Alla scoperta del tarnif, la pietra medievale che rendeva invisibili tre giorni al mese

Nel Medioevo, la gente era convinta che le gemme e le pietre preziose possedessero principi attivi che le rendevano capaci di curare le malattie e di fare molte altre cose ancora.
A noi sembra strano, ma a ben vedere non dovrebbe. Quello che ai nostri occhi pare curiosamente simile alla versione medievale della cristalloterapia, era all’epoca nulla più che una convinzione scientifica come tante altre, come tante altre destinata a rivelarsi successivamente errata.

In fin dei conti, perché gli studiosi medievali non avrebbero dovuto avanzare questa ipotesi?
Se la camomilla può effettivamente agevolare il sonno e la corteccia di salice ha davvero il potere di far scendere la febbre, perché mai dovrebbe sembrare inverosimile a priori l’ipotesi che il corallo possa alleviare i dolori della dentizione?
Ovviamente perché non è vero, ma questo lo sappiamo noi moderni. Nel Medioevo, la gente faceva ipotesi, conduceva studi scientifici e, quando ne aveva l’occasione, utilizzava le gemme a mo’ di attivo, spesso maneggiandole allo stesso modo in cui gli speziali trattavano foglie, radici e bacche. Vale a dire che prendeva le pietre preziose e le lasciava in infusione per farne un vino medicato, o (gasp!) le triturava per ridurle a polverina, e poi somministrarle al paziente (o alla cavia).

Evidentemente, stiamo parlando di trattamenti molto costosi che erano alla portata di pochi eletti. E, secondo alcuni storici, questo dettaglio contribuisce a spiegare come mai la brava gente del Medioevo ci abbia messo così tanto a rendersi conto che, in effetti, la cosa non funzionava.
Vale a dire: la camomilla cresce letteralmente nei campi, ha un costo irrisorio e se ne trova in quantità. Chiunque abbia interesse ad analizzarla “in laboratorio” se ne può facilmente procurare a quintali, a fronte di una spesa irrisoria, e fare tutti gli esperimenti che vuole per vedere cosa funziona e cosa no.
Fare la stessa cosa col corallo o col diamante comincia a diventare un tantino più oneroso – e anche ammesso di avere la disponibilità economica per sobbarcarsi quella spesa, resta comunque una difficoltà oggettiva nel reperire grandi quantità di materia prima.

È probabilmente questa una delle ragioni per cui la comunità scientifica dell’epoca ci mise parecchio tempo, prima di abbandonare la teoria circa le proprietà occulte delle pietre. Entro il XIV secolo, divenne chiaro più o meno a tutti che le gemme (ahinoi) non possedevano realmente quelle mirabolanti proprietà che tradizionalmente erano state attribuite loro. Ma fino a quella data, la convinzione che pietre e cristalli contenessero “principi attivi” capaci di fare meraviglie era condivisa da buona parte degli intellettuali. E, in quanto tale, ha lasciato traccia di sé negli scritti di personaggi di tutto rispetto.

Ad esempio: quando santa Ildegarda di Bingen afferma che il topazio previene le intossicazioni alimentari, non lo dice perché è pazza: lo dice rifacendosi a una convinzione che era realmente diffusa all’epoca.
Quando il monaco Marlbodo, vescovo di Rennes, si metteva a tavolino per comporre un Liber lapidarum in cui elencava a una a una le virtù occulte delle pietre, non lo faceva perché la Chiesa medievale praticasse la cristalloterapia così come la intendiamo oggi. Lo faceva perché le sue erano convinzioni normalmente condivise dagli intellettuali, che con disinvoltura arrivavano spesso ad attribuire alle pietre proprietà che andavano ben oltre i normali poteri curativi.

Vi era ad esempio chi credeva che lo zaffiro potesse allontanare i pensieri impuri; vi era chi credeva che lo smeraldo si illuminasse in presenza di un veleno e vi era chi credeva che il lucido diamante avesse il potere di proteggere dai demoni. Insomma: alle gemme, si attribuivano frequentemente proprietà che nessun intellettuale dell’epoca sarebbe stato disposto a definire magiche (“non è magia, ahò! C’è scritto nei miei libri di studio!”)… ma che sicuramente paiono parecchio magiche agli occhi di noi moderni, che guardiamo a queste affermazioni con diversa prospettiva.

È stato proprio questo il motivo che ha spinto me e Babacio ad attingere al mondo dei lapidari, quando s’è trattato di cercare un trait d’union che potesse visivamente collegare tra di loro tutte le bamboline che andranno a comporre la collezione de Le Masche. Dovendoci prendere una libertà creativa, c’è piaciuta l’idea di puntare sulle gemme: ognuna delle nostre streghette indossa un amuleto storicamente plausibile, cioè basato su quanto realmente scrivevano i lapidari medievali.

A Sibilia e Pierina, le bambole ispirate alle due streghe milanesi di cui ieri raccontavo la storia, ci è piaciuta l’idea di far indossare due piccole pietre di tarnif. E se qualcuno si stesse chiedendo cosa diamine sia il tarnif e da dove spunti fuori: ecco qui la spiegazione.

***

In primo luogo, il tarnif non esiste.
O, se esiste, lo fa probabilmente sotto un altro nome: come fa notare desolatamente Claude Lecouteux, autore di uno studio sui lapidari medievali, il più grande ostacolo dello studioso risiede proprio nella terminologia utilizzata. La stessa pietra poteva essere chiamata in modi diversi a seconda dell’autore, e sulla classificazione c’era molta incertezza: gli studiosi potevano trovarsi a dover descrivere gemme che non avevano mai visto dal vivo; talvolta facevano mischioni, unendo in un tutt’uno pietre che in realtà avevano solamente un colore simile, talvolta al contrario “inventavano” pietre inesistenti trovandosi di fronte a una gemma che non riuscivano a identificare con nessun’altra di loro conoscenza.

E poi talvolta inventavano punto e basta… perché in un’epoca in cui si parlava di sciapodi e ciclopi, vuoi che non spuntasse fuori di tanto in tanto una qualche pietra immaginaria?

Il tarnif, in effetti, ha tutta l’aria di rientrare in quest’ultima categoria. Viene citato in un unico lapidario, il Libro di Sidrach, composto probabilmente nella seconda metà del Duecento a partire da fonti arabe, ebraiche e cristiane al tempo stesso. Il libro, che porta il nome di colui che gli fu pseudoepigraficamente attribuito come autore (un certo Sidrach, pronipote di quel Japeth di biblica memoria) ha la particolarità di citare un buon numero di gemme che non sono attestate in alcuna altra opera: corcice, diana, sorige, reflambino e vermidoro. E poi il tarnif, naturalmente.

Presentatoci dall’autore come una gemma di colore bianco, spesso incorniciata da striature verdi che ne percorrono i bordi (qualche appassionato di minerologia ha ipotesi da avanzare?), il tarnif sembrerebbe essere una pietra che si trova in abbondanza sui terreni costieri, dove viene sospinta dalle onde. Guadagnarsene un esemplare è una bella fortuna, perché la pietra ha proprietà a dir poco interessanti: in primo luogo, conferisce l’invisibilità a chi la indossa, permettendogli di camminare tra i suoi nemici senza esser visto (e di fare marachelle di ogni tipo, mi vien da aggiungere).
Se utilizzata con regolarità, protegge dalla morte improvvisa; se indossata da una persona che viene ferita, rallenta il dissanguamento e spinge un po’ più in là il momento del decesso (non una gran consolazione, ma sempre meglio di niente).

Interessanti sono anche le sue proprietà notturne: se posata ai piedi del letto, sotto le lenzuola, genera sogni che mostrano al dormiente ciò che più ama e ciò che più odia al mondo. E se ammetto di trovare piuttosto ristretto il novero delle occasioni in cui siffatti sogni potrebbero essere d’aiuto, già più interessante è l’attività onirica che il tarnif è in grado di generare se viene messa sotto al cuscino, vicino alla testa di chi sta dormendo. In questo caso, la pietra preziosa permette di ripercorrere in sogno ogni singolo dettaglio di ciò che è stato fatto, detto, udito o visto nell’arco degli ultimi quattro anni: cosa utile non solo per chi ha bisogno di capire dov’è che ha perso le chiavi di casa, ma anche per l’uomo che ha urgenze più impellenti – tipo “dov’è che ho già visto questa faccia che non mi è nuova? Quest’uomo mi sta pedinando? Sono inseguito dalle spie?”.

Pietra dalle proprietà preziose, il tarnif… se non fosse che per un piccolo difetto. Funziona solamente per tre giorni al mese, e – che io sappia – il lapidario non specifica nemmeno se i tre giorni siano consecutivi, liberamente usufruibili al momento del bisogno, oppure legati a specifici attimi del ciclo lunare.
Gira e rigira, salta fuori che compiere prodigi non è cosa facile nemmeno per chi ha sul comodino una pietra magica medievale. Verrebbe da dire che – allora come oggi – se la soluzione sembra troppo facile, la delusione è sempre dietro l’angolo.

11 risposte a "Alla scoperta del tarnif, la pietra medievale che rendeva invisibili tre giorni al mese"

    1. Lucia

      Ooohh, grazie, se scopri qualcosa facci sapere!!

      Ma in effetti avrebbe molto senso, perché formalmente il Libro di Sidrach si presenta come un prodotto della cultura ebraica.
      Nel senso: chi sia veramente l’autore, non lo sappiamo, e gli storici non sono nemmeno concordi su quale sia il contesto culturale in cui è stato composto. L’unica cosa certa è che la stesura iniziale è stata fatta in antico francese (cioè, non è un testo che nasce in Oriente).

      Però, formalmente, il libro dice l’esatto opposto e afferma di essere la raccolta degli insegnamenti del signor Sidrach, diretto discendente di Japeth e vissuto in epoca biblica, a qualche generazione di distanza dal diluvio universale. Per dire: a un certo punto del libro (che non parla solo di pietre preziose: è un testo medico-filosofico in senso ampio), Sidrach esorta a pregare il Dio ebraico e profetizza la nascita di Gesù: è dichiaratamente ebreo.

      Se l’autore, chiunque sia, è riuscito a inserire termini ebraici o ebraicheggianti, ha fatto bene il suo lavoro! 😀

      Se ti può essere utile per studiarci su, ci sono altre varianti del termine “tarnif” (attestate nelle varie copie dei manoscritti medievali che includono il Libro di Sidrach – all’epoca aveva avuto grande diffusione!). A seconda del manoscritto, il tarnif è variamente trascritto come tarnif, trasmif, craffinif, cramif, crasmir, carnif, carscinif, crasmif, crasinif, armif, eramif, irasmif, gra(s)mif, trasmif, brasmuef, cramis, grasimi

      (Poi uno dice: gli storici si lamentano della terminologia 😂)

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  1. Manuela Cosenza Liberati

    Ma magari esistesse davvero una pietra con i “principi attivi” del Tarnif!
    L’invisibilità (anche solo per tre giorni al mese) è il più grande “potere” che l’uomo possa desiderare: per scoprire cose nascoste, sventare pericoli, proteggersi dai nemici, prendere al supermercato senza pagare, fuggire senza essere mai più ritrovati, e compiere tante tante tante altre azioni.

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    1. Lucia

      Prendere al supermercato senza pagare rischiava di essere problematico, mi pare che il tarnif desse invisibilità solo a chi lo indossava (non agli oggetti con cui veniva in contatto). Quindi mi sa che il ladro da supermercato avrebbe lasciato traccia con un carrello pieno di cibo e semovente 😂

      Però concordo ovviamente su tutto il resto, potere mica da poco l’invisibilità!
      Anche se io (accantonando per un attimo le attività di spionaggio, per le quali è evidentemente imbattibile) dico sempre che se potessi scegliere un superpotere o un incantesimo, sceglierei quello del teletrasporto. Vuoi mettere la comodità? 😁

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  2. Ago86

    Sentir parlare di una pietra che rende invisibili mi ha fatto tornare alla mente un ricordo di liceo: Calandrino e l’elitropia!

    E solo con questo post comprendo che il povero Calandrino era meno stupido di quanto ritenessi, perché non è caduto in una balla che era stata inventata di sana pianta sul momento, ma aveva delle radici nelle convinzioni intellettuali in voga un paio di secoli prima.

    Vedi quante cose non insegnano a scuola? Le apprendo solo ora!

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    1. Lucia

      Assolutamente sì, Calandrino non era (poi così tanto) stupido, e ti dirò di più: l’elitropia non se l’è inventata Boccaccio, esisteva davvero. O meglio: ovviamente non esisteva, ma era citata spesso nei lapidari e proprio con le proprietà che le vengono attribuite nella famosa novella.

      All’epoca in cui Boccaccio scriveva, evidentemente solo la gente un po’ grulla avrebbe prestato fede a queste dicerie ormai superate (donde la componente ironica della storia), però Calandrino aveva tutte le ragioni del mondo per credere a questa cosa: l’elitropia era davvero citata nei testi scientifici un po’ datati!

      Ti dirò: in effetti, più approfondisco la storia della magia, più mi rendo conto che conoscerla permette di capire meglio tanti dettagli dell’arte, della cultura, della letteratura di un tempo. Lo dicevamo anche a lezione coi miei compagni di corso: ci sono pochissime università che offrano corsi specifici dedicati a questa materia, è davvero poco studiata. Eppure ha influenzato le società del passato sotto una infinità di punti di vista!

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