota per il suo flusso costante di corsi e ricorsi. Per quanto estremo ed estremamente demodè, questo stile di vita sembrerebbe esercitare un crescente fascino su una certa fascia della popolazione.
Uno dei migliori testi dedicati alla figura delle recluse è a firma di uno dei miei santi preferiti: Aelred di Rievaulx. Composta nel XII secolo, la sua Regola delle recluse aveva giustappunto lo scopo di regolamentare la vita solitaria di queste donne chiamate alla preghiera. E probabilmente non è un caso che le Paoline ne abbiano curato in anni recenti una traduzione (corredata da un ampio apparato critico, dal quale ho tratto molte delle informazioni per questo articolo). Come si legge nella prefazione al volume, “nei moti pendolari della storia, un tornare a marcare più decisamente l’aspetto escatologico, trascendente e ultraterreno della vita cristiana è probabilmente oggi una necessità, come del resto starebbe a dimostrare il rinnovato interesse per la vita eremita di cui si coglie più di un segno”. E in effetti – incredibile ma vero – numerose inchieste giornalistiche ci parlano degli eremiti di città come di un fenomeno dalle proporzioni crescenti.
Mercuriade
Ancora oggi sappiamo relativamente poco delle recluse del Medioevo, la storica Anneke Mulder-Bakker ha dedicato loro un bellissimo lavoro. Secondo me non si può capire il pensiero di Santa Chiara d’Assisi se non si ha ben chiaro chi fossero le recluse e quale fosse la loro importanza.
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Marta
Celebre reclusa del ‘900 è stata la camaldolese Suor Nazarena. Era reclusa a Roma.
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Pingback: Wild Man, il “buon selvaggio” dell’età di mezzo – Una penna spuntata
Mirko
Conosci il monaco Hartker dell’abbazia di San Gallo? Figura estremamente importante per lo studio del canto gregoriano era, appunto, un recluso!
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