La triste storia di san Drogo, quello per cui davvero vale il detto “mai una gioia”

Con buona pace di Sean Wells, l’ottimo artista dal cui profilo Etsy prendo in prestito questo bel santino, il mio lettore sarà presto costretto a operare una forte sospensione dell’incredulità nel guardare una immagine di san Drogo che lo ritrae con questo aspetto da gringo sorridente, un po’ alla cowboy e un po’ alla Gesù di Nazareth.

La triste realtà dei fatti è che il nostro Drogo è il patrono della gente brutta (giuro, non sto scherzando) poiché egli stesso fu così orribilmente brutto da doversi rinchiudere in una casupola priva di finestre, perché la gente ci perdeva dieci anni di vita tutte le volte che si trovava innanzi a questo mostro inguardabile. E direi che questo incipit depresso sarà l’ottima introduzione per un post che potremmo allegramente intitolare

La deprimente storia di san Drogo, quello a cui non ne andava bene una

Bisogna già avere un certo talento naturale per riuscire a ritrovarsi orfani prima ancora di nascere, ma il nostro amico trionfò nella mirabile impresa. Suo padre, un nobiluomo della contea di Artois, in Francia, morì in battaglia quando la sua amata moglie non aveva ancora iniziato a mostrare i primi segni della gravidanza.
La vedova restò sola, e forse ingenuamente si preoccupò al pensiero della vita che l’avrebbe attesa da lì a qualche mese, alle prese con un figlio da crescere senza alcun aiuto. Ebbene, la poveretta avrebbe anche potuto risparmiarsi quelle notti insonni, giacché non udì mai il primo vagito di suo figlio: sfiancata da un travaglio ormai durato giorni, intrappolata in un parto che non riusciva a trasformarsi in nascita, si spense tra le lacrime e gli indicibili dolori. Ho visto alcuni autori divertirsi a immaginare che la donna, a un certo punto, decise di dare la vita per provare a salvare il neonato che portava in grembo, acconsentendo a un taglio cesareo; e per quanto le fonti storiche non specifichino questo dettaglio, ho deciso che non mi spiace affatto, e quindi lo farò anch’io.

Era il 14 marzo 1105, stando a quanto assicura la tradizione: e la donna morì prima ancora che le levatrici potessero estrarre il neonato dal suo grembo.

Rimasto orfano prima ancora di poter piangere tutta la sua (anche comprensibile) disperazione, Drogo fu adottato da una coppia di suoi parenti, che lo crebbero come figlio loro. E tutto andò discretamente bene per i primi dieci anni di vita del ragazzino; ma quando, nel giorno del suo decimo compleanno, i suoi genitori adottivi lo fecero sedere a tavolino e gli raccontarono come stavano veramente le cose, il piccolo Drogo non resse allo shock.

Andò in crisi, e anche pesantemente, non riuscendo a venire a patto col pensiero di non essere davvero figlio di quelli che aveva sempre chiamato “madre” e “padre”. Peggio ancora, cominciò a sentirsi in colpa per la fine di sua mamma, quasi che fosse stato lui l’assassino che ne aveva procurato una morte orribile con la sua ostinazione a non voler nascere. Iniziò così per san Drogo una adolescenza che definire “problematica” sarebbe generoso, all’insegna del tormento esistenziale e della depressione. E poi, nel giorno del suo ventesimo compleanno, il giovane uomo prese la decisione di non voler più vivere nel mondo.

Il che non vuol dire che si suicidò, beninteso.
Piuttosto, decise di mollare tutto per andare a vivere in mezzo ai boschi esercitando la professione di pastore: tutto sommato un suicidio sociale, soprattutto per un giovane di buona famiglia che aveva ereditato dal defunto padre un considerevole numero di averi. Ma, del tutto insensibile di fronte agli agi che questi avrebbero potuto procurargli, Drogo decise di donarli ai poveri e di vivere volutamente nella più rigida miseria, con l’unica compagnia delle pecorelle che portava al pascolo per conto terzi.

La sua abilità e la cura con cui trattava i greggi cominciarono a farsi apprezzare in tutta la zona, e diciamo pure che è anche abbastanza facile svolgere bene il proprio lavoro se Iddio ti grazia con il dono della bilocazione. Più volte, i popolani che vivevano a valle lo videro presenziare con devozione alla prima Messa del mattino, prendendosi un accidente al pensiero delle povere pecore evidentemente abbandonate a se stesse al pascolo, in balia dei lupi; eppure, le testimonianze degli altri pastori che lavoravano in montagna non lasciavano adito a dubbi: ché neppure per un istante san Drogo aveva abbandonato la sua veglia e deposto il suo bastone, restandosene a protezione del gregge notte e giorno ininterrottamente. E così, la popolazione comprese d’essere indubitabilmente di fronte a uomo prodigioso al quale Dio aveva eccezionalmente concesso la grazia di scampare al triste destino dei santi pastori, costretti (come da frequentissimo topos agiografico) a disattendere i sacramenti per portare avanti il loro duro lavoro.

E quando il popolo si rende conto d’essere di fronte a un santo in terra, cosa fa? Giustamente, cerca di ingraziarselo portandogli sorrisi e doni: tendenzialmente, quel tipo di cose che fanno piacere a un individuo normale, ma non al nostro Drogo, che rimase esterrefatto, sconvolto e contrariato da quell’improvvisa ondata d’affetto.

Riteneva di non meritarsela, non si sentiva in grado di gestire tanta simpatia: e così, intimorito da quella massa di persone che inspiegabilmente voleva essergli amica, il nostro eroe fuggì lontano, dichiarando di volersi recare in pellegrinaggio a Roma.

Effettivamente ci andò, e fece ritorno, e poi ripartì di nuovo e per la seconda volta rincasò: per nove volte percorse la via Francigena, a piedi, in un’epoca in cui persino molti nobili a cavallo si sarebbero lasciati intimorire di fronte alla prospettiva di una sfida così onerosa. Ma il nostro Drogo era inarrestabile, se non altro perché il suo continuo errare gli permetteva di godere in ogni luogo della solitudine e della povertà che si era auto-imposto.

E, come se Iddio avesse voluto esaudire le sue preghiere donandogli la grazia d’una vita sempre più disgraziata, a un certo punto il povero Drogo fu colpito da una malattia invalidante che iniziò a straziarne le carni e a sfigurarne il corpo. Alcune agiografie parlano di ernia, con un’imprecisione terminologica che potremmo farci andar bene se volessimo accettare di utilizzare la definizione in senso lato, ovverosia – per citare Wikipedia – «la fuoriuscita di un viscere dalla cavità che normalmente lo contiene». Diciamo che, nel caso di Drogo, gli fuoriuscirono dal corpo un po’ tutte le viscere in generale: le agiografie ce lo descrivono come un povero disgraziato piagato da ferite che si aprivano da sole e che si incancrenivano inesorabilmente, sfigurandone le membra, il viso e il corpo intero, e ammantando il poveraccio di un indicibile fetore.

Fu a quel punto che Drogo fu costretto ad abbracciare l’ineluttabilità del suo destino, accettando di dover dipendere dagli altri, anche a costo (gasp!) di intrattenere rapporti sociali con il resto del genere umano. Sennonché, in questo caso, era il resto del genere umano a non morir di voglia all’idea di intrattenere rapporti sociali con Drogo, che ormai perdeva pezzi, puzzava più d’un caprone e, globalmente, faceva parecchio schifo. Fu necessario trovare un accomodamento che permettesse al povero Drogo di sopravvivere grazie alla carità cristiana senza che i suoi caritatevoli benefattori venissero colti dai conati ogni volta che lo soccorrevano: e fu così che il nostro pastore putrido e complessato fu accolto in una capannuccia che era stata costruita per lui al fianco della piccola chiesa del paese. Una minuscola finestrella che s’affacciava sulla navata gli permetteva d’assistere ogni giorno alle funzioni sacre; una feritoia posta sulla parete opposta permetteva ai paesani di introdurre cibo e acqua all’interno del locale, entro le cui mura san Drogo finì la sua miseranda vita, dopo anni (e anni, e anni) di sofferenza. Era il 16 aprile 1186: il pastore macilento aveva da poco compiuto gli ottant’anni.

***

Perché sprecare tante parole su questa triste storia? Beh: innanzi tutto, perché Drogo è il santo che Mani di pasta frolla ha deciso di omaggiare nella nuova puntata della nostra collaborazione gastro-agiografica alla ricerca dei legami tra cattolicesimo e cucina. Per ragioni mai del tutto chiarite, il povero Drogo è oggi venerato come il patrono delle torrefazioni, delle caffetterie e dei bar: e, da amanti del caffè, Michela e io abbiamo deciso di dedicare un po’ delle nostre attenzioni a questo sfortunato personaggio. Sfortunato personaggio che, per la cronaca, non si capisce bene per quale ragione abbia dovuto accollarsi il patronato sui bar: quel che è certo è che, entro la seconda metà del XIX secolo, alcune torrefazioni del nord Europa avevano già cominciato a guardare a Drogo come al loro speciale protettore, e la crescente diffusione del caffè nel corso delle prime decadi del Novecento finì col rendere il nostro pastore macilento uno dei santi più amati dalle massaie. Che c’entri Drogo con il caffè, evidentemente lo sa solo Iddio, ma è suggestiva l’ipotesi avanzata da Timothy Bruno di Procaffeination, il quale fa notare che la regione francese in cui visse Drogo era, nel XIX secolo, una delle principali produttrici di cicoria. E non è un mistero che, in quell’epoca, la cicoria fosse usata come sostituto economico delle più costose miscele di caffè: che sia forse questa la ragione per cui il nostro bovaro triste s’è ritrovato a fungere da patrono delle torrefazioni?

Mistero della fede, è proprio il caso di dirlo: ma, se devo essere sincera, il povero Drogo occupa un posto speciale nel mio cuore non tanto in virtù del suo patronato sulle caffetterie, quanto più a causa degli altri patronati che gli sono stati affibbiati col passar del tempo.

L’elenco è lungo e francamente sconfortante: Drogo è patrono della gente brutta, della gente col viso sfigurato dalla malattia e, più genericamente, della gente che non sarebbe manco così malmessa, ma non si piace quando si guarda allo specchio e/o non viene considerata esteticamente gradevole dalle persone che la circondano, con tutti i problemi conseguenti. È patrono dei pazienti che soffrono d’ernia, di calcoli biliari e di piaghe sulla pelle; ma non solo, ché il nostro amico si prende cura anche dei malati mentali, di chi soffre di disturbi neurologici o psichiatrici e di chi è affetto da depressione. Nel dubbio, la Chiesa gli ha affibiato anche il patronato sugli orfani (lo era, in fin dei conti) e sugli individui affetti da mutismo (non lo era, ma lo è diventato ad honorem, visto che rifuggiva il mondo e non parlava ad anima viva).

E, sotto sotto, non è bello pensare che questa massa di umanità dolente abbia in Drogo un santo patrono che soffriva in prima persona per quelle stesse sciagure?

Capita di rado: è molto più frequente che, a diventare patrono dei pazienti affetti da una certa malattia, sia un santo noto per aver curato miracolosamente il morbo contro cui appunto viene invocato.

Ecco, san Drogo no.
In vita, non fece miracoli manco per scherzo (a parte quella faccenda della bilocazione per andare a Messa); visse male, morì peggio e soffrì orrendamente per buona parte della sua esistenza grama, gravata orrendi disturbi fisici e da turbe mentali direi molto evidenti. Morì malamente e nella solitudine totale (pur circondato dall’affetto dei suoi cari; a congrua distanza, oltre un muro di mattoni), e ciò nonostante il mondo lo ricorda ancora adesso e s’affida a lui per una miriade di bisogni (pure gravi).

Sarò franca: a me spiace quasi che, oggigiorno, san Drogo sia ricordato principalmente in virtù del suo patronato sul caffè. Tutti concentrati sulla tazzulella, i fedeli tendono a dimenticarsi tutto il resto della sua storia… e wow: che storia. Deprimente ed entusiasmante al tempo stesso: francamente, una combo rara persino nell’agiografia.

21 risposte a "La triste storia di san Drogo, quello per cui davvero vale il detto “mai una gioia”"

  1. Whitewolf

    Mi viene da pensare che il patronato derivi dal fatto che come il caffè, Drogo venne macinato dalla vita…oppure perchè il colore scuro del caffè, il suo sapore marcato e l’odore certo bisognoso di distanza per potersi diffondere in maniera gradevole potrebbero richiamare la sua vita di…schifo che il poveretto ha vissuto…o ancora (non c’è due senza tre) per un salto etimologico (e tentato nell’ignoranza) tra Drogo > Drogheria < Caffè che era venduto in alcune drogherie.

    In ogni caso SAn Drogo allora è anche il mio patrono, visto che ho sempre sofferto di complessi per la mia estetica tutt'altro che angelica XD

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    1. Lucia Graziano

      Ehi! Ma sai che così su due piedi non avevo pensato all’associazione tra Drogo e drogheria, ma in effetti potrebbe starci tutta? Pare che la prima attestazione nota di Drogo come patrono delle torrefazioni risalga al Belgio di metà ‘800. In effetti, ho appena controllato su Google, e “drogheria” si dice “droguerie” anche in Francese. Uhm… 🤔🤔

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      1. Whitewolf

        Consideriamo anche che spesso questi giochi paraetimologici sono frequenti nel mondo dei patronati. O mi sbaglio? Lo chiedo perchè non ho fatto storia della cultura cattolica ma gli altri professori hanno spesso infilato qualche cognizione di storia della cultura ^^’

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        1. Lucia Graziano

          No no, infatti, hai perfettamente ragione, sono piuttosto frequenti. Il caso eclatante è santa Lucia, che diventa patrona della vista in virtù del suo nome che richiama la luce (se vai a leggere le sue agiografie “vere”, quelle più antiche, da nessuna parte c’è scritto che Lucia sia stata martirizzata da aguzzini che le hanno cavato gli occhi. Quello è un dettaglio immaginario che si è aggiunto dopo quando il patronato sui ciechi era già diventato diffuso).

          In effetti, fra le varie ipotesi che hai fatto, il gioco di parole mi sembra molto molto più probabile delle altre supposizioni che hai avanzato (belle eh, ma forse di una finezza troppo moderna 😅)

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  2. Anonimo

    A. Da medico, diagnostico la lebbra, sia pur con tutti i caveat dovuti all’impossibilità di fare un corretto esame obiettivo.
    B. Riguardo alla condizione psichiatrica, direi proprio che Drogo presentava una disturbo depressivo secondario alle sue condizioni di vita.
    C. Terapia:
    Dapsone e Rifampicina per la lebbra.
    Fluoxetina per la depressione
    Psicoterapia adiuvante
    Toilette chirurgica delle lesioni
    Terapia antibiotica aggiuntiva sulla base dell’antibiogramma effettuato sul pus.

    Annalisa Neviani m.d.
    Ah, è vero!
    Quando visse Drogo tutta ‘sta roba era ancora in mente Dei.
    Pazienza!

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    1. Lucia Graziano

      😂😂😂

      Oh, se solo esistesse la macchina del tempo! Potremmo andare a curarlo, povero caro!

      Nella mia completa ignoranza, anche io avevo istintivamente pensato alla lebbra, per la malattia fisica. Mi fa solo un po’ strano che non sia stata definita apertamente come tale dagli agiografi: in fin dei conti, la lebbra era una malattia diffusa di cui tutti conoscevano i sintomi; e, se vogliamo, era anche stata nobilitata dai vari lebbrosi curati da Gesù nel Vangelo. Un santo con la lebbra non ci sarebbe stato male, insomma.

      E invece, l’agiografo continua a parlare di ernia 🤔
      Al netto che chiaramente non era ernia nel significato che diamo noi oggi al termine, quali alternative potrebbero esserci alla lebbra? Famo una diagnosi differenziale? 😂

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  3. Francesca

    Devo dire che, mentre ancora leggevo i tuoi interrogativi sul perché del caffè-patronato, anche a me continuava a venire in mente “drogheria… forse le antiche drogherie c’entrano qualcosa?”… Ora apprendo da te che potrebbero entrarci.

    Poi, altro pensiero: con un’ipotesi più moderna (che non so quanto possa collegarsi ad antiche usanze), mi veniva in mente anche il classico rimedio della nonna spesso citato da chi vuole vivere tutto “naturalmente/bio”… Cioè la funzione anti-odore e/o assorbi-odore attribuita alla polvere del caffé o ai fondi del caffé
    (trattasi di due ipotesi in base a quanto ricchi si è e/o a quanto verde-bio o risparmiosi si vuole essere: il caffé costa, mentre i residui dopo aver fatto il caffé sono gratis).

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    1. Lucia Graziano

      Fun fact: io non so chi sia IL SADICO che utilizza la polvere di caffè in funzione assorbi odore.

      Per carità, io non ho mai provato e posso anche credere astrattamente che ce l’abbia davvero, ‘sta funzione… però, caspita: concordiamo sul fatto che pure la polvere di caffè ha un odore sufficientemente marcato da essere fastidioso se te lo tieni sotto al naso per delle ore? 😶 Cioè: secondo me, se ho in casa una roba che puzza e provo a tamponare il problema col caffè, va solo a finire che mi trovo in casa due robe fastidiosamente odorose invece di una sola 😂

      Leggevo giusto qualche giorno fa in una discussione FB le disavventure di una famiglia che aveva fatto un volo aereo con un bambino piccolo il quale aveva vomitato per buona parte del viaggio, costringendo le hostess a mettere filtri di caffè nelle prese d’aria per cercare di limitare l’odore. A parte il fatto che mi pare pure strano/inquietante che su un aereo non ci siano dei sistemi di filtraggio un po’ più efficaci (ma che davvero), io mi sono messa nei panni dei passeggeri, tra odor di vomito e odore di caffè, e… Dio mio 😐 Credo che avrei seriamente desiderato di morire, in quel momento.

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      1. Elisabetta

        Lucia ma non ti è mai capitato di entrare in profumeria e vedere in una ciotolina con dei chicchi di caffè? Servono a ” resettare” il naso.
        Ci sono anche pusher che nascondono dentro il caffè le sostanze per non farle sentire ai cani addestrati.
        Sconsiglio però di usare il caffè in frigo in quanto anche se inalato ha funzione eccitante… da giovane per esempio, per farmi i riflessi ai capelli, mi ci feci un impacco…alla fine nessun riflesso castano ma insonnia garantita!!

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  4. Francesca

    A parte una certa tristezza a leggere la storia di San Drogo… Mi colpisce (non poco e non è la prima volta) che in quelle epoche ci fosse un certo “riconoscimento” di problematiche psicologiche / psichiatriche. Ora, non so quanto la terminologia sia stata tradotta da te e dal tuo talento di divulgatrice… Ma insomma, se sulle fonti non c’era scritto proprio “depressione” ci sarà stata altra terminologia che uno storico riconosce come definizione di problemi psicologici, mentali in senso lato, eccetera.
    E se da una parte io posso “pensare male” sugli antichi che magari attribuivano un po’ troppi malanni fisici (per loro sconosciuti) a cause non-fisiche, quindi per loro mentali o spirituali… Dall’altra parte mi sembra innegabile una certa sensibilità degli antichi (per alcuni versi superiore a quella di oggi) nel riconoscere “traumi” e possibili conseguenze “psicologiche” delle umane sventure…

    Grazie per i tuoi articoli.
    E Buona Pasqua!

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    1. chiamatelaneuro

      A tal proposito consiglio un libro: “Storia del mal di vivere”, un divulgativo che fa capire bene come quei mali psicologici che poi sono stati sistematizzati scientificamente sono sempre esistiti (con altre nomenclature). Inoltre, tratta approfonditamente il ruolo del cristianesimo nella definizione del mal di vivere.

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      1. Francesca

        Grazie! Inserisco tra i preferiti nella mia infinita lista libri. Con quel titolo esatto ho trovato solo Georges Minois, edizioni Dedalo… E dalla descrizione deve essere quello.

        Dato che ci sei, se ripassi di qua… Faccio una domanda in generale, sul tuo campo di studi. Nello specifico: c’è una “questione” sul tema oppure è assodata per tutti una posizione già definita e definitiva?
        Mi spiego. In generale, da mera profana, tendo ad accogliere il pensiero (popolare e “scontato”) secondo il quale, a fronte di una vita in cui il problema della sopravvivenza quotidiana più spicciola occupa il 99% del tempo, non ci sarebbe tanto spazio per “concedersi” malesseri psicologici. (Della serie: “ah, signora mia, in Africa non si trovano anoressici né bulimici”).
        Ma, come profana appassionata da anni all’argomento, tendo invece a pensare ai disastri (personali e sociali, con tutte le ricadute in ogni ambito di vita e della Storia), disastri provocati dal dover passare sopra, per forza, a qualsiasi umano problema non-fisico… perché necessariamente obbligati (nella maggioranza della popolazione delle epoche passate) ad occuparsi della sopravvivenza materiale, appunto… Vitto, alloggio, riscaldamento alloggio, vestiario, malattie fisiche senza cure mediche, etc.
        È pur vero che un “ricco” con le mani in mano avrà avuto (e ha tuttora) molto tempo libero per crearsi “futili” problemi mentali… Ma è anche vero che l’animo umano, l’essere umano è uguale in ogni tempo e in ogni condizione sociale… Al di là che poi qualcuno se ne possa occupare e altri no. Al di là del riconoscimento sociale o meno.

        Gli studiosi ne parlano? E sono concordi? Un caro saluto 😇

        P.s. l’interrogativo è anche per Lucia, dato il settore di studi a volte (o spesso) confinante…

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        1. Whitewolf

          Scusa se rispondo anche io, ma, pur essendo ancora un “principiante” (ed essendo di lettere antiche, quindi fuori “zona temporale”), ho la fortuna di avere una professoressa che ha scritto un libro sull’argomento, di aver seguito un seminario sull’argomento e di avere comunque un certo interesse per questo tipo di storia.

          Long story short: nell’antichità romana (e anche in quella greca), SEMBRA che i disagi psicologici e le ansie venissero attribuite innanzi tutto al carattere (esistevano temperamenti più predisposti a certi disturbi). Erano spesso curate alla stregua di malattie fisiche (credo anche si introducesse un barlume di reazione psicosomatica, che ha resistito fino all’1800 con le teorie sull’isteria…ma qui viaggio parecchio io di fantasia).
          Qualora non ci fosse un temperamento predisposto (per esempio io sanguigno con improvvisi attacchi d’ansia) allora si cercava di agire sul “mindset” si direbbe.

          Detto questo: sni. Cioè consideriamo anche quel poco che sappiamo fuori dalla elite letterata: uno schiavo con la depressione o che magari soffriva d’ansia era semplicemente denigrato, non c’era interesse a chiamarlo in qualche modo o a riconoscerne i bisogni.
          Similmente i nobili parlavano di “taedio vitae” ma non è che poi ci fosse una considerazione particolare per la situazione. Si ripiegava sulla pratica filosofica, in alcuni casi all’intervento divino ma in generale si subordinava tutto questo a un normale “uzzolo”, paragonabile insomma a chi ritiene la depressione o l’ansia “capricci” da affrontare o con le legnate o dicendo “c’è chi sta peggio di te” (belve).

          Era legato alla differente condizione di vita? Non credo: secondo me mancava la coscienza della psiche come un qualcosa di “separato” dalla mente razionale.
          Chi non riusciva a restare razionale era ritenuto dalla razionalità debole ma in questo senso si accomunavano sotto la stessa “classe” l’ansioso, il pauroso e il malato d’ansia (spero di rendere le sfumature).
          In questo senso la povertà si limitava a segnare più nettamente le risorse a disposizione per tamponare gli ostacoli: è ovvio che se un nobile romano si sentiva malinconico aveva a disposizione divertissemments e cure ad hoc, uno schiavo veniva semplicemente corcato di tortorate e spedito a lavorare a suon di pedate e digiuni.

          In questo senso il cattolicesimo ha introdotto l’aspetto spirituale che, sebbene ancora non aveva l’indipendenza della psiche freudiana, tuttavia introduceva una terza variabile: non tutto può essere ridotto a un moto del corpo o ad un cattivo ragionamento. Inizia ad apparire l’aspetto spirituale ed emotivo, inteso come qualcosa di naturale e “insopprimibile”, da combattersi e controllarsi con metodologie che comportano l’avvicinarsi a Dio con la preghiera (credo lo dicesse San Bernardo ma sicuramente è un tema importnate della mistica) e in generale la cura della persona in quanto individuo.

          Quindi riassumendo il pippone: secondo me è la classica teoria del “si stava meglio quando…” che non ha molto succo.

          Ovviamente ho risposto così a memoria, sicuramente ho detto una serie di cavolate e non saprei rintracciare le fonti di quanto dico…però ecco, da quel che ricordo ecco cosa posso trarre

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          1. Francesca

            Grazie ragazzi – LupoBianco ed Elisabetta – per tutti questi contributi. In effetti… C’è davvero tanto da approfondire! I punti di vista sono molteplici, le culture di riferimento anche.
            Riflessione:
            Ok, oggi i problemi di “formazione” delle diverse figure professionali (in campo medico/sanitario) sono ben altri e urgenti… Però se nei programmi di studi di Medicina (e affini) ci fossero anche questi temi ‘”storici”… Secondo me una formazione culturale del genere darebbe – in generale – migliore prospettiva e approccio verso i pazienti (di qualunque tipo). Se non altro, nella consapevolezza che “l’ultimo studio pubblicato” non sarà mai “tutto quello che si può sapere”, neanche oggi che siamo così avanzati nella conoscenza, nell diagnostica, ecc. La storia aiuta un sacco a mantenere “ampie visioni”.

            Anch’io mi scuso per il pippone 😁 E vi saluto

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        2. Elisabetta

          Oggi si crede che depressione sia sempre esistita, non ci sia un rapporto causa- effetto diretto e inequivocabile con condizioni sociali ed economiche; oltre ai fattori ambientali ci sono da considerare anche fattori biologici ( calo della serotonina).
          Il modo in cui si esprime e si manifesta cambia a seconda della cultura e del tempo. Anche il modo in cui è rilevata, descritta e considerata cambia a seconda della cultura e del tempo.
          La depressione è una malattia e come tale oggi considerata e trattata, prescinde dalla fede e dalla spiritualità e non è da stigmatizzare.

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    2. Lucia Graziano

      Che bella discussione!
      Intervengo anche io (come al solito in ritardo, mannaggia a me! 😁) con qualche informazione in più sul periodo medievale.

      Sì, nel Medioevo la gente era depressa e/o soffriva di malattie mentali come tutti noi (anzi, sono anche noti – sia nella Storia che nella letteratura dell’epoca – alcuni casi di problematiche che, in termini moderni, noi chiameremmo senza dubbio “stress post traumatico”; cosa interessante, visto che la cultura contemporanea ci ha messo parecchio a riconoscere il disturbo. Il mago Merlino descritto nei poemi gallesi era impazzito dopo aver partecipato a una sanguinosa battaglia, e mi viene in mente il caso – storico – di un cavaliere che aveva accusato problemi di insonnia dopo aver quasi perso la vita nel corso di un attacco da parte di un orso).

      Sicuramente, cambiava la cultura, e con essa anche il modo in cui la gente reagiva ai problemi della vita di ogni giorno. Per esempio, ci sono evidenze del fatto che i genitori tendessero a reagire relativamente bene quando moriva loro un figlio ancora piccolo – sicuramente a causa del fatto che la mortalità neonatale era incredibilmente alta e quindi la morte era attesa, in una certa misura. Ciò che noi considereremmo tragedia non era necessariamente una tragedia per i medievali, e viceversa.

      Ciò detto: sì, nel Medioevo la gente soffriva di disturbi mentali esattamente come noi. A essere diversa, era la risposta della classe medica: da un lato, si sospettava che le persone affette da problematiche davvero pesanti fossero tormentate o vessate dai demoni (del resto, l’accidia è pur sempre un vizio capitale, dunque qualcosa in cui i demoni cercano di trascinarti). Dall’altro lato, come già accennava the White Wolf per l’età classica, si pensava che le malattie (di qualsiasi tipo, anche mentali) fossero causate da uno squilibrio fisico che si veniva a creare in seno al corpo umano quando si sballava l’equilibrio dei quattro umori che erano alla base della medicina galenica. E anzi: anche durante le visite mediche per malesseri di natura prettamente fisica il bravo medico medievale aveva cura di informarsi sempre sullo stato di salute mentale del paziente, proprio perché anche una depressione o un’irrequietezza improvvisa potevano essere sintomo di uno squilibrio che andava indagato.

      Sotto questo punto di vista, mi verrebbe quasi da dire che i Medievali erano molto più avanti di noi (o dei nostri nonni, via, ché adesso sono stati fatti molti progressi sotto questo punto di vista). I problemi mentali erano guardati con molta serietà e considerati un problema molto serio: vuoi perché erano spia di una vessazione demoniaca, vuoi perché denotavano uno squilibrio all’interno del corpo che avrebbe presumibilmente causato una serie di malattie a catena se non si interveniva subito per curarlo. Altro che “distraiti un po’ e vedi che ti passa”!

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      1. Francesca

        @Lucia. In questo momento purtroppo non ho tempo di commentare altro ma ci tenevo a dirti GRAZIE.
        Già, sarebbe una discussione da sviluppare ancora… Troppo bella… Pure i discorsi sul caffè “deodorante” 😄 LOL

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