Come forse potrebbe aver intuito qualche mente particolarmente arguta, ho recentemente traslocato.
Nel tentativo di spendere il meno possibile, mi sono procurata i mobili nuovi… non all’Ikea, come farebbe una persona sana di mente, ma bensì nella soffitta della casa di campagna.
Ebbene sì: nella vecchia casa di campagna che, ancora oggi, ospita parte della famiglia di mio padre, si sono accatastati, col passar delle generazioni, alcuni mobili smessi-ma-non-troppo, caduti nel dimenticatoio alla morte del legittimo proprietario o smontati e portati in cantina a seguito di un qualche trasloco. Tutta roba che non si usava più, ma che, tutto sommato, spiaceva buttar via, “perché, in fin dei conti, potrebbe sempre tornare utile in un domani…”.
I sostenitori del declutter staranno avendo la pelle d’oca, ma, grazie a un secolo di accumulo compulsivo da parte dei miei antenati, la sottoscritta è riuscita a mettere assieme un salotto shabby chic praticamente a costo zero.
Rilascio queste dichiarazioni perché vi immagino maniacalmente interessati al mio salotto?
No, ovviamente no: il punto è che, nei mesi scorsi, mio padre si è immerso nella polvere secolare della proverbiale vecchia soffitta della casa di campagna, per vedere cosa se ne poteva cavare…
…e, oltre ai mobiletti, ha trovato un tot. di altre cose interessanti.
Ad esempio, ha trovato un piccolo sacchettino di tela contenente alcuni affascinanti reperti storici… tipo questo, per dirne una.
E fin lì, niente di strano. Per chi ha un minimo di dimestichezza coi nostri album di famiglia, non è stato difficile riconoscere in questa fotografia il volto di Nonno Michele, il padre del mio nonno paterno.
È stato un po’ più interessante, semmai, indagare sulle origini del reperto numero 2: un ovale di tela zozzo di polvere da far schifo, che, tornando a Torino dalla casa di campagna, mio padre ha lasciato scivolare sulla mia scrivania, commentando “tiè! Questo è pane per i tuoi denti”.
Dopo un colpo di spugna per togliere a ‘sto coso un secolo di incostrazioni di sporco, è stato infatti evidente a tutti che l’aggeggio misterioso aveva tutti i requisiti per solleticare il mio interesse. Era dichiaratamente una roba di Chiesa,
che conteneva al suo interno un misterioso foglietto.
Tale foglietto – e la cosa assumeva contorni sempre più chiesastici man mano che proseguivo la mia piccola indagine – era un foglietto di carta sottile ripetutamente piegato su se stesso
che per miracolo è rimasto intatto attraverso i decenni, e si è presentato a me così.
…okay, dunque: si trattava di uno scapolare del Sacro Cuore che, evidentemente, qualche mio antenato da parte paterna doveva aver posseduto (…e usato a lungo in condizioni molto disagevoli, vista l’usura della stoffa).
Vabbeh: piccola chicca di storia familiare, evidentemente la mia famiglia è sempre stata molto devota… ma, onestamente, mi sfuggiva il perché della collocazione di questo oggetto. Era stato recuperato in quel sacchettino di tela contenente le foto del mio bisnonno con la divisa da militare e alcuni altri cimeli risalenti al suo servizio durante la grande guerra… va bene tutto, ma che c’azzecca con questi oggetti uno scapolare del Sacro Cuore?
A un certo punto, sono stata tentata dal desistere, ripetendomi “e che vuoi che c’azzecchi? È finito casualmente nello stesso sacchettino!”, e dandomi da sola della cretina per la mia fissazione da accademica intellettualoide: il fatto che ci debba necessariamente essere un vincolo storico fra i documenti che vengono reperiti assieme, è una cosa che studi sui libri di scuola, ma mica vuol dire che sia un legge universale che vale anche per le soffitte delle case di campagna immerse nel caos…
…e poi, ho dato ancora un’occhiata al retro dello scapolare.
La stoffa era lercia oltre ogni dire, sporca di cose che non riuscivo nemmeno a identificare e probabilmente era meglio così; però, sotto a quel mantello di zozzure, si riusciva vagamente a intravvedere una scritta a stampa.
Non so cosa riusciate a leggere voi da una fotografia, ma io ho azzardato. “Guardate che, secondo me, qui dietro c’è scritto FERMATI”, ho comunicato a mamma e papà.
Fermati?
Chi o che cosa dovrebbe essere bloccato da uno scapolare del Sacro Cuore?
Il diavolo, la tentazione, il peccato, la cattiva morte, ma non mi sembra comunque una buona ragione per deturpare uno scapolare scrivendoci sopra un “FERMATI” a scritte cubitali…
…poi, ho pensato a dove sta fisicamente uno scapolare quando viene indossato, nascosto sotto i vestiti… e ho fatto un sorriso a trentadue denti.
Serviva a fermare i proiettili!
Rapida ricerca su Google (e poi, con calma, in biblioteca), e ho avuto conferma: quello che tenevo fra le mani era effettivamente un oggetto devozionale molto diffuso fra i soldati al fronte durante il primo conflitto mondiale. Perfetto “per le persone che non hanno agio di pregare lungamente”, come era specificato sul foglietto consunto che mi son trovata fra le mani, lo scapolare del Sacro Cuore – più propriamente detto “scudo del Sacro Cuore”, in questa forma specifica – era una devozione che aveva goduto di notevolissima diffusione durante gli anni della prima guerra mondiale.
Non parlerò della devozione al Sacro Cuore in sé: sarebbe inutile e superfluo; se ne è già parlato a lungo, online, in questi ultimi giorni. Mi limiterò a dire che, nonostante gli sforzi delle alte gerarchie ecclesiastiche (e anche di alcuni ordini religiosi decisamente “virili”, come ad esempio i Gesuiti), la devozione al Sacro Cuore è stata a lungo percepita come un qualcosa da donnicciole.
Cuoricini, Madonne, angioletti, Gesù Bambini: storicamente, devozioni di questo tipo sono spesso state considerate “roba da donne”, più in sintonia con l’emotività femminile che con la vita di fede di un uomo adulto. Del resto, cosa ci fa un uomo tutto d’un pezzo con un cuoricino addosso?, maddai! Che sia il cuore di Gesù oppure quello di Gertrude che ti aspetta a casa, comunque un vero macho non si farebbe mai vedere in giro con una roba del genere. È pieno il mondo di devozioni affascinanti: ‘ste robe di cuoricini lasciamole alle donne.
Gradualmente, in quei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, però, cambia qualcosa. Un po’ dappertutto, e in maniera molto ecumenica (nel senso che questa metamorfosi riguarda sia i Cattolici che i Protestanti), i fedeli di sesso maschile cominciano pian piano ad appropriarsi di devozioni che, fino a qualche tempo prima, erano state ingiustamente relegate all’universo muliebre. Si tratta soprattutto di certi culti mariani, e, in maniera forse ancor più eclatante, della devozione al Sacro Cuore di Gesù. Proprio quest’ultima immagine, infatti, diventa praticamente un must in tutte le sacche dei militari cattolici impegnati al fronte durante la prima guerra mondiale.
Perché proprio il Sacro Cuore? Beh, per varie ragioni: forse, perché erano promesse indulgenze importanti (e preziosissime, per chi ogni giorno rischia la vita!) a chi seguiva questa devozione. Forse, perché un “permesso speciale” di papa Pio IX aveva reso benedetti ipso facto tutti gli scudi del Sacro Cuore realizzati in giro per il mondo (ovverosia: non serviva un cappellano per benedire quel piccolo ovale di stoffa che portavi al petto: teoricamente potevi cucirtelo anche da solo, la notte, in trincea).
O forse, più probabilmente, perché il diciottenne che rischia la vita al fronte in una guerra senza precedenti, trova conforto nell’ammettere a se stesso che, sì, ha il cuore straziato dall’orrore e dal terrore… e che non c’è niente di cui vergognarsi, sai? Del resto, anche Gesù soffriva.
FERMATI!
Il cuore di Gesù è con me!
Recitavano così, gli scudi del Sacro Cuore che i soldati portavano al petto durante quella guerra terribile scatenatasi cent’anni fa – e quel “fermati!”, inizialmente rivolto proprio ai peccati e alla tentazione, assumeva una duplice (e commovente) valenza, nella mente di quei soldati che lo indossavano.
Non solo preghiera silenziosa per chi non ha il tempo e la fermezza di pregare diversamente; non solo protezione contro la cattiva morte e contro il demonio: lo scudo del Sacro Cuore, appuntato al petto dei soldati prima di sfidare la mitragliatrice nemica, diventava anche una sorta di protezione celeste per chi supplicava il Signore di poter avere salva la vita.
***
Il mio nonno Michele?
Lui, fortunatamente, è sopravvissuto, ed è tornato a casa.
Emilia
Se ho capito bene, la faccenda è sorta così.
La Venerabile Armida Barelli suggerì a padre Agostino Gemelli, che conosceva dal 1910, di incoraggiare la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore. Ottenuto il permesso di papa Benedetto XV, i due si misero all’opera: padre Gemelli presso il comando delle Forze Armate, Armida, invece, a confezionare con l’aiuto di numerosi volontari pacchi da inviare al fronte. Così, il primo venerdì di gennaio 1917, due milioni di soldati compirono quell’atto solenne.
Fonte: Piersandro Vanzan, “Armida Barelli – Santità laicale al femminile”, in “La civiltà cattolica” quaderno 3633 (3 novembre 2001), pp. 226-239, qui 231-232 (l’ho trovato su Google Books).
Chissà, forse quel piccolo scapolare è stato confezionato dalla Barelli in persona. Wow!
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oreficemichele
Ciao. Grazie della ricerca che hai fatto, davvero interessante. Molto bello anche lo scritto.
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Dile
Uao, una indagine storico-religiosa molto emozionante. Io ho trovato il tutto davvero commovente. L’idea che un ragazzo giovane e impaurito abbia avuto addosso quell’oggettino e probabilmente vi si sia aggrappato nelle ore peggiori della sua vita mi ha fatto provare tenerezza.
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senm_webmrs
Parlando di fissazioni accademiche, a giudicare dalla fotografia, “un ragazzo giovane” (sempre ammettendo che ci siano ragazzi vecchi 🙂 ) non è la descrizione che meglio si attaglia al bisnonno della nostra ospite, che a occhio aveva superato la trentina e anche qualcosa di più. A occhio potrebbe benissimo aver fatto parte della “milizia territoriale”, o “terza linea”, che peraltro vide parecchia attività di prima linea nella Grande Guerra.
Quanto agli “oggettini”, chi l’ha detto che sono le dimensioni quelle che contano? 🙂
(guardi a destra http://www.santuariomontenero.org/index.php?page_file=exvoto)
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Lucia
😀
Ecco qualche dettaglio biografico sul bisnonno Michele (di cui, purtroppo, non sappiamo moltissimo perché è morto quando mio papà aveva solo quattro anni… ed evidentemente mio nonno non si è mai dilungato più di tanto sui “ricordi di guerra” del defunto padre, ahimè!).
Comunque. Il bisnonno era del 1885: quando era partito per il fronte era partito nella fanteria, e per un po’ di tempo aveva effettivamente combattuto “in prima linea” sul fronte del Trentino. Poi, a un certo punto, (visto che, di lavoro, faceva il macellaio), era riuscito a farsi trasferire nelle retrovie e lavorava appunto come macellaio dell’esercito, macellando il bestiame che si riusciva a raccattare in giro… e/o, soprattutto, i cavalli feriti che andavano soppressi. (Ehm. Chi ha visto War Horse, in questo momento starà odiando il mio bisnonno 😀 )
Tutto sommato, gli è andata di lusso, diciamo. Per quanto possa essere romantica l’immagine del bisnonno sbarbatello che invoca il Sacro Cuore di Gesù sfidando fra le lacrime le mitragliatrici nemiche, debbo smentire 😀
(Anche se, a onor del vero – mi immagino il mio bisnonno che mi guarda malissimo dall’Aldilà – qualche tempo di guerra “seria”, prima linea, se l’è fatto pure lui 😉
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