Santa Lucia, santa della fame

È il 17 settembre 1915 quando Leo Spitzer, linguista di una certa fama che vanta già qualche pubblicazione all’attivo, prende servizio a Vienna presso l’Ufficio Centrale della Censura Postale. Il suo compito è occuparsi della censura di guerra – e, nello specifico, di passare al vaglio le lettere che i detenuti italiani, catturati e trattenuti in carcere come prigionieri di guerra, indirizzano ai loro parenti in patria.

Mi direte: “ma concretamente, cosa censura un censore di guerra?”.
Un sacco di cose, anche le più impensate: tutte quelle che possono mettere in luce la vulnerabilità di un paese. Fra le mille, oggi ne citerò una in particolare: l’ammissione di avere fame.

Va da sé: se denutrisci i tuoi prigionieri, questo può essere indice di due cose. O sei un sadico che tortura i suoi nemici (ma allora, ti si combatterà con ancor maggiore ardore) o hai poco cibo in generale (ma allora, vuol dire che stai perdendo la guerra, e dunque bisogna combatterti con ancor maggiore ardore).
Di conseguenza, ai prigionieri di guerra era fatto esplicito divieto di parlare della loro fame e del poco cibo che ricevevano in carcere. Il che era un grosso un problema, per l’affamato prigioniero: così come era possibile per lui comunicare con i parenti in patria, era possibile alla famiglia fargli arrivare, attraverso appositi canali diplomatici, pacchi viveri e altri generi di conforto. Ma se la famiglia non sa che stai effettivamente morendo di fame, e anzi si sente dire il contrario, non è detto che le venga l’idea di correrti in soccorso con un pacco di biscotti.

Fatto questo preambolo, avviciniamoci al fulcro di questo articolo. I prigionieri italiani, che non erano completamente fessi, cercarono di aggirare la censura ricorrendo a perifrasi, metafore e modi di dire attraverso i quali far passare il concetto. Evidentemente, speravano che il censore austriaco non fosse in grado di cogliere sfumature e sottintesi (espressi, oltretutto, in una lingua non sua).
Ciò che i prigionieri italiani non sapevano è che nemmeno il loro censore era completamente idiota. Anzi: appassionato ed esperto studioso di linguistica, Leo Spitzer scorreva la loro corrispondenza con una implacabilità mista a fascinazione. Si infuriava per gli escamotage usati dai prigionieri per farlo fesso ma al tempo stesso se ne innamorava; tirava righe, censurava, cancellava le frasi incriminate, ma al tempo stesso le appuntava su un quaderno per tramandarle ai posteri.
A guerra conclusa, il linguista diede alle stampe il suo Perifrasi del concetto di fame: un libro curiosissimo, recentemente edito da Il Saggiatore, che raccoglie e commenta le infinite varianti usate dai prigionieri italiani per dire “ho fame”… ma senza dirlo espressamente.

Mi piaceva l’idea di partire dal punto di vista di Leo Spitzer per introdurre la figura di santa Lucia, protagonista di una nuova puntata della collaborazione “gastro-agiografica” tra me e Mani di Pasta Frolla.
E davvero c’è un legame fortissimo tra Lucia di Siracusa e la gastronomia (…o meglio ancora: con l’assenza della medesima). Lo scoprì, con la pratica, il nostro amico Spizter, inizialmente un po’ spaesato di fronte alla molteplicità di lettere in cui i prigionieri di origine siciliana parlavano costantemente di ‘sta santa – a proposito, senza motivo, tirandola per la giacchetta.
Tipo, che ne so:

Qui ogni giorno è S. Lucia ed ogni giorno si festeggia con vigilia, ti basta questo.

come scriveva (totalmente a caso, manco a dicembre) un prigioniero palermitano, lasciando abbastanza esterrefatto il censore.

Spitzer ebbe bisogno di un po’ di tempo prima di capire che la vergine siracusana apparteneva a una curiosa combriccola di santi che il linguista etichettò come “santi della fame”. Ovverosia, personaggi che, nell’immaginario popolare degli Italiani (o, più facilmente, degli Italiani provenienti da una determinata area geografica) erano variamente legati al concetto di carestia (spesso, perché i loro miracoli ne hanno interrotta una).

Fra i tanti, santa Lucia è un caso emblematico. Ancor oggi i Siracusani ricordano con emozione un miracolo che, nel 1646, fu attribuito all’intercessione della buona santa. Nella primavera di quel terribile anno, la Sicilia tutta si trovava stretta nella morsa della carestia. Verso l’inizio del mese di maggio, la situazione s’era fatta così disperata che il vescovo, Francesco d’Elia e Rossi, indisse una novena di preghiera per chiedere alla santa patrona la grazia di un miracolo. Al termine dell’ottavo giorno di preghiera, il 13 maggio, i fedeli non avevano nemmeno fatto in tempo ad alzarsi dai banchi della chiesa dopo l’ultimo Amen. Quand’ecco, un messo si precipitò in duomo a rotta di collo, gridando incredulo l’incredibile notizia: navi cariche di frumento erano appena arrivate in porto, e come se non bastasse uno stuolo di quaglie si era posato sui tetti delle case immolandosi come facile preda per i cacciatori.
Ancor oggi, in onore di quel prodigio, i Siracusani onorano la loro patrona due volte all’anno: il 13 dicembre, come vuole il martirologio… e poi il 13 maggio, data in cui fanno memoria del miracolo attribuito a Santa Lucia delle quaglie. E anche altre città dell’isola annoverano nelle cronache cittadine altri miracoli “di fine carestia” di volta in volta attribuiti all’intercessione della buona santa. In Sicilia, tutti sanno che santa Lucia è la santa da invocare non solo quando ti si annebbia la vista, ma anche quando lo stomaco brontola e il frigo è desolatamente vuoto.

***

Era proprio a questo patrimonio condiviso che si rifacevano i Siciliani trattenuti nelle carceri di Vienna. Evidentemente, in patria era nota a tutti l’associazione tra santa Lucia e il bisogno di cibo; evidentemente, i prigionieri speravano che l’allusione non fosse colta dal loro carceriere. Che invece la colse, e affascinato tenne traccia di tutte le occorrenze, e infine commentò nel suo studio:

La venerazione per S. Lucia è tra le più diffuse in Italia, eppure non è sempre molto chiaro come si sia stabilita la connessione con la fame: forse perché (dopo la sua morte) si pensa abbia inviato navi di granaglie per alleviare una carestia […], oppure perché la si «rappresenta con una spada e un taglio alla gola»

(Effettivamente, santa Lucia fu sgozzata. Gli occhi nel piattino sono una aggiunta relativamente tarda nella sua iconografia).
In realtà, osserva Spitzer,

La spiegazione seguente è tuttavia molto più plausibile: la vigilia della festa di s. Lucia è [in Sicilia, NdR] un giorno di digiuno. In Spettacoli e feste, p. 427, Pitrè scrive: «in Palermo e in quasi tutta Sicilia il dì 13 dicembre non si mangia pane… Ma in compenso e come per penitenza si mangiano legumi, verdure, pattona ed altre cose simili… si mangia di tutta questa robaccia e, avvenga quel che vuole avvenire, la penitenza è fatta. Purché non si mangi farina di frumento, si è certi di aver conservato gli occhi».

Un digiuno nel giorno di festa?!
Sarebbe una bella novità per la cultura cattolica, se non fosse che quello siciliano è – come dire – un digiuno molto sui generis, che sostituisce determinati tipi di alimenti con specialità decisamente non malvage. E infatti, ancor oggi vuole la traduzione che le panelle di ceci sostituiscano il pane, nel giorno di santa Lucia. Che il riso (sottoforma di arancine) prenda il posto dei maccheroni; che non si mangino dolci lievitati ma solamente dolci al cucchiaio.

Evidentemente, è un omaggio a quel miracolo di “fine carestia” che ho descritto pocanzi. In quel terribile 1646, quando la Sicilia era stretta dalla fame, nessuno aveva pane da mangiare; nessuno aveva pasta, farina, lievitati. Ci si arrangiava con quel poco che si trovava nei campi e negli ultimi anfratti della credenza.
E quando le navi cariche di granaglie arrivarono in porto, la fame fu così disperata e urgente da prendere in qualche modo il sopravvento. Con le mani tremanti per l’emozione, i siracusani fecero incetta dei preziosi chicchi di grano… e si precipitarono direttamente a casa, bypassando completamente il passaggio dal mulino.
Chi aveva tempo, chi aveva la voglia di aspettare che il grano venisse macinato?!
Non di certo la popolazione stremata da mesi e mesi di carestia. Le massaie misero a bollire il grano così com’era, lo condirono con quel poco che avevano in dispensa e prepararono, in quattro e quattr’otto, un piatto che parve loro la prelibatezza più squisita al mondo.

Nasceva in questo modo la cuccìa, il dolce tipico che ancor oggi è cucinato in onore della santa. E penso di non andare troppo lontano dal vero se dico che a me sembra, per certi versi, una via di mezzo tra il pane azzimo degli Ebrei (portato in tavola di anno in anno in memoria di quella Pasqua lontana in cui non si ebbe il tempo di far lievitare la pagnotta) e il cotechino con lenticchie che mangiamo a Capodanno (augurio di prosperità e ricchezza, grazie alla moltitudine di legumi in numero così alto da non poter nemmeno essere contato).

Alla luce di quanto abbiamo appena appreso in compagnia del nostro linguista-censore, assumevano improvvisamente un nuovo valore le parole scritte con amara ironia da quel prigioniero siciliano che diceva ai suoi parenti:

Penso che fra qualche giorno voi festeggiate S. Lucia, che è tradizionale a Palermo; qua mi fà l’impressione di esserlo già da più di una settimana, in piena festa. Già nei primi d’ottobre provai la stessa impressione. Soltanto che non abbiamo la cuccia.

Fortunatamente, noi la cuccìa ce l’abbiamo, o meglio: siamo nelle condizioni di poterla gustare. E infatti, Mani di pasta frolla ne riporta oggi la ricetta – semplicissima per davvero, soprattutto se si parte dal grano già cotto per la pastiera. Da provare.
E non dimenticate! Per onorare davvero la santa siracusana, l’intero menù del giorno dovrà essere… gluten-free, come si direbbe in termini moderni. Niente pane (ma al suo posto, squisite frittelle di ceci); niente pasta e farinacei (ma bensì, arancine di riso).
Secondo la tradizione, questo “sacrificio” (!) gastronomico compiacerà la santa colpendola dritta al cuore. E, se accompagnato da una preghiera devota, assicurerà prosperità (e salute degli occhi) per tutto l’anno entrante.

7 risposte a "Santa Lucia, santa della fame"

    1. klaudjia

      Una storia simile appartiene alla mia famiglia. Durante la seconda guerra mondiale mio nonno e la famiglia (incluso mio padre bambino piccolo)
      doveva scrivere alla sorella in America per chiedere cibo, ma doveva aggirare la censura. Allora scrisse “cara sorella qui stiamo bene, mangiamo e beviamo come nel giorno della candelora)” . Il giorno della candelora era usanza familiare digiunare . Il messaggio passò e la sorella inviò pacchi tramite la croce rossa. Oltre il cibo inviò anche la preziosissima pennicellina!! La zia era molto generosa tanto che quando arrivava il pacco tutto il vicinato accorreva chiedendo aiuto che nonna dispensata come poteva.

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      1. Lucia

        Maddai!! 😯
        Che bellissima testimonianza, grazie! Ed evidentemente la censura non ha colto!

        (…ma in effetti, non per farmi i fatti vostri, ma perché nella vostra famiglia si digiunava alla Candelora? 🤣 Era una cosa solo vostra immagino? Qui è un giorno di festa!)

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