Correva l’anno 972 e buona parte del Nord Italia era nelle mani dei Saraceni.
Ci erano arrivati nell’889, partiti dall’Andalusia e insediatisi a La Garde-Freinet, un piccolo comune della Costa Azzurra non lontano dall’odierna Saint-Tropez. A partire da quella roccaforte, s’erano espansi a macchia d’olio seguendo le curve dell’arco alpino fino alla Svizzera e alla valle del Rodano, sfruttando quelle altezze come rifugio sicuro nel quale riparare dopo aver attaccato le carovane dei viandanti costretti ad attraversare i valichi montani. Talvolta, bande organizzate di briganti si spingevano anche più lontano, a valle, per compiere scorrerie nei territori di pianura in cui seminavano morte e distruzione. Se a questo aggiungiamo le razzie degli Ungari, insediati a Est, e la fisiologica presenza della delinquenza locale, capiremo facilmente che il Nord-Ovest del nostro Paese era, in quei secoli, una landa desolata in cui la criminalità organizzata faceva il bello e il cattivo tempo. Per descriverla, le fonti d’epoca utilizzano a più riprese il termine “deserto”; ed è eloquente ciò che si legge in un documento di natura fiscale redatto ai tempi dell’imperatore Ottone I, i cui esattori delle tasse scrissero «abbiamo attraversato i deserti delle Langhe e li abbiamo lasciati senza riscuotere tributo» – probabilmente perché la popolazione locale stava così malmessa da far pena, e/o era comunque così povera da rendere vana qualsiasi insistenza da parte dai funzionari.
Ma che tipo di Saraceni erano, questi Saraceni che avevano messo in ginocchio il Nord Italia?
La domanda è interessante, ed è fondamentale per comprendere il seguito di questa storia, anche perché quando pensiamo alle incursioni dei Mori nella penisola italiana tendiamo istintivamente a collocare questi episodi in un contesto di guerre di religioni, con scontri di civiltà nettissimi e violenti primariamente motivati dalla differenza di fede.
Ecco: i Saraceni che creavano problemi all’Italia del X secolo erano sicuramente individui di fede islamica, per il fatto d’essere nati da genitori musulmani… ma questo dettaglio, in realtà, non è particolarmente rilevante. I cronisti italiani (che, peraltro, a quell’epoca avevano anche le idee poco chiare su cosa fosse quella nuova fede che stava appena cominciando a diffondersi) non ebbero mai la percezione che questi atti di banditismo fossero motivati da astio religioso. I criminali erano pericolosi non perché fossero musulmani, ma perché erano banditi senza scrupoli; al punto tale da non avere il minimo problema a collaborare con i seguaci di Cristo, se venivano pagati bene. Alla metà del X secolo, il cattolicissimo Ugo di Provenza fu ben lieto di metterne alcuni a libro paga come soldati mercenari, per radunare forze da scagliare contro il suo nemico Berengario; in più occasioni, vari Imperatori si rassegnarono a stringere accordi coi Saraceni per convincerli a presidiare quegli stessi valichi alpini in cui, diversamente, si sarebbero comportati come briganti – cosa che i Saraceni fecero con buona lena e con apprezzabile dedizione alla causa, ergendosi a protezione di viandanti e pellegrini tutte le volte che ricevevano uno stipendio adeguato.
Insomma: era questo il clima in cui ebbe luogo il rapimento di san Maiolo, abate di Cluny, che nell’estate 972 fu sequestrato dai briganti saraceni presso il villaggio Orsieres, nel Vallese, proprio all’imboccatura del Passo del Gran San Bernardo.
Col senno di poi, san Maiolo era stato un folle, o quantomeno aveva commesso un’enorme imprudenza: i suoi biografi concordano nel dire che l’abate di Cluny, che aveva fretta di tornare a casa dopo un soggiorno a Roma, aveva deciso di immettersi nel Passo del Gran San Bernardo utilizzando una scorciatoia tortuosa e piena di curve, che gli avrebbe fatto risparmiare però qualche giorno di viaggio. Era noto a tutti che i Saraceni vivessero in quelle montagne, ma il santo aveva ritenuto affidabili le rassicurazioni di chi gli diceva che, rispetto a quanto accadeva qualche anno prima, la situazione era largamente migliorata.
Ecco: forse forse, san Maiolo avrebbe fatto bene ad approfondire un po’ più dettagliatamente i termini della questione. Sicuramente un progresso c’era stato, tenuto conto del fatto che, a quanto riportano fonti anglosassoni, attorno agli anni ’20 del X secolo i briganti avevano l’abitudine di provocare artificialmente delle valanghe con le quali seppellire vive le carovane dei viandanti. Rispetto all’attitudine a commettere omicidi di massa per poi depredare i cadaveri, sicuramente c’era stato un indubbio miglioramento nel fatto che, in anni recenti, le bande criminali si fossero votate alla tecnica del sequestro di persona: e tuttavia, parlare di situazione “sotto controllo” mi sembra una scelta di gran lunga decisamente troppo generosa.
Dovette rendersene ben conto anche l’abate di Cluny, nel momento in cui si ritrovò circondato da orde di banditi armati. Ne seguì uno scontro epico, nel quale – se volessimo dar retta agli agiografi – il mite Maiolo finì col trasformarsi nella versione monacale del vescovo-guerriero tanto caro alla spiritualità dell’epoca (e descritto piuttosto bene dagli sceneggiatori di Vikings attraverso il personaggio di Heahmund). Certo, un monaco non gira armato: ma questo dettaglio non impedì a Maiolo di ergersi possente nel mezzo del campo di battaglia, «ottimo guerriero» protetto «dall’invincibile scudo della fede» per usare le parole dell’agiografo. A braccia spalancate, quasi come un Cristo in croce, Maiolo riuscì a proteggere tutti gli altri membri della carovana utilizzando il suo corpo a mo’ di scudo umano nel quale far infrangere i giavellotti dei nemici: una prestazione degna di Superman… che tuttavia ebbe l’unico risultato di salvare le vite dei suoi compagni di viaggio e di far sì che Maiolo l’abate si ritrovasse conciato peggio che un puntaspilli nel momento in cui i Saraceni lo ridussero in catene.
Condotti in una casupola nascosta tra le alture, i monaci di Cluny furono messi a parte dell’informazione per cui sarebbero stati uccisi molto malamente se non avessero pagato a caro prezzo la loro vita. Pragmaticamente, Maiolo si premurò di comunicare ai banditi che né lui né i suoi compagni di viaggio possedevano beni terreni (sicché, sarebbe stato perfettamente inutile frugare nei loro bagagli alla ricerca di denaro), ma che lui aveva alle sue dipendenze centinaia di consociati decisamente abbienti, che sicuramente sarebbero stati disposti a pagare bene pur di riaverlo indietro, vivo e in buona salute. Il riscatto fu fissato in mille libbre d’argento (una somma francamente esorbitante, tale da spingere alcuni storici a sospettare che qui gli agiografi stiano decisamente esagerando. Agli storici fanno notare che, se c’era qualcuno nell’Europa medievale che poteva permettersi a cuor leggero una spesa così alta, quel “qualcuno” poteva effettivamente essere la ricchissima abbazia di Cluny). Uno dei monaci che facevano parte del seguito dell’abate fu rilasciato perché andasse ad allertare i suoi confratelli; ed è esattamente a questo punto che la storia del rapimento di san Maiolo prende una piega francamente inaspettata. Perché – come ci spiega Rodolfo il Glabro, monaco benedettino e biografo dell’abate – «mentre il sant’uomo veniva tenuto prigioniero dagli Arabi, non poté restare celata la sua dignità».
Leggendo la cronaca con la mentalità di una donna del terzo millennio, mi verrebbe da dire, col sorriso sulle labbra, che quella che l’abate non riuscì a celare fu più che altro la sua schizzinosità. Ai nostri occhi, stridono comicamente i toni con cui il cronista del X secolo descrive il momento esatto in cui si rende manifesta agli Arabi la superiorità morale del santo che tengono in catene: arrivata l’ora di pranzo, i briganti saraceni offrono al prigioniero un po’ di quello stesso cibo che essi stessi mangiano quotidianamente. Che tutto sommato non sembra nemmeno una schifezza, visto che a san Maiolo viene servito un pezzo di carne arrosto e di un tozzo di pane rustico: ma il monaco, con garbata fermezza, lo rifiuta, spiegando che «se mi verrà fame, ci penserà il Signore a nutrirmi; ma questi cibi non li mangerò perché non sono quelli a cui sono abituato».
Ci saremmo aspettati semmai un qualcosa sulle linee di “non mangerò carne perché è Quaresima” (ma no, era fine luglio) o “perché violerei la mia Regola monastica” (e sarebbe stato falso, in ogni caso). Ma no: il problema di san Maiolo è proprio il pane, di qualità intollerabilmente bassa per un raffinato palato francese. A scorrere la cronaca di Rodolfo il Glabro, sembra quasi che lo scontro di civiltà tra il mondo arabo e l’occidente cristiano sia principalmente una questione di stili di vita, coi seguaci di Maometto che conducono un’esistenza che pare intollerabilmente barbarica agli occhi “civilizzati” dei monaci europei.
Un dettaglio che probabilmente ci sorprende, ma non è questa la parte più surreale di questa storia: perché – stando a quanto dice Rodolfo – la superiorità morale dello stile di vita del santo abate si rende immediatamente evidente agli occhi dei poveri Saraceni. Che, invece di mandare a quel paese quel prigioniero schizzinoso rimangono positivamente impressionati dalla nobiltà d’animo di Maiolo. «Uno di essi», ci dice il biografo, «riconoscendo il rispetto che è dovuto ad un uomo di Dio, e sentendosi ispirato da un certo senso di deferenza, si tirò su le maniche e subito lavò il suo scudo, nel quale, sotto gli occhi di Maiolo, impastò del nuovo pane, in maniera sufficientemente pulita. Dopo averlo fatto cuocere alla svelta, lo porse a lui con atto rispettosissimo; Maiolo lo accettò e se ne nutrì dopo aver detto la solita preghiera, e rese grazie a Dio».
E, nei giorni a venire, Maiolo ebbe ben più d’un motivo per rendere grazie a Dio, tenuto conto del fatto che il suo soggiorno coi rapitori fu caratterizzato – nei limiti del possibile – da un clima di rispetto e di cortesia reciproca che francamente non ci immagineremmo affatto di trovare un’agiografia del X secolo che narra la vita d’un santo tenuto sotto sequestro da perfidi rapitori musulmani.
Ma forse la chiave di tutto sta proprio nella data: i fatti che stiamo narrando precedono di oltre cent’anni lo scoppio della prima crociata; e, come s’è già detto, nella percezione dei locali, questi banditi saraceni facevano paura innanzi tutto perché banditi. La loro fede religiosa era un dettaglio secondario; tutt’al più, un’aggravante a un comportamento detestabile per ragioni che avevano ben poco di spirituale.
E anzi: in tal senso, lasciano a bocca aperta i toni con cui Rodolfo il Glabro ci descrive un episodio verificatosi nel corso dei primi giorni di prigionia di Maiolo. Nel momento in cui era stato rapito, il santo aveva con sé un piccolo volumetto contenente una selezione di libri biblici. Un giorno, dopo averne letta qualche pagina, posò il libro a terra accanto a sé; e fu così che la sua Bibbia fu calpestata da uno dei suoi carcerieri. San Maiolo se ne lamentò, facendo notare con educazione che quello che era stato appena calpestato era niente meno che il suo libro sacro. E – tenetevi forte – gli altri briganti gli diedero ragione: «avendo visto che cosa era successo, rimproverarono il loro compagno dicendo che non era corretto che i grandi profeti venissero sviliti al punto da calpestarne coi piedi i loro detti». Una reazione che sicuramente sorprende noi, visto il contesto, ma che evidentemente non stupiva Rodolfo il Glabro, il quale aveva ben chiaro il fatto che «anche i Saraceni leggono i profeti degli Ebrei, e ritengono che tutto ciò che loro avevano previsto riguardo a Gesù Cristo, il Signore, abbia in realtà trovato compimento nella persona di un certo Maometto, uno della loro gente»: un dettaglio interessantissimo, anche perché è la prima volta in assoluto che il nome di Maometto compare (fra l’altro, non a sproposito) in un testo cristiano d’età medievale, composto a nord dei Pirenei.
***
Sarebbe fin troppo facile cadere alla tentazione di vedere in san Maiolo una specie di patrono del dialogo interreligioso, capace di trovare punti di contatto e mediazione persino nelle circostanze più scoraggianti. Naturalmente, faremmo un grave errore nel proiettare su questa storia le nostre aspettative: sono ben poco politicamente corrette le ragioni per cui Rodolfo il Glabro decide di infarcire la sua storia con tutti questi dettagli. Uno dei leitmotive di tutti i testi dell’autore è la ferma convinzione che il mondo sia disseminato di segni e indizi che incessantemente rimandano a una realtà più grande: in quest’ottica, il senso narrativo di questi aneddoti è quello di dimostrare l’ineluttabilità con cui gli esponenti della “falsa religione”, messi di fronte a una cultura “di gran lunga superiore”, sono “inevitabilmente” costretti a chinare il capo di fronte all’invincibile potere d’un sant’uomo.
E così, a san Maiolo basta un semplice segno di croce per spezzare in due i ceppi di metallo che lo costringono. Le ferite che s’era procurato durante la colluttazione, pur gravi e profonde, guariscono miracolosamente nell’arco di una notte di sonno, senza lasciare tracce di sé al mattino. Sogni profetici e apparizioni miracolose rassicurano il santo a più riprese circa l’happy ending che attende lui e i suoi compagni: l’abate sarà liberato nella festa dell’Assunzione di Maria, proprio come gli era stato detto da celesti messaggeri.
E (giusto per chiarire che, nonostante il rispetto reciproco tra le due fazioni, i banditi saraceni restano pur sempre i villains di questa storia) il monaco Rodolfo condisce la sua narrazione con la descrizione di un miracolo punitivo che non ci sta mai male. Un giorno, una vite violenta scoppiò tra i banditi che accusarono di qualche malefatta quello stesso brigante che, tempo prima, aveva calpestato la Bibbia di san Maiolo. Qualcuno tirò fuori un coltello, e il brigante malvagio finì col perdere un arto: casualmente, senza premeditazione, i suoi compagni finirono col tranciagli di netto quello stesso piede con cui, tempo prima, aveva calpestato il testo sacro.
Può forse essere una coincidenza? Ma certamente no: ché Iddio amministra con zelo la sua giustizia, e non v’è speranza per chi lo oltraggia! O quantomeno: era questo il messaggio che Rodolfo ci teneva a far passare.
***
In effetti, al di là di ogni considerazione di natura soprannaturale, certo è che i Saraceni avevano commesso lo sbaglio della loro vita, nel sequestrare san Maiolo. Il riscatto fu pagato e il prigioniero rilasciato, con tutti gli uomini del suo seguito; ma evidentemente ai briganti non era chiaro che non si sequestra l’abate di Cluny senza doverne poi pagare le conseguenze. Da un versante all’altro delle Alpi, le autorità che non erano riuscite a impedire quello scempio si sentirono stringere lo stomaco al pensiero di un mite abate che viene rapito da bande di briganti armati; e lo sdegno per quel gesto oltraggioso si mescolò alla consapevolezza che la situazione non avrebbe potuto che peggiorare, in assenza di un intervento deciso. Con il rapimento dell’abate di Cluny, i banditi avevano oltrepassato (e di gran lunga) il confine di ciò che era tollerabile: un conto è darsi alla microcriminalità derubando carovane di anonimi viandanti, di cui a nessuno importa più di tanto; un conto è procedere al sequestro di persona di uno degli esponenti di spicco del cristianesimo occidentale, dissanguando l’abbazia più ricca di Francia con la richiesta di un riscatto esosamente alto.
Per i banditi che si erano insediati nel Passo del Gran San Bernardo (e, più in generale, per tutti i Saraceni che facevano capo alla roccaforte di La Garde-Freinet), il rapimento di san Maiolo fu l’errore della vita. Papa Giovanni XIII, Guglielmo I di Provenza, Ottone I del Sacro Romano Impero e Arduino il Glabro di Torino si allearono per organizzare una colossale campagna militare che, senza badare a spese, scacciasse i briganti una volta per tutte, liberando la zona dell’arco alpino, e così fu: la battaglia definitiva fu combattuta nel 973 a Tourtour, non lontano dalla famigerata La Garde-Freinet. La roccaforte saracena fu espugnata e molti dei banditi che vi si erano insediati furono passati a fil di spada: è storicamente probabile che una certa fetta di superstiti sia però riuscita a disperdersi, finendo col mescolarsi alla popolazione autoctona e ad assimilarsi agli usi locali.
E un’eco di questo dato potrebbe trovarsi in una Vita di Maiolo composta attorno al 1010 dall’agiografo Siro di Cluny. Richiamando lo stesso episodio che, qualche decennio più tardi, il suo confratello Rodolfo il Glabro avrebbe descritto con maggior grado di dettaglio, l’agiografo volle dare un happy ending persino ai criminali rapitori. Stando a quanto si legge nell’agiografia, il gruppetto di banditi non ebbe dubbi su cosa fare, nel momento in cui l’esercito cristiano gli tese una trappola riuscendo a circondarlo a ridosso del ciglio di un burrone. Ormai senza via di scampo, costretti alla resa, gli uomini che tempo prima avevano rapito san Maiolo si gettarono in ginocchio giungendo le mani e chiedendo la grazia di poter essere battezzati. E così fu, scrive Siro di Cluny, e in virtù di questo essi furono salvati: non per opportunismo, ma perché davvero stava già maturando nel loro cuore un sincero desiderio di conversione; nato proprio nel momento in cui, durante la sua prigionia, il santo Maiolo aveva dissodato col suo esempio quel terreno, gettando un seme pronto a germogliare con parole di vita e di salvezza.
Sarà il caso di sottolineare ancora una volta che i monaci medievali non ragionavano utilizzando le nostre stesse categorie pensiero. Ma in ogni caso, tutto considerato, non trovate francamente sorprendente che la storia di san Maiolo sia così poco nota al grande pubblico?
Per approfondire:
- Scott Bruce, Cluny and the Muslims of La Garde-Freinet. Hagiography and the Problem of Islam in Medieval Europe (Cornell University Press, 2015)
- Norman Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medioevo (Il Mulino, 2007)
- Suttora, Mauro. Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere (Neri Pozza, 2021)
Whitewolf
Una leggenda che effettivamente non conoscevo e che sembra avere vari topos tesi a rappresentare il santo/monaco come un essere inerentemente sacro.
Ci vedo un collegamento con il topos del “Martire che non puoi martirizzare”: il persecutore si avvicina per fargli le cose brutte (Cit. Il Trono del Muori) e resta in qualche modo mutilo (fino ad arrivare a casi di testa girata di 180°, che mi pare sia legata al martirio di un santo siciliano).
Di casi di “oggetti sacri che attirano ziella e proteste” possiamo anche vedere il caso del Palladio, che una volta rubato portò tanta sfortuna a Ulisse e Diomede.
Non so a me viene facile notarci dei collegamenti che confermano la visione sacrale e sacralizzante del santo, che ne pensi?
"Mi piace""Mi piace"
Lucia Graziano
Sì, anche secondo me, sicuramente. Con la differenza (significativa) che san Maiolo fu rapito per davvero e in epoca contemporanea a quella in cui furono scritte le prime biografie su di lui (tutte composte a distanza di pochi anni dopo la sua morte), quindi gli agiografi si trovarono a descrivere fatti di cronaca recente che sicuramente erano ben noti a tutti, viste le conseguenze che avevano avuto. Io mi immagino che la notizia del suo rapimento abbia avuto un po’ la stessa risonanza del sequestro di Aldo Moro 😛 (pur con gli ovvi limiti medievali alla circolazione di notizie) sicché probabilmente l’agiografo aveva meno margine di azione nell’arricchire l’episodio con elementi leggendari. Rispetto a certi “martiri che non puoi martirizzare” (LOL!) di cui si poteva raccontare sostanzialmente di tutto perché tanto erano vissuti mille anni prima, qui è molto probabile che l’agiografo si sia effettivamente attenuto alla reale cronologia dei fatti, magari imbellendola un po’ ma senza esagerare. Alla fine, salvo i ceppi spezzati col segno di croce e le ferite che guariscono miracolosamente in una notte, non ci sono miracoli poi così eclatanti, se stiamo a guardare.
Però sì, direi che grossomodo il senso è questo: il santo come essere così sacro che attira a sé come una calamita persino gli infedeli più criminosi, e l’ineluttabilità con cui la potenza divina emerge sempre 🙂
"Mi piace"Piace a 1 persona
Elena
Io sono molto più terra terra, quando ho letto dell’Abate puntaspilli ho subito pensato ad una masca da tenere nel cestino del cucito… anche se non credo che avrei il coraggio di usarla davvero allo scopo 😅
"Mi piace""Mi piace"
Lucia Graziano
😂😂😂
Ma noooo, povere masche! Già hanno avuto tutte le jelle possibili: pure usarle come puntaspilli mi pare davvero troppo! 😂 (LOL!)
"Mi piace""Mi piace"