Il misterioso pavimento cosmatesco di Westminster Abbey

Rimase nascosto per oltre centocinquant’anni, protetto da una sottile pavimentazione in legno che gli era stata delicatamente adagiata sopra per proteggerlo da ulteriore degrado. Tornò a vedere la luce solo nella primavera del 2010, dopo un lungo e laborioso restauro che fu completato appena in tempo per permettere al Regno Unito di mostrare orgogliosamente questo capolavoro a tutto il mondo, in occasione delle nozze tra William e Kate.

Sto parlando del pavimento che fronteggia l’altare di Westminster Abbey: un piccolo quadrato di 7,58 m2 decorato con oltre 80.000 frammenti di pietre e pezzi di vetro colorato, uniti a ricreare un mosaico con motivi geometrici astratti.

I Londinesi lo chiamano “Cosmati Pavement”, anche se noi Italiani preferiremmo definirlo un pavimento “in stile cosmatesco”. In ogni caso, si tratta di una pavimentazione abbellita secondo uno stile decorativo che si ispira all’arte bizantina ma che fu particolarmente popolare nella Roma del XII e del XIII secolo. Non a caso, questo tipo di decorazione pavimentaria cominciò ad essere definita “cosmatesca” in omaggio alla famiglia dei Cosmati, una storica dinastia di marmorari romani che la resero famosa in tutta Europa.

Poco ma sicuro, lo stile cosmatesco aveva un estimatore in re Enrico III di Inghilterra – il quale, nel 1245, decise di ristrutturare in stile gotico la maestosa abbazia di Westminster, che era stata eretta esattamente due secoli prima per volontà di Edoardo il Confessore.

Era stata eretta a mo’ di ex voto, se così vogliamo dire: mentre si trovava in esilio in Normandia, il santo re aveva giurato che avrebbe donato a Londra un’abbazia meravigliosa, se solo fosse riuscito a tornare sul suo trono in terra patria. Storia insegna che effettivamente ci riuscì: e quando la chiesa fu pronta per accogliere cerimonie di tale importanza, tutti i sovrani della monarchia inglese la scelsero come luogo per la loro incoronazione, volendo in tal modo onorare simbolicamente l’ex voto fatto dal loro predecessore.

Ebbene: correva l’anno 1245, quando Enrico III decise di ristrutturare radicalmente l’edificio per ricostruirlo in stile gotico, più affine ai gusti estetici del tempo. Entro quella data, era già consolidata la consuetudine di farsi incoronare a Westminster: sicché, gli architetti si posero il problema di decorare con la dovuta sontuosità il punto in cui, da tradizione, il trono del monarca veniva collocato nel corso della cerimonia. Per l’appunto: la scelta ricadde sul sontuoso pavimento cosmatesco, per creare il quale furono fatte arrivare appositamente da Roma delle maestranze altamente specializzate, poste sotto la guida di un certo mastro Odorico.

Abbiamo già avuto modo di ammirarlo in apertura, ma adesso sarà il caso di osservarlo con maggior dettaglio – perché davvero il pavimento di Westminster Abbey non è qualcosa che si veda tutti i giorni:

Un cerchio centrale di onice screziato (coincidente col punto in cui il re sostava durante la cerimonia di incoronazione) è circondato da una miriade di altri motivi geometrici che si intrecciano, si intersecano, si mescolano l’uno all’altro. La resa finale è sicuramente armonica… ma, curiosamente, non ha nulla di simmetrico: in questo pavimento, non v’è un singolo elemento che si ripeta uguale per due volte. Possiamo forse farcene un’idea dando un’occhiata alle figure che sono inscritte nei quattro cerchi che circondano l’onice centrale: aguzzando la vista, ci renderemo contro di star guardando un cerchio, un esagono, un eptagono e un ottagono, diversissimi anche per i pattern decorativi che ne impreziosiscono la superficie interna.

Chiaramente, l’ispirazione per questo disegno arrivò dal pavimento di Haga Sofia, la chiesa nella quale erano incoronati gli imperatori d’Oriente. Ma l’anonimo artista che disegnò il progetto per Westminster non si limitò a una banale copia; né si contentò di creare qualcosa che potesse essere gradevole alla vista. Come spesso capitava all’epoca nelle chiese medievali, l’artista decise di attingere a piene mani al repertorio del simbolismo religioso.

E infatti, osservando attentamente il pavimento, si noterà che è stata posta una certa enfasi sul numero del sei, suggestivo perché richiama i sei giorni che Dio impiegò per creare il mondo. La pavimentazione è piena di esagoni e di esagrammi, e il disco centrale in onice è incorniciato da sessanta pietre romboidali, ognuna delle quali occupa uno spazio pari a un angolo di sei gradi.
Con frequenza di poco inferiore, ricorre sul pavimento il numero del quattro: quattro sono i cerchi che circondano la lastra centrale; quattro sono i lati dei quadrati nei quali i cerchi sono inscritti; e naturalmente, quattro sono gli elementi di cui si compone il mondo, che (come osservavano alcuni commentatori medievali) sono richiamati anche dalle quattro diverse striature di colore che si scorgono nella pietra centrale.

Insomma, sembra delinearsi un tema conduttore: il pavimento pare voler simbolicamente richiamare il mondo, gli elementi che lo compongono e l’opera creatrice dell’Onnipotente. E che fossero proprio questi i temi principali della decorazione ci viene confermato da un’inscrizione, oggi pressoché illeggibile, che tuttavia (per nostra gran fortuna) fu trascritta nel XV secolo dal monaco John Flete.
Ebbene: per dirla con le enigmatiche che componevano lo scritto,

Nell’anno del Signore milleduecento dodici più sessanta meno quattro, il terzo re Enrico, la città di Londra, mastro Odorico e l’abate di Westminster stesero queste pietre di porfido.
Se il lettore considererà attentamente tutto ciò che è stato posto sul pavimento, troverà qui la fine del primum mobile. Un riccio è tre anni. Prendi cani, cavalli, uomini, cervi, corvi, aquile, grandi balene, e infine il mondo: ognuno è il triplo di chi lo precede. Il globo sferico nel centro è l’archetipo del macrocosmo.

Chiunque abbia dettato queste parole aveva sicuramente voglia di divertirsi; e, per sua fortuna, ha avuto a che fare con storici non hanno esitato un attimo prima di raccogliere il guanto della sfida.
Per quanto riguarda il bizzarro modo in cui l’inscrizione ha voluto indicare la data di esecuzione dell’opera, c’è grossomodo un consenso unanime riguardo la seguente spiegazione: 1212 più 60 equivale a 1272, cioè l’anno in cui morì Enrico III. Per contro, 60 meno 4 equivale a 56, cioè la durata complessiva del suo regno. Verrebbe insomma da pensare che la lavorazione del pavimento cosmatesco sia stata avviata nel 1268 (1212 + 60 – 4) e sia stata conclusa in un anno imprecisato ma sicuramente posteriore a quel 1272 in cui è deceduto il re che aveva voluto commissionare l’opera.

Decisamente più enigmatica è la seconda parte dell’inscrizione, che fortunatamente fu commentata nel XV secolo dal monaco Richard Sporley. È lui a chiarire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che agli occhi di uomo medievale “il primum mobile rappresenta il mondo. Dell’età che avrà il mondo alla fine dei tempi viene qui fatta una stima, aumentando di volta in volta di tre volte la durata media della vita”.

In effetti, secondo alcuni bestiari medievali, la durata media della vita di un riccio era convenzionalmente stimata in tre anni; si riteneva che un cane ne vivesse in media nove e che un cavallo ben tenuto potesse raggiungere i ventisette. Un uomo in buona salute poteva ambire a una età massima di ottantun anni… e così via, a multipli di tre, per tutti gli animali elencati dall’iscrizione. A conti fatti, l’Apocalisse arriverà a 19.683 anni dal momento della creazione del mondo – o quantomeno, così assicura l’anonimo autore dell’inscrizione.

Giustamente tranchant, l’abbazia di Westminster ci tiene a precisare che “secondo l’unica interpretazione medievale in nostro possesso, il pavimento cosmatesco rappresenta dunque il mondo e la sua fine”. E questo è sicuramente incontestabile.
Eppure, in anni recenti, alcuni stimatissimi e autorevoli studiosi hanno notato singolari somiglianze tra il motivo centrale del pavimento e alcune figure geometriche che sono riportate con frequenza nei testi duecenteschi di magia. E dirò di più: quasi sempre, questi testi medievali raccomandavano di tracciare quei segni sul pavimento; questo, in teoria, avrebbe permesso al mago di convogliare tutt’intorno a sé le benevole e potenti energie cosmiche.   

(Un esempio precoce; ma in realtà esistono figure che hanno somiglianze ancora più marcate)

Solo una coincidenza? Forse sì e forse no, nel senso che il committente di tutto questo ambaradan nutriva notoriamente un certo interesse per la magia: re Enrico III d’Inghilterra prendeva raramente decisioni importanti senza prima essersi consultato con un astrologo, e di lui si disse anche che avesse l’abitudine di ricorrere ai sortilegi per eliminare i suoi nemici.

Ha davvero senso ipotizzare che il pavimento di Westminster (del resto, oggettivamente pieno di enigmi) sia stato disegnato (anche) tenendo a mente quei dettami che erano tanto cari al suo regale committente?
Beh, è chiaro che siamo di fronte a una pura ipotesi. E tuttavia, come fa notare a buon diritto l’inappuntabile storico Francis Young,

Il fatto che il trono per la cerimonia di incoronazione fosse collocato precisamente al di sopra della rappresentazione del macrocosmo è un dettaglio altamente suggestivo. Potrebbe suggerire uno scenario in cui Enrico, facendo raffigurare sul pavimento una riproduzione simbolica dell’universo, intendeva per suo tramite convogliare sulla persona del re tutte le forze astrologiche del cosmo. […] Se uniamo a questo dettaglio la consuetudine per cui, nel Medioevo, le date delle incoronazioni venivano abitualmente scelte sulla base di calcoli astrologici fatti per stabilire i giorni più propizi, il pavimento cosmatesco dell’abbazia di Westminster comincia a sembrarci una sorta di dispositivo mistico finalizzato al rafforzamento del potere del sovrano.

Chiaramente, nulla più che una ipotesi. Ma – va detto – probabilmente meno campata per aria di quanto potrebbe sembrare a prima vista: all’epoca in cui veniva composta quest’opera d’arte, l’astrologia e la magia erano considerate discipline come tante altre e persino la Chiesa sospendeva il suo giudizio: una ferma condanna sarebbe arrivata, sì… ma non prima di metà Trecento.
Insomma: il fatto che una idea paia assurda a noi non vuol necessariamente dire che la gente medievale guardasse alla cosa dal nostro stesso punto di osservazione.

Chiaramente, vale anche il contrario: il fatto che alcuni storici si siano lasciati suggestionare da una idea che a loro pare plausibile non vuol necessariamente dire che la loro ipotesi trovi un effettivo riscontro nella realtà. Eppure, quello del sigillo magico a Westminster resta pur sempre un aneddoto curioso da rivedersi con parenti e amici quando vi capiterà di fare un viaggio a Londra.
Minimo minimo, li stupirete tutti.


Per approfondire:

  • The Cosmatesque Mosaics of Westminster Abbey. The Pavements and Royal Tombs; History, Archaeology, Architecture and Conservation di Warwkick Rodwell e David Neal
  • Magic in Merlin’s Realm. A History of Occult Politics in Britain di Francis Young

Anche Jonathan Hughes, in The Rise of Alchemy in Fourteenth-Century England. Plantagenet Kings and the Search for the Philosopher’s Stone, ha dato una lettura esoterica al pavimento di Westminster, in cui l’autore ravvisa però significati più propriamente alchemici. Mastico abbastanza la storia della magia ma sono piuttosto ignorante in materia di alchimia, ma mi pare di capire che la lettura alchemica di Hughes abbia suscitato alcune perplessità tra gli esperti del settore, parendo loro troppo forzata e “a tesi”.

5 risposte a "Il misterioso pavimento cosmatesco di Westminster Abbey"

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