Il mare come tomba e altre terrificanti angosce per la notte di Ognissanti

Correva l’anno 2018 quando papa Francesco, indirizzando una lettera al patriarca Bartolomeo, sorprese i folkloristi rispolverando una metafora antica: quella cioè del mare come tomba (con ovvio riferimento ai tragici naufragi dei migranti nelle acque Mediterraneo). Da quel momento in poi, la dimensione sepolcrale delle acque marine è diventata tornata a essere un leit motiv che compare frequentemente nel discorso pubblico, assumendo talvolta sfumature così mitologiche e sinistre da mandare in sollucchero gli studiosi di folklore. Se è in qualche modo scontato, perché motivato dall’omofonia, il gioco di parole per cui il Mare Nostrum si trasforma frequentemente in un Mare Monstrum temibile e impietoso, che inghiotte vittime innocenti senza che alcuno riesca a porre fine a questa strage, è stata decisamente più originale la sfumatura con cui, dopo l’implosione del sommergibile Titan, giornalisti e commentatori hanno retoricamente alluso a una sorta di maledizione che aleggiava su quelle sinistre acque («il Titanic reclama altre cinque vite» hanno titolato molte testate all’indomani della tragedia. Ricorrendo ovviamente a un linguaggio simbolico, questo è chiaro: ma intanto, tra mille titoli hanno scelto in massa proprio questo…).

Agli occhi di un storico del folklore, è davvero suggestivo annotare la rapidità con cui sta riacquistando popolarità la metafora antica del mare come tomba: sinistra immagine che, fino a un secolo fa, era ancora in grado di inondare di terrore e riverenza tutte le popolazioni che vivevano sulle coste, dal Nord a Sud dell’Europa. Come scrivono Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi nel godibilissimo saggio che hanno dedicato a Halloween, «per i marinai e i pescatori il rapporto coi morti può esprimersi, soprattutto nelle date a ciò deputate, nella preoccupazione di dovere in qualche modo scontare, espiare, l’uso ‘sacrilego’ ed economicistico che essi fanno del mare, regno dei morti annegati». Una preoccupazione più che comprensibile, in fin dei conti: perché in un contesto ‘normale’ quale mostro avrebbe l’indecenza di aprire una pescheria all’interno di un cimitero, proprio sopra le tombe ancora fresche, o di allestire una bancarella in una piazza di mercato sulla quale s’è appena consumata una strage e il cui selciato è ancora costellato da macchie di sangue e da cadaveri in putrefazione?

Nessuno, ovviamente: neppure il più folle tra i serial killer; ma un destino crudele preclude ai marinai la possibilità di onorare i morti con le stesse cure che sarebbe normale e doveroso adottare in un mondo ‘normale’, sulla terraferma. Ecco dunque la necessità atavica di allontanare i sensi di colpa per questo comportamento tristemente inevitabile, ma ahinoi inevitabilmente irriguardoso: anche perché i marinai (come tutti quei gruppi di persone che svolgono lavori pericolosi e dall’esito incerto) sono universalmente noti per essere gente tendenzialmente superstiziosa. E nessuno di loro avrebbe voluto correre il rischio di irritare i defunti (o peggio ancora suscitare il divino sdegno!) per il fatto di non aver mostrato la dovuta riverenza nei confronti di quei poveri morti, senza colpa e senza sepoltura.

Ma come mostrare la propria riverenza a un esercito inquieto d’anime in pena che riposano sui fondali marini e di cui è inevitabile disturbare l’eterno riposo? Necessariamente, con un escamotage che concentri in un ristretto periodo dell’anno tutte quelle attenzioni che non sarà possibile osservare giornalmente: e infatti, da Nord a Sud, è attestata nelle regioni costiere di tutta Italia la consuetudine di dedicare ai morti di mare un surplus di cure in quei giorni che si pongono a ridosso della festa di Ognissanti. In quei giorni cioè in cui il calendario liturgico porta l’attenzione dei fedeli sulle anime purganti dei defunti.

Ogni qual volta che la situazione lo permetteva, i marinai cercavano un porto sicuro in cui attraccare entro il 31 ottobre; e i pescatori non prendevano il largo nel periodo di Ognissanti, rinunciando a possibili guadagni per portare rispetto ai morti del mare. Chi avesse avuto la sfrontatezza di contravvenire a quella legge non scritta avrebbe naturalmente dovuto scontare le conseguenze terribili del suo gesto ardito: in Liguria, si mormorava che la morte avrebbe raggiunto entro l’anno tutti gli individui che avessero osato solcare l’onda in quella notte sospesa, per impedir loro di insultare per una seconda volta la memoria dei poveri defunti. In numerose regioni del centro-sud è attestata la convinzione secondo cui, nella notte tra il 1° e il 2 novembre, una terribile tempesta marina (la Bufera dei Morti, per l’appunto) si abbatta con regolarità sulle acque, condannando a morte certa tutti quegli stolti che si fossero trovati al largo in quelle ore proibite. Meno letale, ma non per questo meno inquietante, la credenza marchigiana secondo cui un pescatore che avesse osato gettare le sue reti in quella notte di mistero avrebbe finito col pescare null’altro che teschi umani: e nel 1957, dando conto di questa credenza, l’etnologo Ginobili usava il tempo presente per annotare che «se qualcuno lo osasse [infrangere il tabù, NdR] verrebbe terribilmente redarguito come colui che non crede, e peggio disprezza quanto gli avi gli hanno tramandato».

È proprio lo studioso a dipingere con pennellate vivide l’atmosfera di paura reverenziale che, fino a pochi anni prima della sua indagine, si respirava sulle coste marchigiane nella prima notte di novembre: «la sera di Ognissanti il personale della flotta peschereccia […] tirava in secco sulla spiaggia i propri legni e si tappava in casa, talché non solo lo specchio di mare di fronte al paese rimaneva per tutta la notte deserto di imbarcazioni, ma parimenti la spiaggia veniva abbandonata dai pescatori e persino dai facchini di mare detti ‘zautte’, soliti normalmente a sostarvi per la sorveglianza dei legni approdati. E, chiusi dentro le loro abitazioni, in veglia, presso il focolare, solevano i vecchi pescatori narrare ai più giovani come, allo scoccare della imminente mezzanotte, una barca senza meta andasse solcando le onde infuriate del mare in tempesta: una barca carica di scheletri, priva di illuminazione, grave nel procedere, al battere cadenzato e lugubre di molteplici remi, mentre da essa, con ritmo ancor più lugubre, un coro di voci miste si levava sommessamente ripetendo: ‘Pas…sa la bar…ca di Caron…te! Pas…sa la bar…ca di Caron…te!’».

Le navi fantasma sono note a molte culture, e non necessariamente collegate al periodo di Ognissanti. Esistono però numerosi casi in cui la dimensione purgatoriale è dominante nel mito: non sorprendentemente, sono più frequentemente attestati nelle nazioni a maggioranza cattolica, ove la leggenda della nave fantasma si accompagna a sfumature catechetiche ed educative. Alla fine dell’Ottocento, la folklorista Maria Savi Lopez annotava nei suoi studi una diceria normanna secondo cui, nella notte di Ognissanti, un imponente vascello fantasma s’avvicinerebbe alle coste francesi, portando con sé il sinistro rumore di mille gemiti. Altro non era che il carcere cui erano condannate quelle infelici anime che non erano ancora state liberate dai lacci che le trattenevano in Purgatorio a causa del disinteresse dei loro parenti, che non avevano fatto dire per loro un sufficiente numero di messe (ma, in realtà, Savi Lopez ci informa che il folklore stava ormai cambiando forma: sempre più di frequente, negli anni in cui scriveva, la nave fantasma veniva dipinta come un ‘semplice’ veliero nel quale erano intrappolate le anime dei marinai che erano morti in mare entro l’anno. I vivi, ormai, si erano auto-assolti da ogni colpa).

Perché, alla fine, il punto è proprio questo: la volontà, o necessità psicologica, di espiare o assolvere tramite il mito i propri peccati. Osserva Vittorio Lanternari che, con varie sfumature, «sopra i morti del mare finisce per concentrarsi, sul piano metastorico del mito, l’espiazione del sacrilegio commesso» dai vivi – che per dolo, disattenzione o pura necessità non prestano il dovuto riguardo a quei defunti che, senza colpa, hanno avuto la sventura di finire i loro giorni tra i flutti.

Perché se è vero che il mare è un enorme luogo di sepoltura (cosa che indubitabilmente non può essere negata), è pur vero che diventa non irrazionale l’atteggiamento di chi, coerentemente, vi si approccia con lo stesso timore reverenziale che normalmente proviamo nell’addentrarci in un camposanto. O così almeno sembrava suggerire la sapienza antica, prima che questa tradizione andasse perdendosi lentamente: in effetti, è difficile alimentare un simile immaginario in un’epoca in cui, per la maggior parte della popolazione, il mare è di default uno stabilimento balneare da godersi nei mesi più assolati e felici dell’anno. A meno che non sia un tragico fatto di cronaca a riportare nella nostra mente questa associazione antica – che ha perso un po’ del suo appeal… ma, evidentemente, non del tutto.


Per approfondire:

  • Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi, Halloween. Nei giorni che i morti ritornano (Einaudi, 2006)
  • Vittorio Lanternari, La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali (Dedalo, 2004)
  • Maria Savi Lopez, Leggende del mare (Yume, 2017)

6 risposte a "Il mare come tomba e altre terrificanti angosce per la notte di Ognissanti"

  1. Avatar di vogliadichiacchiere

    vogliadichiacchiere

    Confermo, per i giorni dei Santi e dei Morti, la marineria sambenedettese resta in porto, c’è il rischio di pescare morti (magari di famiglia). In quei giorni (secondo il racconto dei “vecchi”) sono i morti che vanno a pescare . . . e potrebbero pescare anime di chi sfida il mare.
    C’è anche una bellissima poesia in dialetto, scritta da Bice Piacentini, se la trovo, te la giro . . .

    Ci sono altri giorni dell’anno in cui i sambedettesi DOC non vanno nemmeno in spiaggia . . . si chiamano “giorni ricordativi” e non si vuole rischiare di dover ricordare incidenti, a volte mortali, in mare.
    Secondo la Suocera (che era sambenedettese, anche se di famiglia contadina da generazioni) erano tutti quei giorni in cui c’erano feste religiose come Asciensione o Pentecoste, ma sopratutto alla festa della Madonna della Marina (patrona di San Benedetto del Tronto con San Benedetto appunto) e al 15 agosto “Assunzione di Maria Vergine”. . . in questo giorno di Ferragosto, spesso, si preferiva andare addirittura in montagna.
    Credo che le nuove generazioni non ne tengano più conto, i giovani per il 15 passano la notte in spiaggia ad aspettare l’alba . . . per fortuna di gravi incidenti, negli ultimi 30 anni non ne sono successi, in spiaggia.
    Ciao, Fior

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  2. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Non è strano che chi vola non pensi al mare che sta sorvolando come una tomba, eppure lo è anche per le vittime di diversi incidenti aerei: MH 370, AF 447, SAA 295, solo per citarne tre che hanno susicitato clamore (il primo e il terzo per i misteri che portano con loro).
    Non è strano che la gente dell’aria non ci pensi, perchè un volo sul mare dura al più delle ore, non dei giorni, e il pilotaggio di un aereo richiede una concentrazione tale da escludere altri pensieri.

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  4. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    Anatole Le Braz ha scritto « Le leggende della morte » in cui raccoglie leggende bretoni.

    Non è un caso se molte parlano di morti in mare.

    Annalisa

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