Perché facciamo così poca memoria delle epidemie? (Tre anni dopo)

Sapete che giorno è oggi?
Ecco, appunto.

Oggi, 18 marzo, è la giornata nazionale in memoria delle vittime del coronavirus, istituita nel 2021 «al fine di conservare e di rinnovare la memoria di tutte le persone che sono decedute a causa di tale epidemia». Ma (con l’ovvia esclusione dei tributi istituzionali e dei doverosi servizi che sono andati in onda sui telegiornali), qualcuno di voi ha realmente avuto la percezione che si tratti di una ricorrenza particolarmente sentita dalla popolazione?

Per quanto mi riguarda: io no.
Fino all’anno scorso, l’infosfera in cui sono immersa aveva raccolto l’input con un certo entusiasmo, dedicando effettivamente questa giornata alla memoria delle vittime (o alla preghiera in loro suffragio, nel caso di alcuni siti cattolici). Quest’anno: silenzio totale. Può darsi che l’algoritmo di Facebook abbia voluto usarmi una scortesia nascondendomi contenuti altrimenti interessanti; ma, limitandomi alla mia personalissima esperienza empirica, non un singolo post a memoria delle vittime mi è apparso nella home (in compenso, ho visto numerosi titoli dedicati al Global Recycling Day, di cui oggi ricorre la sesta edizione).

Viviamo in un’epoca in cui la gente condivide sui social pure quello che si mangia a cena; e le vittime italiane del coronavirus sono 188.750 (di cui 212 che si sono aggiunte all’allegra brigata nell’arco dell’ultima settimana). Pur mettendo in conto quei meccanismi di risposta psichica che si instaurano nel momento in cui una popolazione si rende conto di dover convivere per chissà quanto con una catastrofe che manda vittime al Creatore a botte di duecento morti a settimana, qualcuno potrebbe ingenuamente stupirsi del singolare riserbo con cui l’Italiano-medio ha deciso di non approfittare di questa giornata per onorare pubblicamente il ricordo dei suoi defunti.

Ma c’è poi da stupirsi?

Le nostre città sono piene di memoriali in ricordo dei caduti della Grande Guerra, ma si contano sulle dita di una mano i monumenti in onore delle vittime della spagnola (che sono state ben di più). E se forse i morti di peste sono troppo lontani nel tempo per suscitare in noi una risposta emotiva forte, il nostro cuore si riempie di giusto sdegno tutte le volte che pensiamo alle donne di fine ‘800 sfruttate dai loro datori di lavoro, ma nessuno indice giornate in memoria dei marinai che, nella stessa epoca, venivano mandati a frotte a morire di scorbuto nonostante la comunità medica avesse segnalato a più riprese quale sarebbe stato il metodo (efficacissimo, ma costoso) per prevenire quella gigantesca strage umana.

Come scrivevo tre anni fa, in tempi forse non ancora così sospetti, è un dato di fatto che le società tendano a fare poca memoria delle epidemie; e persino di quelle concluse, che potrebbero ormai essere guardate con distacco e senza eccessivi patemi d’animo.

Ma dove nasce questa incomprensibile tendenza? Un paio di giorni fa, ha provato a dare risposta a questa domanda il dottor Nicholas Bonneau, docente di Storia della Salute Pubblica all’Università del Maryland, invitato dall’Università di Oxford a tenere un seminario titolato A Repression of Things Past: Reflections on the Memory and Pandemics in the Wake of Covid.

***

Quali sono state le cinque epidemie più letali della Storia? La risposta fornita da Bonneau potrebbe sorprendere e anche sconfortare, tenuto conto del fatto che, a quanto pare, ci troviamo a vivere nel bel mezzo di due di queste.

Ma la nostra attenzione dovrebbe spostarsi su un altro dato: quanti di noi sono a conoscenza del fatto che l’influenza di spagnola ha fatto più caduti della Grande Guerra? E se la Morte Nera di metà Trecento è effettivamente molto nota, quanti di noi saprebbero dire qualcosa sulla peste di Giustiniano, che con i suoi 25 milioni di vittime non fu esattamente una passeggiata? O meglio ancora: quanti di noi hanno la consapevolezza del fatto che la peste manzoniana fu, tutto sommato, una passeggiata di salute rispetto al Covid-19, o che la tubercolosi fece un numero di morti così contenuto da non rientrare nemmeno nella top five dei morbi più letali della Storia?  

Il fatto gli è che – per citare l’efficace definizione di Bonneau – esistono delle epidemie irresistibilmente sexy e delle epidemie un po’ ciospe che non piacciono a nessuno. Come capita per ogni celebrity crush che si rispetti, molta della nostra fascinazione per le malattie del passato è data dalla loro popolarità sul grande schermo o sulla carta stampata: tutti noi conosciamo la peste manzoniana e quella che colpì Londra una trentina d’anni dopo, grazie alla fama de I Promessi Sposi e del Diario dell’anno della peste di Defoe. Le ricordiamo, le studiamo a scuola e le citiamo spesso, tendenzialmente ingigantendone portata e conseguenze: nella maggior parte dei casi, non abbiamo la consapevolezza del fatto che si trattò di epidemie molto limitate nello spazio, che decimarono sì uno sparuto gruppo di città jellate ma che non riuscirono mai a estendersi in un’area più vasta. Per capirci, nulla di neanche lontanamente paragonabile al colera ottocentesco (quello sì, diffusosi a macchia d’olio e in maniera incontrollata): una discreta catastrofe di cui però quasi nessuno si ricorda, perché sono molto scarsi i romanzi che l’hanno scelto come ambientazione.

Direbbe Bonneau che il colera, pur essendo un’epidemia che sa indubbiamente il fatto suo, deve rassegnarsi ad avere un bassissimo sex appeal, probabilmente perché un destino cinico e baro l’ha privato di una adeguata visibilità mediatica. E per fare un esempio eclatante di un’altra pestilenza andata incontro allo stesso destino, il ricercatore ha portato all’attenzione di noi pubblico in sala la terrificante storia del misterioso Throat Distemper che, tra il 1735 e il 1740, flagellò le colonie inglesi del New England.

La malattia (che alcuni identificano con la difterite, anche se i sintomi non combaciano del tutto e la mortalità è completamente illogica) riuscì ad uccidere nell’arco di tre anni l’80% dei bambini sotto i dodici anni che erano vivi al momento al momento dello scoppio del contagio (per chi se lo stesse chiedendo: sì, un dato certo, non una stima degli storici fatta a posteriori). Sono cifre e percentuali così assurde che la nostra mente fatica anche solo a immaginarle (che razza di vita ebbero, i bambini sopravvissuti? Come fu tornare a scuola dopo la mattanza e, di lì a qualche anno, cercare tra i propri coetanei un partner da sposare?).

Fiumi di inchiostro potrebbero essere usati nella narrativa per descrivere a tinte fosche questo eccidio senza pari, ma caso vuole che ciò non sia mai accaduto e che neppure il folklore abbia conservato tracce della catastrofe. E così, il Throat Distemper è stato confinato alle note a piè di pagina dei volumi di storia locale, privo addirittura di un nome e di una diagnosi: senza un Boccaccio, un Manzoni o un Defoe a gestire le PR, neppure le epidemie più aitanti riescono a fare presa sull’opinione pubblica.

***

Altro esempio: il vaiolo è un’epidemia che tende a esercitare un certo fascino in chi ha gusti un po’ meno mainstream, perché è riuscita a passare alla Storia come la prima malattia per cui è stato possibile trovare un vaccino. Ma, giocando sulla terminologia utilizzata in lingua inglese per indicare le due patologie, Bonneau ha fatto notare che il vaiolo (smallpox) ha avuto una sorella cattiva eloquentemente chiamata Great Pox. Sto parlando della sifilide, che ha mandato al Creatore qualcosa come cinque milioni di individui e che ha plasmato la sensibilità della società moderna in modi che l’individuo-medio non riesce nemmeno a immaginare (per esempio, dando origine a una pruderie sessuale e a un’ondata di misoginia presentatesi in forme che, oggettivamente, non esistevano nel Medioevo. E di cui, in molti casi, sentiamo ancora l’eco).

Ma oggi la sifilide è una malattia gravata da due grossi malus: quello di essere ancora esistente e quello di essere facilmente gestibile. L’abbiamo derubricata a una di quelle tante rogne a trasmissione sessuale per evitare le quali si raccomanda di utilizzare protezioni; ma è ben altra, adesso, la diagnosi che tutti pregano di non dover mai ricevere dopo una idiozia fatta da ubriachi senza aver preso precauzioni. Il vaiolo, invece, ha quel fascino d’antan delle malattie vecchio stampo “come non se ne fanno più al giorno d’oggi, signora mia”; e oltretutto ha avuto la galanteria di cedere il passo alla medicina e di farlo al momento giusto: ci piace ricordarlo perché costituisce il caso più unico che raro di una epidemia che è stata completamente eradicata grazie al progresso della scienza, in una vittoria a tutto campo da parte dei buoni.

Capita di rado. Tendenzialmente, la storia delle epidemie è costellata di insuccessi cocenti e irrefrenabili stragi, che mettono a nudo la fragilità intrinseca dell’umanità. Oltretutto, se (almeno in teoria) guerre e genocidi possono essere evitati con un semplice atto di volontà da parte degli esseri umani, lo scoppio di una epidemia e la sua successiva debellazione non sono esattamente quel tipo di evento che può essere deciso a tavolino; sicché, diventa piuttosto limitata anche la funzione educativa della rimembranza, vista come strumento per evitare il ripetersi delle passate sciagure.

Insomma, si tende a fare poca memoria delle epidemie perché, all’atto pratico, ci sembra che il ricordarle sia un atto che apporta ben pochi vantaggi concreti. Certo: da queste considerazioni utilitaristiche esula la dimensione più filosofica legata alla pietas verso i defunti, troppo facilmente ridotti a numeri impersonali in un asettico bollettino medico; e, in effetti, è proprio su questo aspetto e su questa leva emotiva che tendono, efficacemente, a calcare le mano tutte le iniziative che, or qua e or là, vengono organizzate dagli operatori dei beni culturali che intendono fare divulgazione sulle grandi epidemie passate.

Per quegli strani scherzi che di tanto in tanto la Storia ama fare ai suoi cultori, Nicholas Bonneau andò incontro al singolarissimo destino di dover organizzare un’esposizione dedicata all’epidemia di spagnola da inaugurare negli ultimi mesi del 2019, quando forse il coronavirus già cominciava pian piano a circolare. La mostra, ospitata presso il Mütter Museum di Philadelphia, si poneva l’obiettivo di valutare i tempi e i modi in cui l’epidemia di spagnola sconvolse la vita dei cittadini che risiedevano in città, una delle più duramente colpite su territorio statunitense (circa 14.000 persone morirono nell’arco di sei settimane, con la media di un decesso ogni cinque minuti). Come recitava il sito dedicato alla mostra, «molte di queste persone morirono a un’età giovanissima. Pochi di loro erano ricchi e famosi. I loro nomi non sono entrati nei libri di Storia. Ma le loro famiglie non li hanno dimenticati».

E infatti, la prima fase dei lavori che precedettero l’organizzazione della mostra comprese un appello pubblico a tutta la cittadinanza: qualsiasi famiglia che avesse conservato la memoria di un qualche parente o amico morto di spagnola era invitata a condividerne la storia con i dipendenti del Mütter Museum, che avrebbero provveduto a trascriverla. Saltò fuori che le famiglie di Philadelphia erano molto meno smemorate di quanto si sarebbe potuto credere: le testimonianze cominciarono a fioccare e furono raccolte in un insieme coeso, mentre un team di archivisti provvedeva a digitalizzare a uno a uno tutti i certificati di morte delle vittime. A tempo debito, questi dati furono resi fruibili attraverso una schermata che permetteva ai visitatori di navigare tra i certificati di morte, visionarne alcuni in modalità randomica oppure effettuare una ricerca per cognome: agli utenti non passò inosservata la giovanissima età di molti deceduti (l’età media dei defunti era 28 anni); e la grande quantità di dati accumulati permise di rendere evidenti dei pattern che erano già noti agli specialisti ma non necessariamente al grande pubblico, come per esempio la straziante e commovente mortalità tra le donne in stato di gravidanza, verso le quali il virus aveva mostrato un accanimento e una crudeltà tutti speciali.

Per tener viva la memoria delle vittime, gli organizzatori della mostra scelsero di inaugurare la loro esibizione con un evento che ha pochi paralleli al mondo: una gigantesca parata lungo le strade di Philadelphia alla quale furono invitati tutti i cittadini che avevano scoperto di essere imparentati con un individuo morto di spagnola. I discendenti furono invitati a marciare tenendo in mano un cartello con il nome dei loro defunti; e i certificati di morte di quegli individui a cui non era rimasto nessuno in grado di (o intenzionato a) onorarne la memoria furono messi a disposizione di qualsiasi cittadino di buona volontà che avesse voluto “adottare” un caduto, scoprendone la storia e portandola nel cuore (un po’ come molti fanno ogni 27 gennaio grazie allo Shoah Victims’ Names Recovery Project curato dal museo Yad Vashem).

Naturalmente, questi due espedienti permisero al grande pubblico di empatizzare con le vittime (che ormai avevano acquisito ai loro occhi un nome, un cognome e una storia) e di sentirsi parte di un qualcosa di più grande, eredi diretti dei fortunati superstiti che uscirono illesi dalla catastrofe e, dunque, moralmente chiamati a onorare e tener viva la loro memoria. La singolarissima parata in memoria delle vittime di una catastrofe vecchia di cent’anni godette di una discreta eco pubblica, guadagnandosi le prime pagine dei quotidiani nazionali e sollecitando l’attenzione del grande pubblico. Di tutti gli utenti che visitarono la mostra, il 60% dichiarò di non aver mai sentito parlare dell’influenza spagnola fino a quel momento, o comunque non in maniera più approfondita di un generico “fu una disastrosa epidemia che colpì il mondo subito dopo la prima guerra mondiale”: il che vuol dire che la maggioranza del pubblico fu sensibilizzata proprio grazie alle iniziative sapientemente orchestrate, che riuscirono a far passare il messaggio per cui, sì, vale la pena far memoria anche di questi eventi.

Significativamente (e con una chiara valenza educativa, non ancora velata dalle sfumature politiche che la scelta avrebbe assunto se fosse stata presa qualche mese più avanti), la marcia in memoria delle vittime della spagnola si snodò lungo le strade di Philadelphia il 28 settembre 2019, centunesimo anniversario dalla Liberty Loans Parade che nel 1918 fu organizzata nella stessa città a sostegno dello sforzo bellico statunitense.

L’esistenza della spagnola era nota da mesi, e già da un paio di settimane gli ospedali cittadini avevano cominciato ad accogliere una anomala quantità di pazienti che denunciavano con inequivocabile chiarezza l’arrivo di una seconda ondata, plausibilmente ancor più grave. Ma, nonostante la comunità medica avesse usato tutta la sua verve per convincere le autorità cittadine a cancellare l’evento, si valutò all’epoca che fosse più importante far girare l’economia e si procedette dunque con l’organizzazione della parata, finalizzata a sensibilizzare l’opinione pubblica circa la necessità di investire nei liberty loans, i bond di guerra. Entro 72 ore da quel 28 settembre, gli ospedali cittadini erano al collasso e Philadelphia s’era trasformata nella Bergamo del 2020, con un contagio che divampava incontrollato.

«Incredibile realizzare fino a che punto la gente non sia stata in grado di imparare la lezione» si lascia scappare Nicholas Bonneau, precisando di aver espresso un’opinione del tutto personale. Ma, naturalmente, in quel settembre 2019, lo storico non aveva la minima idea di star toccando un tema che, di lì a poco, sarebbe diventato divisivo e di feroce attualità politica. All’epoca, tutto ciò che il ricercatore voleva fare consisteva nel ridare un nome, un volto e una storia alle vittime dimenticate di una catastrofe negletta: e gli parve davvero di essere riuscito a farlo, mentre le strade di Philadelphia si riempivano di una folla silenziosa, vestita a lutto per individui che non aveva mai conosciuto prima, e uno speaker scandiva lentamente i nomi dei caduti, se così vogliamo chiamarli.

Chissà se anche i nostri nipoti e pronipoti, tra cent’anni, avranno modo e volontà di vivere qualcosa di simile. Nel frattempo, per chi si fosse incuriosito, ecco a voi un godibilissimo tour virtuale della mostra organizzata da Nicholas Bonneau (commentato e sottotitolato in lingua inglese), girato per permettere all’utenza di usufruire da remoto di questi contenuti, quando l’esposizione fu chiusa al pubblico in fretta e furia. Correva l’anno 2020, e un nuovo lockdown era alle porte.


Nicholas Bonneau ha tenuto il suo intervento “A Repression of Things Past. Reflections of Memory and Pandemics in the Wake of Covid” il 16 marzo 2023 presso la Rewley House dell’Università di Oxford.

In copertina, uno scatto del National Covid Memorial Wall di Londra: ogni singolo cuoricino è dedicato a una delle vittime di Covid-19 decedute nel Regno Unito, il cui nome è inscritto all’interno del simbolo. Il murale, lungo più di 500 metri e composto da oltre 150.000 cuori, si estende sulla riva opposta del Tamigi rispetto a quella in cui sorge il Palazzo di Westminster ed è stato avviato nel 2021, con intenti dichiaratamente polemici, da parte di un gruppo di cittadini che con questo espediente intendeva protestare contro la politica sanitaria adottata dal governo in carica, da loro ritenuta insufficiente a tutelare la popolazione. Oggigiorno, il murale (tra l’altro avviato senza i dovuti permessi, quindi teoricamente suscettibile di poter essere imbiancato da un momento all’altro se qualcuno avesse il coraggio di darne l’ordine) ha perso buona parte delle sfumature politiche che aveva inizialmente e, per molti Londinesi, è semplicemente diventato un luogo di memoria e di riflessione.

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