Bonifacio VIII e il terremoto

Era il 30 novembre, proprio come oggi; e, quasi come oggi, era la prima domenica d’Avvento. Correva l’anno 1298 e, per quegli scherzi meravigliosi che spesso fa la Chiesa, anche quel giorno i fedeli che s’erano radunati per ascoltare la messa domenicale s’erano sentiti leggere quello stesso brano del Vangelo che anche noi potremo ascoltare tra oggi e domani, a settecento-e-passa anni di distanza.

È quel brano del Vangelo di Luca che, in maniera nient’affatto ansiogena, annuncia l’avvento del Signore in questi termini: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria».

E fin qui, nulla di strano: ma, in quel 30 novembre 1298, mentre veniva letto questo Vangelo, accadde un fatterello così bizzarro da passare meritatamente alla Storia. Perché a celebrare la messa di cui stiamo parlando c’era papa Bonifacio VIII, per l’occasione a Rieti; e perché nel momento in cui fu annunciato il Vangelo, parve alla gente che la profezia stesse trovando compimento in quel preciso momento esatto. Perché proprio in quell’istante la terra cominciò a tremare e la chiesa minacciò di crollare inghiottendo tutti quelli che la popolavano: era il terremoto di Rieti, un evento sismico così violento da essere avvertito fino a Verona (!), provocando un numero di vittime incalcolabile (proprio nel senso che i cronisti dell’epoca non si presero nemmeno la briga di calcolarlo, nascondendosi dietro un generico “moltissime”).

Più facile è fare la cernita degli edifici che furono rasi al suolo o comunque necessitarono di massicce ristrutturazioni: quelli furono così numerosi da spingere i sismologi d’oggi ad affermare che il terremoto dovette avere un’intensità tra IX e X (rovina totale di alcuni edifici e gravi lesioni di molti altri) secondo i parametri della scala Mercalli. Quanto alla scala Richter, si suppone che il sisma abbia raggiunto una magnitudo di 6,26 nel corso della scossa più violenta, che si verificò il 1° dicembre. Quella del giorno prima – il nostro famoso 30 novembre – è stimata attorno ai 4,4 gradi; e tuttavia già bastò a lesionare molti edifici e a far scoppiare un discreto panico tra i presenti.  

Così descrive i fatti, nel suo Chronicon, Francesco Pipino, frate domenicano di stanza a Bologna:

Radunandosi il papa e tutti quanti i cardinali, dopo il sorgere del sole, per celebrare la messa nella chiesa maggiore di Rieti, mentre avevano indossato i paramenti pontificali, era la prima domenica d’Avvento, in cui secondo il costume della Chiesa romana si canta il Vangelo: ci saranno dei segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angustia delle genti; per nulla turbati da alcun presagio imminente del tempo, ecco improvvisamente si scatenò un grande terremoto da tutte le parti, che colpendo con la mazza delle scosse tutta la zona della città e il territorio circostante, sembrava dovesse far crollare tutta quanta la chiesa stessa e far sprofondare la città nell’abisso più profondo. Perciò la folla riunitasi in chiesa, terrorizzata e spaventata a morte per evitare il pericolo imminente, corre qua e là per gli angoli della chiesa e si stringe morta di paura ai muri tremanti.

E il papa?
Rimarrà deluso chi si dovesse aspettare dal sommo pontefice manifestazioni di sangue freddo, segni di perseveranza eroica, inattaccabile e ieratico stoicismo. Un po’ come tutti gli altri presenti,

il sommo pontefice, volto in alto lo sguardo e alzando le mani al cielo, si alzò dal soglio e datosi alla fuga scappò fuori con tutto il popolo e uscì illeso

«Perché rimanere nel pericolo era tentare Dio», aggiunge Francesco Pipino, facendo mostra d’una ragionevolezza con cui mi sentirei di concordare. Il problema è che non concordarono gli uomini del tempo – che da un pontefice si sarebbero aspettati ben altro atteggiamento (tipo, che ne so, morire sotto le macerie per dare una manifestazione di coraggio, evidentemente).

L’elemento che più di tutti determinò lo scandalo fu la dinamica della fuga precipitosa: non solo il pontefice aveva interrotto la celebrazione con una fretta e un’incuria che molti giudicarono irriguardosa persino nel contesto. Peggio ancora, era scappato fuori dalla chiesa indossando i paramenti liturgici con cui stava celebrando: e la visione di un papa “con gli abiti di alta ordinanza” che si aggirava smarrito in mezzo alle strade terremotate colpì dolorosamente lo sguardo degli uomini del tempo, molto più allenato del nostro a dare valore a quei simboli che sottolineano il sacro e l’alterità. Sicché, risultò profondamente disturbante lo spettacolo di quel papa e di quei cardinali che, con gli abiti propri della più solenne liturgia, vagavano per le strade, intimoriti e tremanti, come profughi, mescolandosi alla massa indistinta di donnicciole, marmocchi, bovari e vegliardi come se non fossero poi così diversi da loro. Anzi, peggio: come se il loro ruolo non fosse poi così diverso da quello del popolino.

Non furono i prelati gli unici ad avere un simile comportamento, sol per quello. Anche l’aristocrazia locale diede spettacolo –

fuggono a piedi senza curarsi di avere servitori benvestiti che facciano strada, senza aspettare i cavalli, dimenticando di mettersi il cappello in testa

– e anche lei andò incontro a una buona dose di ironia per quel comportamento così poco dignitoso. Ma, dopotutto, da un aristocratico non ci si aspetta necessariamente lo stoicismo eroico: virtù che, invece, ai religiosi sommi viene richiesta eccome. E, in questo, Bonifacio VIII mancò pesantemente: il popolo di Rieti non gli perdonò di essersi fatto vedere profugo tra i profughi, atterrito tra gli atterriti, addirittura costretto a soggiornare per qualche tempo in una tendopoli allestita nei pressi del locale convento domenicano nell’attesa di poter organizzare il viaggio di ritorno, che avrebbe condotto lui e la sua corte in terre più sicure.

O tempora, o mores: quella che, ai giorni nostri, sarebbe stata una benedizione per le PR del papa, umile tra gli umili e vicino ai miseri nel dolore, fu considerata all’epoca l’ennesima riconferma dell’inettitudine di un pontefice che non sembrava minimamente adatto a farsi pastore del suo gregge.

«La fuga del papa dalla chiesa di Rieti e la perdita momentanea di insegne e di prestigio divennero un pettegolezzo famoso», scrivono Emanuela Guidoboni e Jean-Paul Poirier nella loro piacevolissima Storia culturale del terremoto. «Due anni più tardi, nel 1300, Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo e accorsero a Roma migliaia di pellegrini. Molti di essi appresero questo episodio, che passò di voce in voce, tanto che il terremoto di Rieti divenne famoso in numerosi annali e cronache europee solo per la paura di Bonifacio VIII».

Povero Bonifacio VIII. Sarà che io non sono una donna medievale: ma se proprio, questa storiella ha il potere di rendermelo un po’ più simpatico e vicino, questo papa così spaventato, disarmato e umano.


Per approfondire: Guidoboni, Emanuela e Jean-Paul Poirier. Storia Culturale Del Terremoto (Rubbettino Editore, 2020)

4 risposte a "Bonifacio VIII e il terremoto"

    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Anche molto curioso, secondo me, il modo totalmente diverso in cui la gente del tempo ha guardato allo stesso episodio. Figuriamoci cosa succederebbe oggi, se un papa venisse colto nel mezzo di un terremoto disastroso e fosse costretto a vivere fianco a fianco coi terremotati per un po’, prima che diventi possibile organizzare il suo viaggio di ritorno a Roma. Sarebbe oro per le PR, figuriamoci. E invece, trovo davvero curiosissimo il modo in cui i medievali avevano guardato allo stesso episodio con tutt’altro sguardo 🙂

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