Fame di ostie

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Dall'account Instagram di @jerardeusebio | Passing Jesus on, one hand at a time. This is the scene during communion at the Pope's Sunday Mass, Quirino Grandstand, January 18, 2015. #PopeFrancisinthePhilippines #PopeTYSM #Philippines #PopeFrancis #QuirinoGrandstand

Dall’account Instagram di @jerardeusebio | Passing Jesus on, one hand at a time. This is the scene during communion at the Pope’s Sunday Mass, Quirino Grandstand, January 18, 2015. #PopeFrancisinthePhilippines #PopeTYSM #Philippines #PopeFrancis #QuirinoGrandstand

Quel famoso video diventato virale nei giorni scorsi (quello che mostrava alcuni fedeli passarsi di mano in mano l’ostia consacrata per farla arrivare anche a chi era rimasto indietro, bloccato dalla ressa, nella Messa pontificia tenutasi a Manila) ha quantomeno avuto un merito: spronarci a riflettere sul modo con cui ci accostiamo al corpo di Cristo.

Al netto delle polemiche levatesi contro il Papa, molto più interessanti sono state le riflessioni di alcuni opinionisti cattolici, che – soprattutto negli USA – osservavano: beh, ma non è che uno sia costretto a fare la comunione tutte le domeniche. Sottintendendo chiaramente: “in una situazione così caotica, in cui i fedeli non riescono a disporsi in fila indiana per accostarsi ordinatamente alla comunione, io me ne sarei rimasto al mio posto”.
Come a dire: mica c’è scritto che ogni fedele debba obbligatoriamente comunicarsi ogni singola volta che va a Messa. Del resto, esiste pure la comunione spirituale.

“Andare a Messa e poi non fare la comunione? Anche se mi sono confessato da poco e non c’è nulla che mi impedisca di accostarmi all’Eucarestia? Ohibò!”.
Oggigiorno, molti di noi inorridirebbero alla sola idea – ma, in realtà, una simile linea di pensiero è andata per la maggiore per buona parte della Storia. E non bisogna nemmeno risalire troppo indietro nel tempo per rendersene conto: probabilmente, uno qualsiasi dei nostri nonni ci confermerebbe che, in passato, accostarsi alla comunione era un evento molto più raro di quanto non accada oggi.

Sia chiaro: l’Eucarestia è cibo per l’anima. Potersi accostare con regolare frequenza al corpo di Cristo è un dono straordinario che ci viene dato – roba che, a pensarci seriamente, dovremmo sentirci torcere le budella per la commozione. Lungi da me distogliere i fedeli dalla santa pratica della comunione frequente. Ci mancherebbe.
Eppure, credo che, proprio per riflettere su quest’incredibile grazia di cui siamo oggetto, possa essere di qualche utilità un breve excursus storico dedicato a quel periodo in cui la comunione frequente non solo non era praticata, ma anzi era spesso sconsigliata.
Stiamo parlando del Medio Evo.

Il Medio Evo “inizia” in un periodo storico in cui le masse, certamente, erano già state evangelizzate… ma quanto a catechesi, zoppicavano ancora un po’. I grandi pensatori cristiani avevano indubbiamente molto chiaro il concetto di “Eucarestia” e di “presenza reale”; il popolino, in compenso, sembrava avere in testa poche idee e ben confuse.
Scorrendo le cronache del tempo, lo storico può trovare traccia di abusi eucaristici che lasciano sgomenti. Passi, portarsi a casa l’ostia consacrata e poi seppellirla nel campo concimato per garantirsi un buon raccolto (“evvabbeh”, dice il medievista inorridendo: “era ignorante superstizione”). Ma leggere di fedeli che, prima di partire per un viaggio, mettevano in valigia un po’ di ostie consacrate perché “metti mai che strada facendo io non riesca a trovare una chiesa”, oppure ancora se ne tenevano in casa uno stock, casomai qualche parente cadesse in agonia e chiedesse il viatico con estrema urgenza… beh: questo lascia intendere come, all’epoca, la massa dei fedeli non avesse molto chiaro il riguardo che si deve portare verso il corpo di Cristo.

Di fronte a simili abusi, la risposta della Chiesa fu pragmatica. Sulle linee di: col tempo, con calma, catechizzeremo le masse; per intanto, cominciamo immediatamente a ridurre le occasioni di peccato.
Si stabilì che, di regola, i fedeli potessero accostarsi all’Eucarestia solo in poche occasioni all’anno. Queste occasioni potevano variare da luogo a luogo, ma generalmente coincidevano con le feste liturgiche più importanti: Natale, Pasqua, Pentecoste…
Ogni contatto con il corpo di Cristo, ça va sans dire, doveva essere preceduto da un’adeguata preparazione: penitenza, preghiere e digiuni aiutavano il fedele ad avere ben chiara la straordinarietà dell’atto che stava per compiere.
Che la vita spirituale dei fedeli potesse essere danneggiata dall’impossibilità ad accostarsi all’Eucarestia con maggior frequenza era un pensiero che sembra non aver neanche sfiorato i teologi medievali. Il sacerdote – si diceva – riceve quotidianamente il corpo di Cristo: non solo per se stesso, ma anche per tutta la comunità dei suoi fedeli. Quanto al popolino che assisteva alla Messa, era costantemente incoraggiato dai teologi a contemplare di lontano l’ostia consacrata, traendone un nutrimento interiore: un suggerimento che, nei secoli, si sarebbe sviluppato nella pratica della “comunione spirituale”.

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Contrariamente a quanto potremmo forse immaginare, questa scarsa familiarità con l’Eucarestia non comprometteva minimamente il fervore religioso nei confronti del corpo di Cristo. Anzi: paradossalmente lo aumentava, contribuendo a sottolineare la straordinarietà di ciò che accadeva ogni giorno sull’altare per mano del sacerdote.
Va anche detto che parlare di “scarsa familiarità con l’Eucarestia” da parte dell’uomo medievale è quantomeno un azzardo: nonostante l’aura di maestà che circondava il corpo di Cristo, i fedeli tendevano a percepirlo come una presenza molto concreta nelle loro chiese. Gesù fattosi pane si annunciava con il suono delle campane al momento della consacrazione, splendeva di luce dentro la sua “dimora” nel tabernacolo; talvolta, manifestava la sua presenza in maniera esplicita e incontrovertibile, con uno dei tanti miracoli eucaristici di cui narravano le cronache.

Entro la fine del secolo XIII, con l’istituzione della festa del Corpus Domini e con la formulazione (quasi) definitiva del dogma della Transustanziazione (su cui tornerà poi a soffermarsi il Concilio di Trento), il culto eucaristico poteva dirsi pienamente consolidato.
Talmente grande, a quel punto, era il desiderio di trovarsi a tu per tu col corpo di Cristo, che, nel corso del ‘300, i sacerdoti tentarono di venire incontro alle richieste dei fedeli inventando un nuovo oggetto liturgico fino ad allora sconosciuto: l’ostensorio. Progettato in un primo momento su modello dei reliquiarii, e poi strutturato sottoforma di piccolo tabernacolo di vetro trasparente sostenuto da un calice in cui si conservava il vino consacrato (l’ostensorio a forma di sole raggiante è invenzione recente: risale all’epoca della Controriforma), questo strumento portava con sé un’innovazione non da poco. L’ostia consacrata poteva essere portata in processione “scoperta”, cioè in modo tale da renderla visibile a tutti; inoltre, dopo la funzione, poteva restare sull’altare, esposta per l’adorazione personale dei fedeli.

L’uomo medievale ha una disperata “fame di ostia”, come scrivono talvolta gli storici che si occupano di questo tema, e la Chiesa risponde concedendo ai fedeli questa nuova modalità di sfamarsi del corpo di Cristo. Anche perché l’altra modalità (quella di ricevere fisicamente sulla lingua l’ostia consacrata) continuava ad apparire a molti un evento così straordinario da far tremare le vene e i polsi.

L’Eucarestia era sognata, agognata, desiderata talvolta con un bisogno quasi fisico; numerosi fedeli cominciavano a domandare consiglio alla loro guida spirituale per sapere se fosse conveniente, per loro, accostarsi al corpo di Cristo con maggior frequenza. Ma se il sacerdote rispondeva “sì”, valutando che non sussistesse per il suo figlio spirituale il rischio di “assuefarsi” a questo surplus di grazia,  non era infrequente che fosse il fedele stesso a rinunciare al privilegio che si era faticosamente visto accordare. Fa sorridere (ma fa anche riflettere…) la storia di santa Margherita da Cortona, che prima insiste fino allo sfinimento col suo direttore spirituale per ottenere il permesso di fare la comunione quotidiana, e poi, ottenuto finalmente il beneplacito, fa marcia indietro sentendo di non essere degna di tale grazia.

Insomma: nel tardo Medio Evo, la religiosità popolare registrava una forte ambivalenza circa l’atteggiamento del fedele nei confronti dell’Eucarestia: da un lato, la si adorava e la si bramava; da un altro, la si riveriva con timore. Quelle parole che noi, spesse volte, pronunciamo quasi distrattamente durante la Messa – “Signore, non son degno di accostarmi alla tua mensa” – rappresentavano, per i nostri antenati, uno straziante cruccio e una costante lotta interiore.

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C’è un certo tipo di misticismo tardo-medievale che per noi è difficile da capire, pieno com’è di deliqui di fronte al Tabernacolo e sommovimenti delle viscere. Letti con la mentalità di noi moderni, certi resoconti possono quantomeno far inarcare le sopracciglia; ma, se contestualizzate nel clima di grande tensione emotiva verso il corpo di Cristo di cui s’è detto, anche queste esperienze hanno molto di cui raccontarci. E così, la religiosità popolare del Tardo Medio Evo ci consegna pagine scritte da mistiche (non solamente suore, ma anche beghine e donne sposate) che, nel descrivere il loro amore per l’Eucarestia, hanno addirittura l’ardire di attingere al vocabolario della poesia d’amore.
Sembra strano, lo riconosco. Ma… a ben pensarci, perché? In fin dei conti, cos’è la comunione, se non il momento in cui le nostre labbra si posano sul corpo di Cristo? E quindi: cos’è l’Eucarestia, se non il momento in cui noi possiamo “dare un bacio” a Dio in persona, testimoniando così il nostro amore verso di Lui?

Pare che nel Medio Evo ci fossero mistiche che scoppiavano in un pianto di commozione, tutte le volte che facevano la comunione. Alcune agiografie – forse calcando un po’ la mano, ma sicuramente facendo leva su un sentimento diffuso – riportano di sante che stramazzavano a terra prive di sensi in balia di un deliquio estatico, non appena l’ostia consacrata si posava sulla loro lingua.

Altri tempi, altre sensibilità.
Ma forse varrebbe la pena di ricordarsi di questa Storia, la prossima volta che, a Messa, ci alzeremo dal nostro banco e ci metteremo in fila per fare la comunione. Anche solo per non correre mai il rischio di sottovalutare il dono strabiliante che ci è stato fatto, e il gesto, davvero incredibile, che stiamo per compiere.

2 risposte a "Fame di ostie"

    1. Lucia

      …guarda, Laura: tra me e la comunione, son successe cose nell’arco degli ultimi sei mesi. Tutta una serie di piccole coincidenze, ma devo dire che, l’una assieme all’altra, mi stanno davvero aiutando a vedere la comunione un po’ più… così, come la descrivevo.

      Punto primo, un intervento alla bocca. A un certo punto della convalescenza stavo già bene ma dovevo ancora fare attenzione a non infilarmi in bocca niente che potesse essere sporco/con batteri sopra, quindi, a Messa, ho cominciato a prendere la comunione direttamente in bocca, e non più sulla mano (basandomi sul ragionamento: io ho appena stretto la mano a millanta persone durante il segno della pace, e chissà che cosa avevano appena toccato loro; il prete quantomeno di sicuro non si è scaccolato sull’altare sennò l’avrei visto).

      Punto secondo, la mia permanenza a Roma, e la mia assidua frequentazione, lì, di una chiesa in cui si celebra la Messa in forma straordinaria. Chiariamo che NON ho simpatie lefebvriane o altro, ma, invitata da un amico ad andare a Messa con lui (in forma straordinaria) sono stata molto felice di approfittare dell’occasione, che a Roma è facile e comoda da cogliere e qui a Torino già di meno.
      E, beh: senza nulla togliere alla Messa “normale”, la Messa in forma straordinaria ti aiuta proprio tanto, a vedere l’eucarestia come qualcosa di sacratissimo e straordinario.

      Punto terzo, il fatto che mi son sposata, con uno che, per sua abitudine, sta inginocchiato per tutta la durata della preghiera eucaristica (dal Santo fino al Padre Nostro) e anche quando ritorna al banco dopo aver fatto la comunione.
      Sono tutte pratiche che faccio anch’io, ma mi capita talvolta di trovarmi in chiese in cui sono davvero-davvero l’unica a farlo, e questo mi inibisce un po’. Non tanto perché mi vergogni, ma perché mi sembra di voler ostentare la mia devozione, in quell’atteggiamento che gli americani definiscono “holier-than-thou”… e quindi, spesso e volentieri, se mi rendo conto che sono l’unica in chiesa a fare ‘ste bizzarrie, e che la gente mi guarda stranita sgomitando invece di seguire la Messa (successo), mi astengo. Mi rimetto in piedi al mistero della fede etc.
      Da quando vado sistematicamente a Messa con mio marito, però, il fatto di essere già in due a fare la stessa cosa mi “tranquillizza” molto, quantomeno non sono proprio l’unica in chiesa e mi illudo di attirare meno la curiosità della gente, essendo almeno… accompagnata 😛
      E quindi resto inginocchiata per tutto il tempo che ritengo opportuno, senza farmi problemi.

      Ecco: diciamo che questo mix (comunione in bocca, lungo periodo di tempo inginocchiata, reminescende tridentine), sta aiutando anche me.
      NON dico che sono ai livelli che descrivevo nel post (ma magari!!)… ma un po’ meno peggio di prima, sì 😛

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