Nulla, a oggi, si è conservato del monastero di Dalheim, in Germania.
Non il monastero stesso, che in poche ore fu raso al suolo da un incendio disastroso in un momento imprecisato del XIV secolo.
Non l’archivio prodotto dalla comunità monastica, che certamente avrebbe potuto raccontarcene la storia: quando le fiamme finalmente si ritirarono dalla biblioteca, lasciarono dietro di sé nulla più che una poltiglia di pergamene accartocciate.
Non la memoria locale: e del resto perché mai, a distanza di secoli, qualcuno dovrebbe aver interesse a ricordare un anonimo monastero che non ha lasciato traccia sul territorio?
A dirla tutta, la comunità di Dalheim destava poco interesse anche nei secoli in cui era ancora attiva. Solamente in tre occasioni (nel 1244, nel 1264 e nel 1278) le cronache locali citano, en passant, un monastero che era stato edificato nel IX secolo accanto a una chiesa in pietra dedica a san Pietro, e che all’epoca dei fatti ospitava una comunità di religiose che vivevano secondo la regola agostiniana. Null’altro si sa di queste donne: non conosciamo i nomi delle loro badesse, non sappiamo quale fosse la provenienza delle religiose; a ben vedere, non sappiamo nemmeno dove abbiano trovato riparo le monache scampate a quel disastroso incendio che ne distrusse l’abitazione. Come impiegassero le loro giornate, cosa facessero per vivere, quali ambizioni e quali speranze avessero quelle donne: non lo sappiamo. Le fonti storiche non ce ne parlano.
Riguardo al monastero, conosciamo però un dettaglio: gli storici hanno identificato il luogo in cui l’edificio sorgeva anticamente. Tra il 1988 e il 1991, una serie di scavi archeologici permise di portare alla luce le fondamenta della piccola chiesa e del monastero, che si rivelò essere una struttura capace di ospitare quattordici donne contemporaneamente. Ma le scoperte degli archeologi non si fermarono qui: a poca distanza dal monastero fu individuato anche un cimitero, evidentemente in uso alla comunità religiosa, che per tutti questi secoli aveva custodito gli scheletri appartenuti alle monache del luogo.
Ritrovare scheletri medievali in buono stato di conservazione è quasi sempre una manna dal cielo per i ricercatori medici, che spesso riescono a tratte informazioni preziose da questi reperti archeologici. Fu così che, nel 2014, un team di studiosi prese alcuni degli scheletri rinvenuti a Dalheim e iniziò ad analizzarli nell’ambito di una ricerca medica dedicata a Pathogens and host immunity in the ancient human oral cavity, che in realtà nemmeno ci interessa. Ciò che invece ci interessa è la metodologia utilizzata: per raccogliere i dati di cui avevano bisogno, gli scienziati andarono ad analizzare gli accumuli di tartaro rinvenuti sui denti di queste monache medievali.
Benissimo, questa storia sta per entrare nel vivo: perché, analizzando, analizzando il tartaro di una delle monache di Dalheim, i ricercatori fecero una scoperta anomala. Sui denti di ‘sta monaca medievale, se ne stava del tartaro di un vivace colore blu.
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Ora, intendiamoci: nel titolare che la monaca aveva “i denti blu”, ho volutamente estremizzato. Non è che la monaca sfoderasse sorrisi blu elettrico tutte le volte che apriva bocca per parlare – più che altro, i ricercatori si stupirono non poco nel trovare, nel mezzo degli accumuli di tartaro, decine e decine di vistose particelle di un deciso e spiccante colore blu acceso. Queste particelle, peraltro, erano collocate su più di un dente e se ne stavano a profondità diverse nell’accumulo di tartaro: qualsiasi cosa fosse ‘sta roba blu, è chiaro che era entrata in contatto con la bocca della donna in ben più di una singola occasione.
Il ritrovamento destò negli scienziati una comprensibile curiosità.
Il primo step fu cercare di capire qualcosa di più sull’identità della monaca in questione: in prima battuta, un test al radiocarbonio permise di collocarne la morte in un lasso di tempo compreso tra il 997 e il 1162. Analisi ulteriori portarono ad affermare che, al momento del decesso, la monaca doveva essere una donna di mezza età (indicativamente, dai quarantacinque ai sessant’anni), deceduta per ragioni non meglio precisate senza che il suo scheletro riportasse traccia di fratture o altri traumi di rilievo. A livello di salute orale i suoi denti erano perfettamente sani, a esclusione degli accumuli di tartaro già menzionati e a esclusione di due molari che mancavano all’appello, presumibilmente estratti a seguito di una carie.
Scava e scava, i ricercatori portarono alla luce oltre un centinaio di particelle blu accumulatesi all’interno del tartaro di questa monaca. Si trattava di particelle molto piccole, con una dimensione media di 10.9 ± 9.5 μm: se ne trasse l’impressione che questi cosi le fossero entrati in bocca come in una specie di sottile polverina. A questo punto, gli scienziati cercarono di capire cosa diamine potesse essere ‘sta polvere bluastra che la donna si teneva in bocca: analizzate le particelle con la spettroscopia di Raman, i ricercatori rimasero stupefatti nel realizzare che sui denti della monaca se ne stavano tanti piccoli frammenti di lapislazzulo.
Dire che “la cosa si stava facendo interessante” vuol dire ricorrere a un modesto understatement. Giusto per inquadrare il dettaglio nel contesto appropriato: i lapislazzuli costano un accidente, e nel Medioevo avevano un valore ancor più elevato.
Come diamine faceva una monaca dell’anno mille ad avere centinaia di frammenti di lapislazzulo incastrati in mezzo ai denti? Disarmati, i ricercatori passarono la palla agli storici… e costoro avanzarono un paio di ipotesi.
1. La monaca dai denti blu assumeva lapislazzuli come terapia farmacologica nell’ambito della medicina lapidaria
Ne parlavo pochi giorni fa: la medicina medievale attribuiva alle gemme proprietà curative di tutto rispetto. Già Dioscoride consigliava di assumere per via orale polvere di lapislazzulo per curare pustole, ernie, ulcere e malattie oculari; quest’ultimo impiego viene suggerito di frequente anche in numerosi dispensari medici medievali provenienti dall’Oriente e composti in area islamica.
Eppure, questa possibile spiegazione presenta una grossa falla: nell’Europa del X-XI secolo, non ci è noto l’utilizzo del lapislazzulo a scopo medico. Solo verso la fine dell’XI secolo le presunte proprietà mediche del lapislazzulo cominciarono a essere impiegate nella farmacologia europea, grazie alla diffusione degli scritti provenienti dall’Oriente. Ma, entro quella data, la nostra monaca dai denti blu era già morta e sepolta.
Qualcuno potrebbe anche far notare che ben difficilmente una monaca residente in un piccolo monastero sarebbe stata in grado di sostenere i costi elevatissimi comportati da una simile terapia. Ma in ogni caso, qui il problema non si pone: negli anni in cui viveva la nostra amica, le “proprietà” mediche del lapislazzulo non erano ancora note agli Europei.
2. La monaca dai denti blu sbaciucchiava quadri sacri per devozione
Da sempre, le pratiche devozionali del cattolicesimo – soprattutto se espresse dal monachesimo femminile – sono state caratterizzate da slanci di affettività che spesso e volentieri si esplicavano attraverso letterali baci agli oggetti sacri. In particolar modo, a partire dal XIV secolo, si diffuse nell’Europa settentrionale il (mal)costume di baciare più volte al giorno le immagini sacre che illuminavano i libri di preghiera, con conseguenze deleterie che non tardarono a manifestarsi: capitava spesso che i baci ripetuti finissero col rovinare le miniature, causando il distaccamento e la caduta dei pigmenti colorati.
Nelle miniature, i lapislazzuli erano spesso usati per colorare le vesti della Madonna. Dunque è forse questo il modo in cui le particelle blu finirono col depositarsi sulle labbra, e poi sui denti, della monaca?
Ipotesi suggestiva, ma nuovamente improbabile. Anche in questo caso, ci stiamo lasciando suggestionare da un costume che è sì attestato nel Medioevo… ma non in quel piccolo frammento di Medioevo in cui ebbe a vivere la nostra amica.
3. La monaca dai denti blu era una miniatrice che confezionava manoscritti di gran lusso
Non sarebbe implausibile. Anzi, fonti terze ci confermano che questo scenario è perfettamente coerente con quanto accadeva, in quegli stessi anni, in altri monasteri non lontani da Dalheim. Sappiamo ad esempio che tra il 1140 e il 1168 un certo Sinold, bibliotecario del monastero maschile di Reinhardsbrunn, commissionò al monastero femminile di Lippoldsberg la redazione di alcuni libri liturgici di pregio, domandando esplicitamente che le miniature fossero eseguite da una certa N. – evidentemente una monaca particolarmente apprezzata per la qualità dei suoi disegni.
Per illuminare con le miniature un codice di un certo pregio, era quasi inevitabile far largo uso di pigmenti blu, ottenuti a partire dalla polvere di lapislazzulo. E innumerevoli fonti in nostro possesso ci dicono che i miniatori erano soliti portare alle labbra il pennello con cui stavano lavorando, per inumidirlo con la saliva, al fine di rendere il tratto più sottile quando dovevano creare piccoli dettagli. Un’abitudine che, inevitabilmente, faceva sì che piccole dosi di pigmento fossero introdotte nella cavità orale: non è implausibile pensare che, in tal modo, alcuni di questi piccoli pigmenti finissero col depositarsi sui denti finendo col rimanere lì in saecula saeculorum. Evidentemente, la nostra amica non si spazzolava i denti con particolare lena.
È dunque questo il modo in cui un centinaio di minuscoli pezzetti di lapislazzulo finì nella bocca della monaca dai denti blu? I ricercatori lo definiscono lo scenario più probabile, e per quel che vale io concordo pienamente: sì, possiamo affermare con ragionevole certezza che la nostra amica fu un’abile amanuense, specializzata in miniature. Talmente curato doveva essere il suo tratto che a lei furono evidentemente commissionati codici di un certo pregio, tali da richiedere un uso sistematico del prezioso pigmento blu.
Fu una scoperta non da poco. Dando alle stampe nel 2019 un articolo titolato Medieval women’s early involvement in manuscript production suggested by lapis lazuli identification in dental calculus, i ricercatori fecero notare che “la scoperta di lapislazzuli nel tartaro dentale di una religiosa dell’XI secolo […] costituisce la prima evidenza diretta circa l’utilizzo di un pigmento così raro e costoso, da parte di artiste di sesso femminile”. Astrattamente, i medievisti già sapevano che alcuni monasteri femminili erano dotati di scriptoria di tutto rispetto. Ma, soprattutto per quanto riguarda la Germania, “sono molto scarse le informazioni storiche riguardo le amanuensi di sesso femminile e la produzione libraria a loro riconducibile, in quel lasso di tempo che intercorre tra il periodo missionario anglosassone dell’VIII secolo e la grande espansione monastica del XII e del XIII secolo”.
Sulla base delle conoscenze derivanti dalle fonti d’archivio, gli storici erano al corrente di non più di cinque scriptoria femminili attivi in Germania in quell’arco temporale.
Ebbene, a questi cinque sarà bene d’ora in poi aggiungere anche un sesto: quello di Dalheim, dove – ormai è ragionevole supporlo – uno scriptorium di un certo pregio doveva sicuramente esistere. Ed è francamente sorprendente pensare che questo dettaglio sia stato portato alla luce dagli accumuli di tartaro rinvenuto sui denti di una monaca morta da un millennio: sorprendente, soprattutto perché la comunità di Dalheim ha lasciato “davvero poche tracce di sé, nelle fonti storiche. Dello scriptorium del monastero non sopravvive alcun libro, né proveniente dalla biblioteca monastica interna né custodito in altre collezioni. Pressoché invisibili alla storia documentata, le donne di Dalheim ci sono note solamente grazie ai ritrovamenti archeologici e a una manciata di brevi notazioni” che sono state fatte su di loro, en passant, dalle tre cronache che ho citato in apertura. Del loro passaggio su questa terra, si sarebbe totalmente persa la memoria se non fosse stato per questi due minimi elementi… e per un accumulo di tartaro sui denti di una morta.
Stupefacente – e confortante, sotto un certo punto di vista – notare come il progresso delle tecnologie e l’uso combinato di discipline differenti sia riuscita a “dare nuova luce alle vite di queste donne pie e modeste, che quietamente confezionavano i codici miniati dell’Europa medievale”.
La Storia è sempre in grado di sorprendere – anche quando tutto sembra esser destinato a sprofondare per sempre nell’oblio.
vocidaiborghi
Complimenti. Molto interessante
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Lucia
Grazie! 😀
Sì, sono forse le storie più belle, quelle che nascono così da ritrovamenti inaspettati!
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Umberta Mesina
Grazie! Mi piace questo genere di storia. Io avevo pensato alla pittura; non sapevo che il lapislazzuli si impiegasse anche per le miniature dei manoscritti, ma sapevo che certi materiali si accumulano nel corpo per l’abitudine di inumidire il pennello in bocca. A inizio Novecento molte donne si ammalarono perché lavoravano in industrie che usavano il radio per decorare i quadranti degli orologi e inumidivano i pennelli così. Meno male che il lapislazzuli non è tossico come il radio!
(O magari lo è e la monaca è morta per quello…)
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Lucia
Sì, che storia, quella delle povere radium girls :-\
L’ipotesi “pittura” non compare proprio nel paper dei ricercatori, e io credo che sia stata scartata a priori perché un affresco contenente pigmenti di lapislazzulo sarebbe stata DAVVERO una roba grossa, degna di far parlare di sé. Se quella chiesa avesse avuto degli affreschi così pregiati/costosi, probabilmente qualcuno lo avrebbe lasciato scritto – anche solo in una cronaca di viaggio, che ne so.
E del resto è ben difficile immaginare che una monaca agostiniana uscisse dal convento per dipingere quadri o affreschi per conto terzi.
Quindi l’ipotesi più plausibile è che li usasse, ma per le miniature 🙂
E comunque sì: nei codici di un certo pregio, erano di lapislazzulo tutti i vestiti della Madonna! Ne veniva fuori un abito di un colore acceso, e sufficientemente pregiato da adattarsi a adornare il corpo di cotanta donna 😉
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mariluf
Grazie sempre, Lucia. Mi è piaciuta tantissimo questa storia….
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Lucia
Grazie a te! 😀
Sì, sono storie curiose, piacciono parecchio anche a me queste scoperte inaspettate fatte da ritrovamenti casuali!
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Elena
Per un attimo ho pensato ad un avvelenamento da piombo, e invece no! Una storia molto più avvincente! Da grande appassionata di minerali e rocce ti ringrazio di aver iniziato questo filone di articoli, un bel po’ di pane per i miei denti!
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Lucia
Ooohh, sono contenta di trovare un’altra appassionata! 😀
(O meglio: la mia unica passione sono i lapidari medievali, le gemme in sé e per sé non mi hanno mai affascinata particolarmente. Ma i lapidari sono veramente una miniera di curiosità stupende!).
Bene, a maggior ragione ne scriverò con piacere, allora! 😛
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