Ché poi, di base, tutto questo sproloquio sulle risate medievali era per dire: ma i miei adorati amanuensi, cos’avrebbero detto, di questo blog?
Mi avrebbero applaudita? Tollerata? Bruciata sul rogo per lesa maestà, perché fare ironia sulla vita dei santi costituisce offesa, peccato grave?
Beh: minimo minimo, ho la presunzione di poter scampare al rogo.
Curiosamente, il problema degli agiografi che si mettono a “scherzar coi santi” spunta fuori anche in quel famoso dialogo tra Jorge e Guglielmo da cui è partito questo nostro excursus. Difendendo la pratica della risata, Guglielmo da Baskerville, ne Il nome della rosa, fa notare al suo “avversario” che persino nelle agiografie si trovano pagine decisamente comiche:
“Si racconta di san Mauro che i pagani lo posero nell’acqua bollente, ed egli si lamentò che il bagno fosse troppo freddo; il governatore pagano miste stoltamente la mano nell’acqua per controllare, e si ustionò. Bella azione di quel santo martire che ridicolizzò i nemici della fede”.
Jorge sogghignò: “Anche negli episodi che raccontano i predicatori si trovano molte fole. Un santo immerso nell’acqua bollente soffre per Cristo e trattiene le sue grida, non gioca tiri da bambini ai pagani!”.
A parte che qui Umberto Eco ha fatto un errore di traduzione: preparando questo post mi son letteralmente rincretinita alla disperata ricerca di un san Mauro bollito vivo, salvo scoprire, alla fin fine, che in realtà Eco voleva riferirsi a santa Maura, martire in Tebaide assieme al marito Timoteo.
Oggi voglio darmi arie da filologa, e quindi ricostruisco anche la genesi dell’errore: il povero Eco, per preparare il famoso dibattito sul riso, si è palesemente basato su certo libro che ho consultato anch’io scrivendo questi post… sennonché io sono gggiovane e ho potuto leggerlo in traduzione italiana; Umberto Eco, a suo tempo, ha dovuto leggerlo in lingua straniera. Traducendo al volo da un’altra lingua, una piccola svista ci sta…
Comunque: la santa in preda ai bollori che gioca scherzi ai pagani, è Maura. Just for saying.
Il libro che sia sia nella biblioteca di Eco che nella mia, è Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius. In un capitolo dedicato a Il serio e il faceto nella letteratura medievale, l’autore indaga, per l’appunto, sul fenomeno, non poco bizzarro, delle agiografie che fanno ridere.
Perché in effetti ha pure ragione il monaco Jorge de Il nome della rosa: ma cosa ti dice il cervello, per indurti a fare ironia su un povero cristiano che agonizza in un pentolone di acqua bollente di fronte ai suoi carnefici?!
E invece, lo si faceva, ed era pratica comune…
***
Per provare a spiegare il fenomeno, Curtius si rifà agli studi del gesuita Hippolyte Delehaye, esperto di agiografia.
Dovendo abbozzare una classificazione circa le agiografie dedicate ai santi martiti, Delehaye propone di incasellarle in alcune sottocategorie: panégyriques, passions historiques, passions épiques, passions romantiques.
Vediamo, nel concreto, cosa sono tutte ‘ste robe, e facciamolo a partire dai panégyriques – quelli che, statisticamente, fanno venire il latte alle ginocchia pure alle migliori madonnine infilzate.
Il panegirico sui santi è quella barba produzione letteraria in cui il santo è presentato al popolo, innanzi tutto, come un modello da seguire: “ella era soave nell’aspetto, modesta nel vestire, pudica nei modi, forte nella sofferenza, sommamente casta e immacolata”, e molti altri aggettivi sulla stessa linea.
Una roba del genere potrà forse servire nella catechesi, ma di sicuro non ti fa venir voglia di andare avanti nella lettura.
Le passions historiques sono un po’ meno irritanti (e molto più interessanti per gli studiosi): sono quelle agiografie – spesso, molto scarne, ma di una scarnezza che va subito al sodo – scritte solo ed esclusivamente sulla base di fatti storici realmente accaduti. Niente abbellimenti, niente indorature, niente di niente: la cruda realtà storica, senza alcuno spazio per i guizzi dell’agiografo.
Il che è molto bello, nel senso che ne esce una biografia estremamente attendibile… ma, in tanti casi, questo va un po’ a discapito della gradevolezza della narrazione. Anche lì: o sei uno studioso, o la lettura fatica a catturarti.
E qui si arriva alle altre due tipologie di agiografia – quelle che Delehaye chiama passions épiques e romantiques. Stanno alle passions historiques allo stesso identico modo in cui le fiction Rai stanno alle biografie dei personaggi famosi: le prendono e le rimaneggiano un po’, per renderle più godibili agli occhi del grande pubblico.
Non sono agiografie per intellettuali, per studiosi, o per sacerdoti che devono prepararsi la predica: sono agiografie pensate per conquistare le masse (perché tanto le masse si fanno sempre conquistar da qualcuno: a ‘sto punto, meglio conquistarle con un’agiografia romanzata che non con l’antesignano di Cinquanta sfumature di grigio).
E quindi, le agiografie si arricchiscono di elementi leggendari, a volte di tipo epico (tipo San Giorgio che ammazza il drago), a volte di tipo romanzesco o addirittura romantico (tipo San Giorgio che sposa la principessa che era minacciata dal drago).
Sì, insomma: siamo di fronte alla deliberata inserzione di elementi acchiappapubblico, fatta… beh… col preciso scopo di acchiappare il pubblico. Col preciso scopo di rendere popolare quell’agiografia, in maniera tale che questa storia (romanzata finché vuoi, okay, ma pur sempre edificante) venga raccontata lungo le vie di pellegrinaggio, nelle piazze affollate delle città, nelle lunghe veglie invernali vicino al fuoco…
Insomma: l’agiografia non deve solo edificare; deve anche piacere (perché sennò non edifica).
E dunque, cos’è che piace al pubblico?
Beh, un sacco di cose: avventure, miracoli eclatanti, prodi cavalieri che lottano contro il male… e anche un tocco di humor, perché no?
Come scrive Filippo Fonio in questo articolo,
Il motto non è assente in agiografia, come pure l’elemento comico. Celebri sono i motti di san Lorenzo sulla graticola: «Questo lato è già cotto; girami pure dall’altra parte, e mangia»[…], oppure il caso di san Tiburzio, che, fatto camminare sui carboni ardenti, li paragona a petali di rosa. […]
Il comico di situazione in agiografia si accompagna spesso all’elemento meraviglioso. Tipicamente, il santo subisce delle trasformazioni, viene fatto sparire e riapparire altrove, diventa invisibile o invulnerabile, con sommo scorno di quanti vogliono fargli del male.
Vi ricordate quei miei vecchi post su sant’Aureliano (faticosamente) martire, o su san Teopompo, inamovibile e ignifugo?
Ma anche: parlando in senso più generale, vi ricordate quei miei post sui santi che si fanno beffe dei peccatori incalliti? Tipo quel genio del male che rispondeva al nome di San Vincenzo, o quel finto sciocco di San Gengolfo, che, zitto zitto, ne fa passare delle belle a sua moglie fedifraga?
Nel caso delle sante, il magico che innesta il comico viene introdotto per conservarne la castità. Nella […] legenda di santa Anastasia, il prefetto che vuole fare violenza alle sue tre ancelle si trova ad abbracciare pentole e utensili da cucina, e, irriconoscibile per la fuliggine e scambiato per un’anima dannata, viene malmenato dai servi.
Il che ricorda assai da vicino un episodio della vita di san Clemente, mutato in colonna per non essere trascinato fuori dalla chiesa, nonostante gli sforzi di quanti vengono incitati col il «Fili de le pute traite» di Sisinnio.
Ma come non pensare anche a Santa Lucia che gabba il suo fidanzato pagano, o a Santa Cecilia che si prende gioco di suo marito alla sua prima notte di nozze?
Il santo che mette in ridicolo il proprio persecutore, o il tentatore di turno, o addirittura il Maligno in persona (!) è un topos particolarmente efficace (…anche se non è l’unico) per sottolineare ancora una volta il non prevalebunt.
Si può avere paura, si può essere nella tentazione, si può dover fronteggiare addirittura Satana in persona… ma, come dire? Sappiamo tutti chi vincerà, alla fine dei tempi.
Fra il comico e il grottesco infine (sempre che scegliamo di adottare categorie percettive affatto anacronistiche) possono annoverarsi diversi aneddoti rintracciabili in alcuni generi della letteratura agiografica, in particolar modo nelle raccolte di miracoli. Già Delehaye ad esempio ricorda […] la prescrizione dei santi Ciro e Giovanni a uno affetto da emicrania, al quale si dice di dare un ceffone alla prima persona in cui dovesse imbattersi. Sarà un soldato a ricevere lo schiaffo, al quale ricambia con una bastonata che provoca in effetti la guarigione dell’uomo.
Insomma: il comico, nell’agiografia, esiste eccome, ed esiste per uno scopo ben preciso: attirare l’attenzione del grande pubblico. Dimostrare al grande pubblico che un’agiografia può essere appassionante tanto quanto una chanson de geste.
Nella seconda metà del Medio Evo, i grandi ordini predicatori faranno enorme uso di questo stratagemma, consci del fatto che il sermone più efficace è quello che tiene l’ascoltatore col fiato sospeso, gli si conficca saldamente in testa, e gli piace così tanto da spingerlo a ripeterlo a parenti e amici.
Le cose cambieranno con l’avvento della temperie tridentina (ma è un periodo che non ci riguarda più, quindi basti un accenno). Fra il XVI e il XVII secolo infatti, diversi concili si espressero contro l’uso di ridiculae et aniles fabulae all’interno dei sermones, sancendo in pratica il divorzio dell’exemplum dalla predicazione
Beh: diciamo che quello era lo spirito dei tempi (e che probabilmente non era nemmeno un atteggiamento sbagliato in toto, visti certi abusi francamente inquietanti che stavano prendendo piede, e vista la leggerezza persino eccessiva con cui, ormai, gli agiografi si mettevano a tavolino dicendo “benissimo: che mi invento, oggi, per rendere più accattivante la vita del tal santo?”).
Ma a me piace immaginare che un monachello medievale, imbattendosi in questo blog, sorriderebbe con aria benevola, invece di inorridire e scandalizzarsi. Sarà pur vero che, fino ad una certa altezza cronologica, il pensiero medievale guardava al riso con gran sospetto; però, è pur vero che del riso, della comicità, è sempre stato fatto ampio uso – persino in contesti sacri; persino parlando di santi morti ammazzati (!).
Scherzar coi santi, in barba al proverbio, era considerato uno dei modi più efficaci per conquistare, divertire e fidelizzare il popolino.
Certo: un conto è essere scherzosi e lievi, un conto è essere frivoli e ridanciani. C’è modo e modo di fare ironia, e non bisogna esagerare; ma, come suggeriva Ildeberto de Lavardin in alcuni distici sul tema, “puoi concederti di scherzare, dopo aver pensato alle cose serie”, e “se valuti che lo scherzo sia adatto alla materia che stai trattando, allora scherza, badando solo a non esagerare”.
E già questa, di per sè, potrebbe essere una buona conclusione.
Io, però, preferisco chiudere questo post citando una bella poesiola di Gualtiero di Châtillon, teologo medievale, conoscente di Thomas Becket, valente impiegato di Curia… e autore di poesiole e poemetti, perdipiù profani.
Da un tipetto così non potevano che arrivare opinioni interessanti su questo argomento, e infatti ecco a voi una poesiola a tema, così carina che la riporto anche in Latino:
In conventu laicorum
reor esse non decorum
profferre ridicula,
ne sermone retundamus
aut exemplo pervertamus
mentes sine macula.Pauca tamen plena iocis
ordinata suis locis
placet interserere,
ne, dum semper latinamur,
ab indoctis videamur
arroganter agere.
[Non mi sembra opportuno dire scemenze alla presenza dei laici, per non turbare con le nostre parole questi animi candidi e per non corromperli col nostro esempio. Invece, è bene inframmezzare di tanto in tanto le nostre parole con battute ben adatte al contesto, in modo da non apparire arroganti agli occhi del popolo a causa del nostro costante latineggiare]
Non so cosa ne pensiate voi, ma a me sembrano degli ottimi consigli.
marinz
si me sembra un ottimo consiglio… la giusta misura
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Lucia
🙂
Sì, anche perché in effetti è vero: ci va relativamente poco, a passare da “scherzosi” a “ridanciani”, oppure da “leggeri” a “privi di contenuto”.
Se ci si pone l’obiettivo di far ridere, io credo in effetti che sia importantissimo riuscire a trovare la giusta misura!
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Pingback: [Pillole di Storia] Ma Gesù ha mai riso? – Una penna spuntata
Luca
Ma il detto non era “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”? Io me lo ricordo così… Sono sempre molto interessanti i tuoi articoli… Mi sono segnato il libro che hai citato. Grazie, buon pomeriggio! 😉
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Lucia
Ed è un detto relativamente recente (e secondo me molto deleterio) che avrebbe fatto sgranar tanto d’occhi a (molti, certamente non tutti) Medievali… 😉
Curtius è un mattonazzo pesantissimo, proprio da esamone universitario pesante eh! Metto le mani avanti perché qui in genere consiglio sempre libri seri ma non “pesanti”: ecco, questo qua invece è proprio un librone molto tecnico la cui lettura non sono certa che consiglierei al mio peggior nemico XD
(Interessantissimo eh, scherzi a parte. Però sì, va letto a dosi omeopatiche ecco).
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Luca
🙂 Grazie Lucia, ho recepito il messaggio, ma sono abbastanza avvezzo a “mattoni” di questo genere! Un abbraccio 🙂
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Lucia
;-))
Meglio avvisare prima che ritrovarsi lettori infuriati e sotto shock dopo XD
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Luca
Giusto! 😉 Ti auguro una felice domenica 🙂 Io intanto sto ascoltando un cd con brani di Johann Sebastian Bach, nell’esecuzione di una cara amica musicista 🙂
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