Chiunque abbia avuto un’infanzia come si deve, opportunamente costellata di libri di fiabe, sa che certi re non muoiono del tutto. Artù è probabilmente il caso più eclatante: non giace sepolto nella nuda terra, a decomporsi, bensì riposa ad Avalon; e tutti sanno che, al momento del bisogno, tornerà in groppa al suo cavallo a salvare l’Inghilterra dal nemico che la insidia.
Il suo è il caso più celebre, ma non certamente l’unico. In Germania, per secoli, lo stesso ruolo fu attribuito al Barbarossa, che secondo il folklore dorme nelle viscere della montagna di Kyffhäuser, la fulva barba ormai così lunga da avvolgere il tavolo seduto al quale lui, paziente, attende. In Ungheria si raccontava lo stesso di re Mattia Corvino; nei Balcani molti sognavano il ritorno di Alessandro il Grande. A Lisbona, la morte eroica e prematura del giovane Sebastiano I (+1578), peraltro causa d’una crisi dinastica al termine della quale la corona del Portogallo fu unita a quella di Spagna, aveva addirittura dato origine a un movimento pseudo-messianico passato alla Storia come sebastianismo, in virtù del quale si riteneva che il defunto re sarebbe presto tornato in terra per ridare autonomia alla sua nazione.
Insomma, quello del re di ritorno è un mito diffuso (e molto più attuale di quanto penseremmo: non resisto alla tentazione di citare gli inquietantissimi radicali del movimento QAnon che nel 2021 attendevano il ritorno in vita di John John Kennedy, da morte risorgente per traghettare gli States verso un futuro più prospero). I folkloristi commenterebbero che è un mito che funziona proprio ha il potere di rassicurare e inquietare al tempo stesso, infondendo speranza nella paura: rassicura perché promette che la salvezza arriverà; inquieta perché implica che per meritare il ritorno del sovrano il popolo dovrà toccare il fondo e precipitare in una disperazione che non ha precedenti storici; infonde speranza perché permette di rileggere in chiave positiva le traversie di una nazione (“sì, ok, è tutto un vero schifo, ma è uno schifo funzionale alla salvezza”: insomma, una catarsi).
Ebbene, tra le molte figure di questi re sospesi, quella di cui parliamo oggi è quella di Venceslao I, duca di Boemia: un personaggio particolarissimo, in questo pantheon di re mitici, perché è l’unico a essere anche aureolato; noto per la sua fervente devozione in vita, Venceslao è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Insomma, personaggio interessante.
Due coordinate storiche per inquadrare il soggetto: nato all’inizio del X secolo, Venceslao divenne duca di Boemia quando era poco più che adolescente. Educato al cristianesimo dalla nonna Ludmilla, fu un governante saggio e devoto, che passò alla Storia per il suo equilibrio e per la cura davvero pastorale con cui s’occupava del suo popolo. La canzonetta natalizia Good King Wenceslas, poco conosciuta qui in Italia ma popolarissima all’estero, lo dipinge nell’atto di portare regali di Natale ai suoi sudditi più poveri: un ritratto zuccheroso e stereotipato, ovviamente, ma non poi così lontano da quello che ne danno le testimonianze dei suoi contemporanei.
Ma l’essere amato dal popolo non bastò a salvargli la vita, anzi contribuì a creare attorno a lui un sacco di invidie: sicché, il 28 settembre 935, Venceslao fu assassinato mentre usciva dalla chiesa, in una congiura ordita da suo fratello che voleva usurpargli il trono. Martire della politica, forse più che della fede, Venceslao fu canonizzato in tempi rapidissimi (era comunque stata una persona dalla condotta retta e santa, in vita) e, agli occhi della popolazione, divenne ben presto un santo tra i più amati (oggi, Mani di pasta frolla ci parla dei tradizionali festeggiamenti in suo onore) ma anche, e soprattutto, un vero e proprio simbolo nazionale. E fu esattamente in quel momento che la vita di Venceslao smise d’esser storia per trascolorare in leggenda: perché il governante santo divenne, in morte, il re eterno della nazione ceca.
È esattamente in questa veste che lo incontriamo al Blaník, una montagna che s’erge esattamente al centro della nazione – e che occupa una posizione centrale anche nell’immaginario nazionale. Ebbene, si mormora che, sotto quelle rocce ricoperte di verde, non vi siano soltanto terra e granito: all’interno d’una grotta inaccessibile posta ai piedi della montagna, vi sarebbe anche un intero esercito di cavalieri. Addormentati.
Dormono a cavallo, i fedelissimi di san Venceslao, con le loro corazze lucidissime e le spade già pronte per essere sguainate. Dormono senza dormire, in una stasi senza tempo che li preserva dalla morte e li rende pronti a risvegliarsi, con un solo battito di ciglia. Al centro, il loro comandante: san Venceslao, giovane e incorrotto, il volto quieto e gli occhi chiusi, la mano che già stringe l’elsa della spada. Tutt’intorno a loro, un silenzio minerale interrotto solo dallo scalpiccio dei cavalli, che di tanto in tanto si riscuotono per brevi istanti da quel torpore per far guizzare i muscoli, in attesa della carica: capita di tanto in tanto, ai viandanti che valicano il Blaník, di sentire il rumore sordo degli zoccoli echeggiare sotto di loro, facendo fremere la terra. O così almeno assicura il folklore nazionale.
E lì attendono, i cavalieri di san Venceslao, pronti a destarsi nel giorno in cui arriverà il momento di massimo bisogno della nazione. I segni premonitori del loro risveglio sono scolpiti nella memoria popolare: una quercia secca che d’un tratto tornerà verdeggiante; una sorgente ormai asciutta che ricomincerà a zampillare. Allora, la montagna si aprirà con un boato e dalla fenditura nella roccia uscirà il bianco cavalier seguito dal suo esercito splendente. La terra tremerà sotto gli zoccoli dei cavalli, s’aprirà una guerra senza quartiere e le schiere nemiche non avranno scampo: saranno spazzate via per sempre. E la nazione, grazie al suo re eterno, tornerà a gioire.
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L’immagine è così potente da essersi tramandata attraverso i secoli, in un fiorire di leggende che, al momento opportuno, ben si sono prestate a fondersi con la storia. La figura di san Venceslao fu largamente rivisitata sul finire del XIX secolo, quando la nazione ceca cominciò a lottare per l’indipendenza, ma acquistò un ruolo di particolare rilievo nel 1939, quando la Cecoslovacchia divenne protettorato tedesco sotto il Terzo Reich. Strano ma vero: la resistenza antinazista attinse ampiamente al mito del re dormiente per tenere alto l’umore nazionale, facendo circolare la voce che il monte Blaník fosse in subbuglio; i cavalieri dormienti, ormai prossimi al risveglio. Fu efficacemente utilizzata in chiave propagandistica anche un’altra leggenda legata a san Venceslao: quella dell’omonima corona che si conserva nella cattedrale di Praga. Il gioiello fu realizzato nel XIV secolo per re Carlo IV, ma tutti lo conoscono come “corona di san Venceslao” perché all’epoca fu consacrata al santo patrono della nazione.
Ebbene, alla corona di san Venceslao era legata da secoli una leggenda: chi osasse indossarla senza averne il diritto morirebbe entro dodici mesi, colpito dal giusto sdegno del santo. Durante l’occupazione nazista, la resistenza fece circolare ad arte la diceria secondo cui Reinhard Heydrich, il “boia di Praga”, avrebbe osato calarsi sul capo quella corona proibita. Non è vero (o quantomeno, non esistono evidenze storiche a sostegno di questo aneddoto), ma l’importante era che il popolo ci credesse e traesse consolazione e forza da questa idea. Certo è che nel 1942 Heydrich fu ferito mortalmente in un attentato organizzato dalla resistenza, e per colmo di vendetta poco dopo morì anche suo figlio, travolto da un camion in un incidente.
San Venceslao, a quanto pare, aveva mantenuto la promessa. Il re eterno non aveva smesso di vegliare.
Per approfondire:
- Robert Antonín, The Ideal Ruler in Medieval Bohemia (Brill, 2017)
- Wolf Gruner, The Holocaust in Bohemia and Moravia. Czech Initiatives, German Policies, Jewish Responses (Berghahn Books, 2017)
ac-comandante
Sul Barbarossa dormiente, dopo aver sentito una mia amica cantare, sulla musica del re di Thule, la ballata di Rückert (i versi hanno la stessa cadenza) appunto su Barbarossa, mi era venuta l’idea di coniugare Fantasy e Techno: il ritorno dell’Hohenstaufen sarebbe avvenuto usando armi moderne (anche atomiche, sì) e dei guerrieri devoti ma reclutati al momento e fra gente comune, prescelta imperscrutabilmente.
Quella dei Qanon non è l’unica leggenda americana dell’eroe dormiente: poco dopo Pearl Harbor, si diffuse la leggenda che, se fosse andata ancora male, suonando non so che campana recuperata da non so che nave, sarebbe ritornato l’ammiraglio Farragut (quello della guerra civile) per guidare di nuovo la US Navy alla vittoria. Non è stato necessario.
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