C’era una volta una epidemia.
Che barba, eh? C’è sempre una qualche epidemia, nella Storia.
Questa, però, è una epidemia strana: una di quelle che mandano in sollucchero i medici appassionati di Storia. Di fatto, permette loro di giocare a fare il dottor House nella macchina del tempo: c’è un’accozzaglia di sintomi improbabili da analizzare, ma non c’è (ad oggi) una diagnosi nota.
Sto parlando di un’epidemia schifosissima che imperversò in Europa tra il IX e il XVI secolo, accanendosi sulla Francia in modo quasi esclusivo. I sintomi li conosciamo bene: ce li descrivono, con dovizia di dettagli, numerose fonti di epoche diverse, indipendenti l’una dall’altra. Conosciamo anche la prognosi (non tra le più benevole), conosciamo la terapia che all’epoca fu adottata e conosciamo persino il nome che i medici diedero allora alla malattia: “fuoco sacro”, “male di sant’Antonio”, “male degli ardenti” a seconda delle zone.
L’unica cosa che non conosciamo è il nome che i medici le darebbero oggi.
Di certo non tirerebbero in ballo l’herpes zoster, il “fuoco di sant’Antonio” di noi moderni: i sintomi medievali non combaciano manco per scherzo con quelli della malattia odierna; poco ma sicuro, quella roba medievale schifida era tutta un’altra cosa. Ma cosa fosse esattamente,
non lo sapremo mai con precisione. In tanti secoli molte cose sono cambiate e molti termini sono stati usati in un contesto che è difficile tradurre. Tutte le malattie con dolore intenso, soprattutto se accompagnate da eritema vivo (la estrinsecazione visiva del fuoco che brucia la carne) sono state probabilmente chiamate con l’eponimo di fuoco di sant’Antonio
un po’ come accadeva del resto con la “peste”, termine prezzemolino che nell’antichità veniva usato per descrivere la quasi totalità delle epidemie, anche se solo una minima parte di queste erano effettivamente causate da Yersinia Pestis.
A firmare la citazione che ho riportato sopra è il professor Carlo Gelmetti, direttore della Dermatologia Pediatrica del Policlinico di Milano: un medico che deve nutrire un vivace interesse per la figura di sant’Antonio, considerato che alla malattia che porta il suo nome ha dedicato un libro (multi-disciplinare e curiosissimo), Il fuoco di Sant’Antonio. Dai Misteri Eleusini all’LSD.
Gelmetti lo dice subito: identificare a distanza di secoli quella strana malattia medievale che atterrì la brava gente è impresa complicata.
Nondimeno vi è chi, come Henry Chaumartin, ha cercato di dipanare la matassa che si era ingarbugliata negli ultimi secoli e di fare un po’ di luce sui significati medici che in vari tempi e in vari luoghi il termine di “fuoco di sant’Antonio” ha rivestito.
E allora, cerchiamo di analizzare un po’ di fonti.
***
La più antica testimonianza riguardo questa malattia risale all’anno del Signore 857, quando gli annali di un convento a Xanten, in Renania, descrivono una sciagura che aveva colpito la regione:
un grande flagello di gonfiori e di bolle consumava la gente con un nauseabondo fetore, così che i loro arti si consumavano e si distaccavano prima della morte.
Ellamiseria.
Poco meno d’un secolo più tardi, la malattia era arrivata in Francia. Scrive infatti Flodoardo di Reims:
una peste di fuoco si è abbattuta su Parigi e i suoi dintorni nell’anno di grazia 945. Gli infelici tributari di tale sfortuna vedono bruciare i loro arti come sotto l’effetto di un calore misterioso. Le carni marciscono poco a poco; le ossa, colpite a loro volta, si rompono come legna secca e poi cadono anch’esse. Solo la morte, troppo lenta a venire, mette termine al supplizio. I Parigini sperduti affollano le chiese e richiedono aiuto di tutto il paradiso.
Rincara una cronaca coeva, informandoci che, nel Limosino,
c’era chi perdeva i piedi, chi le mani, chi una gamba, chi un braccio. E tutti erano colpiti, giovani e vecchi, uomini e donne. Da tutte le parti si udivano pianti e grida. E se si gettava dell’acqua sulle parti urenti per rinfrescarle, si vedeva subito levarsi un fumo acre con dei fetori spaventosi.
Aggiungiamo qualche sintomo in più al già desolante quadro? Nel 1089, Sigeberto di Genbloux ci informa che
a molti le carni cadevano a brani, come li bruciasse un fuoco sacro che divorava loro le viscere; le membra, a poco a poco rose dal male, diventavano nere come carbone. I malati morivano rapidamente tra atroci sofferenze oppure continuavano, privi dei piedi e delle mani, un’esperienza peggiore della morte.
All’inizio del Trecento, cercò di curare questa roba anche Henry de Mondeville, una vecchia conoscenza da queste parti. Il fatto che Henry fosse un chirurgo e non un cronista-prete rende la sua testimonianza particolarmente interessante, nel senso che l’amico si esprime in termini medici e la cosa è già indubbiamente un passo avanti. Nel descrivere quella malattia contagiosa che
in Francia si chiama Male di Nostra Signora; in Italia ed in Borgogna, Male di Sant’Antonio; in Normandia, Male di San Lorenzo ed in altre regioni con diversi nomi ancora,
ci dice che secondo lui si tratta d’un morbo causato da uno squilibrio di umori, nato dal formarsi
di bile grossolana e di melanconia sottile, bruciate. Ed è un herpes, che si chiama comunemente lupus, o cancro, o erisipela fagedenica
…che oggi sarebbero quattro cose diverse, ma evidentemente il nostro amico aderiva alla teoria per cui “tu sparane tante, magari qualcuna la azzecchi”.
Ultima testimonianza degna di nota è quella di Guy Didier, che a metà Cinquecento era responsabile medico di un nosocomio francese interamente dedicato alla cura dei malati affetti da questa patologia. La quale, ci informa il medico,
consiste nella mortificazione con gangrena di un arto. Lo si chiama anche Fuoco di sant’Antonio o di san Marziale ed è rimarchevole il constatare che, in questa malattia, si producono un dolore ed un ardore simili a quelli delle scottature vere e proprie.
La cosa interessante è che Guy consegna ai posteri anche un lungo prontuario che illustra le terapie da adottare.
Non appena si notavano le prime avvisaglie della malattia (cioè, non appena la parte dolente cominciava ad arrossarsi, cambiando colore), si doveva intervenire applicando impacchi di terra mescolata ad aceto. Se questo non bastava, la zona dolente doveva essere incisa e sulla carne viva dovevano essere applicate le sanguisughe; successivamente, la ferita andava medicata con un linimento di aceto e farina di fagioli. Nei giorni a venire, sarebbe stato necessario lavarla con aceto due volte al giorno applicando sul taglio un composto di assafetida e semi di ortiche secche.
Se manco questo funzionava, non restava che cauterizzare tutto andandoci giù pesanti; se la malattia continuava a progredire, l’unico modo per salvare la vita del paziente era l’amputazione.
Eccheschifo è ‘sta roba?
Se qualcuno vuole fare una ipotesi, si lanci pure nei commenti, tenendo conto che le fonti ce la descrivono appunto come una malattia contagiosa a carattere epidemico. Nel suo libro sul fuoco di sant’Antonio, Carlo Gelmetti punta il dito su due possibili colpevoli: antrace oppure erisipela.

Sic stantibus rebus, abbiamo una malattia schifosa non meglio precisata che miete vittime in gran parte della Francia (e, curiosamente, non altrove). La popolazione è terrorizzata, i medici sono inermi, globalmente nessuno sa più a quale santo votarsi… sicché qualcuno pensa bene di procurarsi un santo nuovo di pacca, nella speranza che possa smuovere un po’ la situazione.
Correva l’anno 1070 quando le reliquie di sant’Antonio abate, fino a quel momento custodite a Costantinopoli, venivano traslate nella più tranquilla Francia, con lo scopo dichiarato di sottrarle all’instabilità politica in cui versava la città sul Bosforo. Per accoglierle degnamente nella valle del Rodano, l’arcivescovo di Vienne aveva fatto erigere un’abbazia per conservare il prezioso cimelio: Saint-Antoine-en-Viennois.
Sant’Antonio aveva appena in tempo a farsi conoscere nella zona che, nel 1089, scoppiò una nuova epidemia di quella malattia schifosa di cui sopra. Frotte di pellegrini cominciarono a recarsi a Vienne per chiedere al nuovo santo la grazia di una guarigione: tra di loro, vi era anche un certo Gastone, un cavaliere con buone disponibilità economiche il cui figlioletto era stato contagiato nel 1095 e miracolosamente era guarito senza danni permanenti. Indubitabilmente per grazia di sant’Antonio, come fu immediatamente chiaro a tutti!
Per sdebitarsi col santo della grazia ricevuta, Gastone fondò a Vienne un piccolo ospedale dedicato ai pellegrini affetti da questo male: fu chiamato La Maison de l’Aumone (letteralmente: la casa dell’elemosina) e affidato ai volenterosi membri di una confraternita laicale appositamente venutasi a creare. Solo nel 1292 la confraternita dei Frères de l’Aumone si trasformò in una famiglia religiosa vera e propria, prendendo il nome di Ordine ospedaliero dei canonici regolari di sant’Antonio di Vienne. Per brevità e per gli amici: gli Antoniani.
Nel suo momento di massimo splendore, l’ordine, che contava nel XV secolo oltre 10.000 membri, arrivò a gestire 389 ospedali sparpagliati in giro per l’Europa. La sua missione era ben chiara (curare gli ammalati) ed era molto chiaro anche quale fosse la specializzazione di questa rete ospedaliera: le porte del nosocomio erano aperte a tutti, ma gli Antoniani possedevano uno specifico know-how che permetteva loro di curare i pazienti affetti dal fuoco di sant’Antonio. Cioè sempre quella epidemia schifosa che non si capisce bene cosa fosse.
Qual era lo speciale know-how?
Meh. Grossomodo, era quell’insieme di pratiche un po’ mediche e un po’ religiose tipiche della medicina monastica medievale. Dopo essere stati sfamati, gli ammalati venivano portati in chiesa e aiutati a leggere una preghiera in cui si chiedeva la grazia della guarigione. Veniva poi somministrato loro, a più riprese, del vino benedetto nel quale erano state intinte le reliquie del santo, per potenziarne “il tasso di miracolosità”, se me la passate. Uno step successivo della terapia (probabilmente, l’unico che servisse davvero a qualcosa, dal lato medico) prevedeva l’applicazione di una pomata sulla parte malata. E questa pomata sembrava effettivamente dare un certo sollievo (forse anche solo perché riduceva l’esposizione all’aria delle ulcere, come fa notare nel suo libro il dottor Gelmetti).
Purtroppo, la ricetta di questa pomata non è giunta fino a noi. Sappiamo però che era creata a partire dal grasso di maiale, ed è qui che la storia della medicina interseca quella della gastronomia.
Sì, perché sta per entrare in scena il famoso maiale di sant’Antonio.
Se hai un ospedale che cura i suoi pazienti facendo un uso intensivo del grasso di maiale, va da sé che dovrai avere un grosso allevamento di maiali da qualche parte.
Da questa situazione consegue un imprevisto, ma non spiacevole, effetto collaterale: dopo aver macellato i maiali per trarne le sostanze necessarie per le terapie, tanto varrà metter da parte le carni e utilizzarle per sfamare i pazienti ricoverati.
Si consolida così, col passar dei secoli, la diffusa consapevolezza che chi dimora negli ospedali degli Antoniani verrà sfamato con la (prelibata!) carne suina – un regime alimentare che, tra l’altro, potrebbe anche esser diventato involontariamente parte integrante della terapia. Non basta certo una dieta variegata per curare tutte le malattie, ma un sostanzioso piatto di carne non poteva che essere un toccasana per tanti uomini medievali poveri, probabilmente sottoalimentati.
Col passar dei secoli, il legame tra sant’Antonio e il maiale si fa sempre più stretto. Fra l’altro, visto l’alto costo di mantenimento di un maiale, gli Antoniani ottennero dal papa un permesso eccezionale: e cioè, quello di allevare i porci a spese della collettività. Non sarebbe stato cioè il singolo ospedale a doversi fare carico del mangime; sarebbe stata la città in cui aveva sede il nosocomio a dover provvedere al mantenimento del bestiame. Da qui deriva il proverbio che ancor oggi si conserva in alcune regioni: “sei come un porcello di sant’Antonio!”, dice qualcuno per riferirsi a chi vuole vivere a spese degli altri e mangiare a sbafo.
A differenza del proverbio, non si conserva ad oggi (e per fortuna!) quella strana epidemia schifosa che fu causa di tutto. Attorno alla metà del Cinquecento, smette di essere citata dalle fonti (anche se troviamo un ultimo accenno a qualcosa di simile nelle descrizioni della cancrena di Sologne che colpì nel 1630). La qual cosa, per inciso, lascia piuttosto sgomento lo studioso: l’agente patogeno era forse scomparso? O forse i medici rinascimentali avevano cominciato a descrivere la stessa malattia con termini meno poetici e più aderenti alla realtà clinica? Fatto sta che, col passar del tempo, sempre più frequentemente il termine “fuoco di sant’Antonio” viene utilizzato per indicare patologie che, una volta tanto, è abbastanza facile identificare a partire dai sintomi: da un lato, abbiamo delle malattie veneree; dall’altro, abbiamo l’ergotismo gangrenoso. Curiosamente, è assai più tarda l’associazione con l’herpes zoster.
E, terminata l’epoca delle grandi epidemie, persino l’ordine degli Antoniani scomparve, andando a fondersi con l’ordine di Malta nel 1775: una sanità ormai sempre più saldamente statale rendeva superflua, in una certa misura, la presenza di questi nosocomi.
Ma allora… spariti gli Antoniani e sparita la malattia misteriosa, che resta di questa (schifida) pagina di Storia?
Resta, evidentemente, l’associazione secolare tra sant’Antonio abate e il suo maialetto. Così a lungo le figure erano state accostate (nell’immaginario dei fedeli, nell’iconografia e persino nella vita economica delle città!) che il porcello non volle saperne di staccarsi dal fianco di sant’Antonio persino quando la sua presenza non fu più necessaria per ragioni mediche.
Vale a dire: gli ospedali antoniani venivano chiusi, i porcelli di sant’Antonio smettevano di scorrazzare per le vie della città… ma l’associazione mentale restava. E a quel punto si trasferì sul piano gastronomico.
Ovverosia: nacque l’abitudine di consumare, in occasione della festa del santo, sostanziosi piatti a base di carne di maiale che potevano essere gustati in famiglia o (meglio ancora) distribuiti ai bisognosi, da parte di parrocchie e altre attività caritative.
Una tradizione popolare che si conserva ancora oggi e che è oggi protagonista di una nuova puntata della collaborazione gastro-agiografica tra me e Mani di Pasta Frolla, la foodblogger che cucina seguendo il ritmo del martirologio. Volete scoprire qual è la ricetta tradizionalmente dedicata a sant’Antonio che abbiamo deciso di proporvi questo mese? Facilissima da preparare (ma gustosa come poche!) e con un richiamo alla vita di sant’Antonio eremita, sarà perfetta da portare in tavola in occasione della festa!
Per cominciare a pre-gustarla, cliccate qui. E… buon appetito!
Francesca
teoria per cui “tu sparane tante, magari qualcuna la azzecchi”.
Eccomi 😂
Non posseggo supporti storici che altri potrebbero possedere, ma la butto là:
attraverso le vie del commercio forse si è diffusa una qualche sostanza naturale radioattiva (è possibile?) collegata magari al trattamento/lavorazione di una merce tipica dell’epoca (e delle zone geografiche interessate).
Dopodiché, ai danni delle radiazioni si univano i danni di mille altre infezioni che sopravvengono su tessuti già gravemente danneggiati.
La “sensazione di epidemia” poteva essere appunto determinata dalla diffusione abbastanza omogenea di un certo prodotto/merce in una certa zona.
… Non so se mi sono persa qualcosa nel tuo racconto… ma non sembra che le persone si contagiassero per contatto tra loro… il che avvalorerebbe (in parte) una teoria di malattia per contatto con una sostanza. Cioè niente virus o roba del genere.
… 😶
Cos’è l’erisipela?
Adesso la cerco. È un termine che ho già udito (con le orecchie) o letto da qualche parte, ma non so di cosa si tratta. ‘Gnuraaannnnt
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Lucia
🤣
Per la cronaca, Wikipedia dice che l’erisipela “dal greco ερυσίπελας – pelle rossa – è un’infezione acuta della pelle, che coinvolge il derma profondo e in parte l’ipoderma, causata da batteri piogeni; principale responsabile è lo streptococco beta-emolitico di gruppo A, ma talora risulta in causa lo stafilococco aureo o altri germi meno comuni.
Il punto d’ingresso del batterio nella pelle può essere rappresentato da una piccola soluzione di continuità della cute, come ad esempio una piccola ferita, un graffio, una puntura d’insetto e anche un’infezione micotica interdigitale che determini macerazione della pelle”. Pare che in passato fosse una malattia molto grave con un tasso di mortalità spaventosamente alto.
Detto ciò, LOL, l’ipotesi radioattiva l’ha tirata in ballo anche mia mamma quando le ho fatto leggere la descrizione della “tempesta di fuoco” abbattutasi su Parigi. “Ma che è, una bomba atomica?!”, ha commentato 😂
Ovviamente non ho la più pallida idea se esistano in natura delle sostanze radioattive capaci di causare lo scenario che dici tu? Boh? In compenso, non credo che potesse essere una malattia legata a un qualche tipo di lavorazione artigianale dell’epoca, perché mi vien da pensare che a un certo punto avrebbero fatto due più due, se ne sarebbero accorti. E del resto sappiamo che colpiva anche i giovani figli di ricchi cavalieri come quello che fondò per grazia ricevuta il primo ospedale antoniano…
Al limite, se di inquinamento può trattarsi, mi verrebbe semmai da pensare alla contaminazione di una falda acquifera, toh? 🤔
Comunque sì, nessuna delle fonti ci parla esplicitamente di un contagio diretto da uomo a uomo. Va anche detto che le dinamiche del contagio non erano molto chiare in generale, all’epoca 😅 però in effetti dici bene: si ha una sensazione di epidemia, altro non dicono.
Boh? 👀
Comunque mettiamo in capo l’ipotesi RADIAZIONE o DISASTRO NUCLEARE MEDIEVALE (come dice scherzando mia mamma 😂) e andiamo avanti 😂
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Francesca
LOL.
Non escludendo del tutto lo scenario della radioattività medievale, e neanche uno strano incontro di diverse cause concomitanti…
Passiamo ad una malattia che ci assomiglia davvero tanto. L’avevo “vista” in un film nel quale una protagonista (poi morta – nel film) la contraeva da un’infezione ospedaliera. Però non ricordavo il nome.
Ora sono riuscita a ritrovarla… e di più: uno dei primi risultati su google è un caso italiano abbastanza recente.
Copioincollo
Estratto da Articolo Corriere Salute. Al link sotto puoi leggerlo per intero
VARESE
27 giugno 2020
Salvato dal batterio mangiacarne: trapianto di pelle contro la fascite necrotizzante
di Silvia Turin
(…)
Che cos’è la fascite necrotizzante.
Per 27 giorni è stato ricoverato in terapia intensiva e ora dopo 97 giorni di ricovero, ha perso 20 chili e tutta la massa muscolare che ora sta faticosamente recuperando, ma si è salvato.
La fascite necrotizzante, provocata dai cosiddetti «batteri mangia carne» è una rara e gravissima infezione dei tessuti sottocutanei che, se non trattata bene e in modo tempestivo può portare a setticemia fino alla morte del paziente.
Nella fascite necrotizzante, i batteri, attraverso una ferita, infettano il tessuto connettivo che permea il corpo umano (fascia).
La malattia, di natura batterica, si sviluppa in modo rapido e aggressivo causando vescicole, bolle fino a necrosi dei tessuti sottocutanei, choc settico, morte. Se identificata in tempo può essere trattata con antibiotici e chirurgia, ma molti pazienti perdono comunque gli arti nonostante il trattamento e il 25-30% muoiono.
Colpisce persone immunodepresse.
I batteri, anche se chiamati «mangiacarne» in realtà non si nutrono della carne ma la distruggono e la decompongono attraverso il rilascio di potenti tossine. La malattia può essere provocata da un’ampia varietà di batteri. Il più comune è lo streptococco, altri sono E.coli, Staphylococcus aureus, Aeromonas hydrophila, Clostridium e Klebsiella. La malattia è comunque estremamente rara, anche per chi è esposto ai batteri che possono trasmetterla. La maggior parte delle persone che contraggono la fascite necrotizzante sono immunodepresse. Il modo migliore per prevenire l’infezione è ripulire le ferite, anche le più superficiali. In genere si contrae più facilmente in acque contaminate se si hanno ferite aperte.
Fine citazione da link
https://www.corriere.it/salute/dermatologia/20_giugno_27/trapianto-pelle-record-salva-47enne-batterio-mangiacarne-957c4322-b84d-11ea-b2d0-312cc6f9a902.shtml
Mio pensiero:
Per assomigliarci, ci assomiglia molto. Il problema sarebbe trovare il nesso, il perché (negli anni da te citati) la malattia si possa essere diffusa in modo così massiccio…
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Francesca
Continuo e aggiungo un’altra possibile teoria…
Da completa profana.
Inseguendo (su google) l’ipotesi della fascite necrotizzante che in tanti casi provoca esiti molto simili a quelli descritti nei casi medievali… Oltre alla possibilità di falde acquifere particolarmente “infestate” dai batteri elencati sopra, e poi passati alle persone attraverso piccole ferite cutanee (che probabilmente nel medioevo non venivano considerate gravi… e perciò ignorate) ;
ecco, oltre a quella possibilità, la mia attenzione è stata catturata dagli studi (scientifici e clinici) sul ragno violino !! 😭😁 , E niente, … ho letto qualcosa di interessante (e purtroppo spaventevole). Colgo così l’occasione di dare informazioni mediche valevoli anche ai nostri giorni 😭 … Impressionante 😶
Non ho il tempo di ordinare gli appunti raccolti. Te li copioincollo nel post che ti invio di seguito, con parziali estratti per dare un’idea.
Probabilmente il post andrà in moderazione a causa della quantità di link…
Li lascio così, e ognuno potrà fare le sue riflessioni.
L’ipotesi sarebbe: una particolare diffusione in Francia (nelle finestre temporali da te citate) del ragno violino. Di conseguenza: tanta gente morsa dal ragno. Di conseguenza: molti infettati a ammalati di fascite necrotizzante, attraverso il ragno ,- il cui morso spesso può non essere notato o al massimo paragonato (inizialmente) a quello di una normalissima zanzara o mosca…
Leggendo i documenti si capirà meglio. Vedere in particolare il documento diffuso dal Niguarda di Milano… perché è valido tutt’oggi 😮😮
E pensiamo a che cosa poteva accadere nel Medioevo senza nessuna cura tempestiva, senza antibiotici, senza niente, ma al contrario: un problema del genere che si aggravasse (inevitabilmente!) fino a livelli per noi oggi impensabili.
Buona lettura
(si fa per dire. Gosh!)
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Pingback: Che cosa c’entra il maiale con sant’Antonio? – Una penna spuntata
Francesca
Partiamo dalla Francia dei tempi attuali.
(Chi non conosce il francese lo può inserire in google traduttore automatico)
https://www.lemonde.fr/blog/realitesbiomedicales/tag/loxosceles-rufescens/
Loxosceles rufescens ou araignée violon.
C’est l’histoire de neuf femmes ayant eu la malchance de croiser la route d’une araignée venimeuse. Elles se souviendront pendant longtemps de l’été 2015 particulièrement chaud en Languedoc-Roussillon.
(…)
Ces observations cliniques exceptionnelles sont présentées dans un article publié dans le numéro de décembre 2016 des Annales de chirurgie plastique esthétique par les chirurgiens montpelliérains, qui précisent avoir dû faire face durant l’été 2015 à de nombreux cas de morsures par Loxosceles rufescens ayant entraîné d’importantes nécroses tégumentaires.
Le premier cas rapporté résume bien tous les autres. Il concerne une femme de 36 ans rapportant avoir senti une piqûre au niveau de la face interne de la cuisse en enfilant un pantalon à son domicile. Le lendemain est apparu une fièvre concordant avec une extension inflammatoire de la zone mordue. Elle a alors consulté aux urgences où est mis en évidence une zone inflammatoire étendue, violacée, mais peu douloureuse, entourant une grande bulle (phlyctène) hémorragique. Celle-ci a ensuite laissé place à une importante perte d’une substance cutanée, située en pleine épaisseur dans la peau. « La patiente a présenté dans les jours suivants une douleur particulièrement violente nécessitant des doses de morphine assez importantes », soulignent les auteurs.
(Eccetera)
Alla fine l’articolo presenta una lista di link a report scientifici
———-
Fonti italiane.
(Dal Museo di Storia Naturale di Venezia)
Loxosceles rufescens Dufour, 1820 (Arachnida, Araneae, Sicariidae)
https://msn.visitmuve.it/it/ricerca/schede-tematiche/specie/ragno-violino/
Ragno originario dei paesi circum-mediterranei, ma considerato cosmopolita per trasporto passivo nelle zone temperate. E’ diffuso in tutto il territorio italiano; alle nostre latitudini si rinviene solo in ambiente urbano.
In condizioni favorevoli tende a formare popolazioni numerose; prospera in particolare negli ambienti antropizzati. Occupa generalmente luoghi poco illuminati e riparati, sia all’interno che all’esterno delle abitazioni. Lo si rinviene infatti in solai, seminterrati, cantine, sgabuzzini, dove cerca rifugio tra calzature, abiti e lenzuola, entro casse e bauli, dietro i mobili. Lo si può ritrovare anche negli edifici annessi, quali granai, stalle o fienili, capannoni e garages. All’esterno vive sotto tronchi, rocce isolate e cataste di legna. Non è aggressivo e normalmente morde solo se calpestato o disturbato. Alcune persone sono state colpite dal ragno a letto, dopo averlo inavvertitamente schiacciato rigirandosi, altre durante le operazioni di pulizia. Può capitare di essere morsi indossando abiti o scarpe abbandonati nelle stanze ed occupati dal ragno quali rifugi. E’ uno dei pochi ragni velenosi viventi in Italia.
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Notizie varie dall’Italia:
https://tg24.sky.it/salute-e-benessere/approfondimenti/ragno-violino
https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/24212603/ragno-violino-donna-morta-marsala-morso-indolore-letale.html
https://www.ilsussidiario.net/news/scienze/2013/5/3/morto-jeff-hanneman-l-infettivologo-cosi-un-ragno-ha-ucciso-il-chitarrista-degli-slayer-dopo-due-anni/389523/
https://www.lanazione.it/umbria/cronaca/2010/08/25/374802-nemico_casa_allarme_ragno_violino.shtml
https://amp.trevisotoday.it/benessere/ragno-violino-sintomi-morso-treviso-30-dicembre-2019.html
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Estratto dal Documento pdf diffuso dal Centro Antiveleni Milano Niguarda. (Lo trovate in rete da scaricare).
Ragni di importanza medica in Italia
Ragno violino o Ragno eremita
(Loxosceles rufescens)
Si tratta di un ragno di colore marrone-giallastro con
lunghe zampe, il corpo può raggiungere dimensioni di
7 mm (nel maschio) 9 mm (nella femmina). Di origine
mediterranea la specie è da considerarsi cosmopolita
essendosi praticamente diffusa in tutto il mondo tramite trasporto passivo. In Italia è presente principalmente nell’area mediterranea dove si rinviene in ambienti poco
frequentati, aridi sotto le pietre e nelle fessure delle rocce.
Spesso si trova anche in abitazioni e fabbricati. In Italia
settentrionale è presente quasi esclusivamente nelle
abitazioni. E’ un ragno notturno che di giorno rimane
rintanato in anfratti e fessure; nelle abitazioni può trovare
riparo dietro a mobili, battiscopa, sotto scatole di cartone o anche all’interno di guanti, calzature, tra la biancheria soprattutto in bagno, in solai e scantinati ecc.
Caratteristiche del morso: inizialmente esso è indolore e
l’area interessata non presenta alterazioni; nelle ore
successive inizia a comparire una lesione arrossata con
prurito, bruciore e formicolii, nell’arco delle 48-72 ore
successive, può diventare necrotica e può ulcerarsi. Oltre all’iniezione del veleno, il morso può veicolare nei tessuti
batteri anaerobi che, sviluppandosi, complicano il decorso della lesione con possibili fasciti necrotizzanti progressive.
Nei casi più gravi oltre a febbre, rash cutaneo, ecchimosi, possono presentarsi danni ai muscoli, ai reni ed
emorragie.
Cosa fare in caso di sospetto morso?
Il morso del ragno non deve mai essere sottovalutato.
-Evitare di manipolare o incidere il sito del morso.
-Lavare accuratamente con acqua e sapone, non
utilizzare disinfettanti aggressivi, ma amuchina diluita.
-Prestare attenzione alla comparsa di sintomi anche se
inizialmente la morsicatura non è stata avvertita.
-Consultare un medico se essa si presenta dolente,
arrossata, calda, di consistenza aumentata, circondata
da un alone pallido o violaceo; se compaiono prurito,
alterazioni della sensibilità, lesione crostosa scura,
nausea, vomito o febbre.
-Contattare un Centro Antiveleni (Milano: 02 66 1010 29)
-Se è possibile catturare il ragno e,conservarlo in un barattolo chiuso, portarlo in Pronto Soccorso per il
riconoscimento. Anche se schiacciato può essere
identificato.
-Documentare la lesione con fotografie seriate per
monitorarne l’evoluzione.
———–
Da Wikipedia
(ragno violino)
Il morso è indolore nell’immediato e i sintomi compaiono anche diverse ore dopo; in due terzi dei casi il ragno infligge un morso a secco o comunque inietta una bassa quantità di veleno a scopo difensivo, causando solo moderato indolenzimento e arrossamento locale, che passa da solo in poco tempo senza ulteriori complicazioni. Invece in circa un caso su tre il ragno inietta la sua citotossina che, specialmente in soggetti deboli o debilitati, può causare loxoscelismo, ossia la formazione prima di un edema, e poi di un’ulcera necrotica più o meno estesa che può perdurare anche alcuni mesi prima di guarire e che va trattata ricorrendo alla chirurgia plastica per rimpiazzare il tessuto morto con tessuto sano, anche per evitare ulteriori infezioni; la gravità della situazione dipende comunque dalla localizzazione del morso e dall’estensione della gangrena, oltre che dai relativi rischi indiretti di infezione, che possono andare a sommarsi ad eventuali altre patologie da cui è affetto il soggetto morso.
(…)
È del 2015 il primo caso fatale in Europa attribuibile con certezza a questo aracnide, quello di una donna morsa a un dito della mano, deceduta in seguito alla formazione di coagulazione intravascolare disseminata. Dato che le lesioni causate dal ragno violino sono uguali a quelle provocate da altri artropodi o da altri agenti, e dato che spesso non si coglie il ragno “in flagrante” visto che il morso è indolore, è difficile avere un quadro completo dei casi di loxoscelismo causato dal ragno violino.
La specie è nativa dell’area mediterranea, in particolare dall’Europa meridionale e dal Nord Africa fino all’Iran;
per quanto riguarda l’Europa, la sua presenza è attestata nella penisola iberica, in Francia, Italia, Croazia, Grecia e Turchia. In Italia è segnalata in tutto il territorio nazionale.
😶😶😶😶
Saluti.
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Lucia
E tu pensa che potrei anche averci avuto un incontro ravvicinato, con un ragno violino 😐
Anni fa, in estate, durante un corso di formazione / ritiro spirituale (ché per chi fa il mio lavoro spesso si fa un tutt’uno 🤣) in una villa spersa in mezzo ai boschi umbri. Essendo fondamentalmente scema, ero andata a fare una passeggiata lungo il sentierino nel bosco che circondava la villa calzando nulla più che un paio di sandaletti (non pensavo in realtà che il sentiero sarebbe diventato così boschivo 🤣) e mi ero risvegliata la mattina dopo con un ponfo nel piede che, a tempo dedito, il mio medico classificò come “probabilmente un morso di ragno, ma un po’ troppo brutto per essere un normale morso di ragno”.
Cioè: nel mio caso, avevo proprio cominciato a perdere sangue dalla “ferita” durante la notte.
In realtà era andato tutto benone, a parte una fortissima irritazione e un dolore alquanto significativo. Dal medico ci ero poi andata una volta tornata a casa per capirci.
Però col senno di poi resta il sospetto che a mordermi fosse stato proprio il signor ragno violino, nonché la consapevolezza che, se era lui, avrebbe potuto andarmi molto molto peggio 🤣
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Francesca
Gulp! 😱
A tuo favore giocava il fatto che, di solito, si partecipa agli incontri di formazione-ritiro 😊 (e si va a camminare inutilmente 😂 per i boschi coi sandaletti) quando si è in buona salute, cioè col sistema immunitario abbastanza funzionante. Insomma, se eri in qualche modo debole o “debilitata” forse saresti rimasta a casa.
Neanche io immaginavo che in Italia fossero presenti “ragni di rilevanza medica”. Dal documento del Niguarda (rivolto a tutti i cittadini come informazione e prevenzione) risultano diffusi sul territorio italiano anche altri 2 “ragnetti” degni di nota:
Ragno dal sacco giallo
(Cheiracanthium punctorium) e
Malmignatta o Falangio di Volterra
(Latrodectus tredecimguttatus).
Comunque, anche da altri studi che avevo trovato, il morso che più frequentemente può evolvere in “strani casi” è quello del ragno violino.
Ma anche la Malmignatta non scherza.
… Sia i tuoi sintomi che quelli dei gravi casi medievali sono compatibili col ragno violino: sanguinamenti, veri e propri “buchi” che si aprono, necrosi che vanno avanti per settimane o mesi, demolizione massiccia di pelle, di tessuti muscolari e anche di organi interni…
Per tornare a bomba sul Medioevo: se fosse accaduta una particolare folta invasione di ragni violini (come a volte accade anche oggi qualche invasione di insetti particolari in zone particolari, che non si sa bene il perché: vedi certe zanzare, certe mosche, certe cimici… ) e se ipotizziamo una tipologia di violino particolarmente velenosa – con conseguenze anche sulle persone non debilitate, si avrebbe il risultato di tanti casi gravi concentrati in un luogo e in un tempo.
Poi, quando la proliferazione dell’animale va scemando, si risolve anche “l’epidemia”.
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Elisabet ta
Non so come mai non mi prenda più i commenti
Volevo esprimere solo il mio disappunto per la carne di maiale usata come AVANZO!!!
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Antonio
dalla descrizione sembrerebbe piu’ ergotismo, dal fungo Claviceps purpurea che colpiva il frumento negli anni molto umidi. La dieta a base di carne probabilmente interrompeva l’intossicazione
Un saluto
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Francesca
Della serie “storia delle malattie”…
Ho appena letto questa notizia e la condivido con gli appassionati di Malattie&dEpidemie…
https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-01/lejeune-genetista-venerabile-francia-medicina.html
La notizia è sul medico Lejeune che diventa venerabile.
All’interno dell’articolo si scopre che fino al 1958 – cioè prima dei suoi studi genetici – la sindrome di Down era considerata una malattia contagiosa. Cioè chi vedeva un bambino Down temeva di avvicinarsi per tale motivo. Inoltre si ipotizzava qualche causa “infettante” proveniente dai genitori.
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