Ché poi, la cosa comica è che la tradizione popolare ha prodotto una vasta gamma di leggende agiografiche sul tema. Cosa non si fa per conciliare l’usanza tutta laica di strafogarsi con le zeppole alla la necessità tutta pastorale di tracciare almeno una parvenza di legame tra le frittelle e il culto di San Giuseppe.
E così, nella tradizione orale è stato tutto un fiorire di leggende dolcissime – tipo quella secondo cui San Giuseppe, trovatosi nell’imbarazzante situazione di dover preparare in quattro e quattr’otto una degna accoglienza ai Re Magi che suonavano al campanello, ha pensato bene di buttar sul fuoco qualche frittellina, in una di quelle ricette semplici e genuine della tradizione (come reciterebbe un buon claim pubblicitario).
O ancora: un’altra tradizione racconta come San Giuseppe, trovandosi a malpartito nel suo nuovo status di profugo in Egitto, e non riuscendo a trovare subito un nuovo impiego come carpentiere, si sia riciclato come… frittellaro, vendendo dolcetti ai lati della strada per mantenere Gesù Bambino e la Madonna.
Tutte leggende senza fondamento, ci mancherebbe, ma che affondano appunto le loro radici nel bisogno di “giustificare”, a posteriori, le tradizionali abbuffate legate alla festa di San Giuseppe. Ne parla diffusamente il gustosissimo Santa Pietanza: Tradizioni e ricette dei santi e delle loro feste, edito da Guido Tommasi Editori.
Gli autori del volume sono abbastanza diretti, osservando che, quanto a scorpacciate,
il parco Giuseppe condivide questa prerogativa con il grasso Carnevale, che precede la sua festa, e tutto quel friggere e zuccherare diventa una ghiotta occasione per spezzare la Quaresima che sta per concludersi nelle sontuosità pasquali.
Ché di vere e proprie abbuffate si trattava, un tempo.
Come ci spiega Santa Pietanza, a Roma, ad esempio, la Confraternita dei Falegnami organizzava, in onore del suo patrono, imponenti buffet aperti a tutta la popolazione.
In Molise, era anticamente tradizione organizzare un lauto pranzo nella propria casa e invitare a cena tre ospiti: un uomo sposato, una donna nubile e un giovanotto celibe, alter ego dei tre membri della Sacra Famiglia.
Nelle Isole Eolie, per diversi secoli è stata tradizione organizzare sontuosi banchetti aperti a tutti i cittadini, in ricordo – pare – della generosità di una nave mercantile che, dopo essersi affidata a San Giuseppe nel mezzo di una tempesta, sciolse il suo voto decidendo di donare ai poveri tutto il carico che trasportava.
Per quanto personalizzato nei diversi paesi in cui si svolge, il rituale ha alcuni tratti immutabili. Il primo è il fatto che le tavole venissero imbandite per offrire cibo ai poveri, e che tali dovessero essere gli invitati […]. Oggi alla mensa siedono spesso amici e parenti, ma il senso originario risiedeva nel gesto di carità, ispirato a Giuseppe che è il santo degli uomini e il padre premuroso.
Come accade per altre festività che hanno luogo in periodi “di transizione” (penso ad esempio ai mille piatti consumati, per tradizione, nel giorno di San Martino, che segna lo spartiacque tra l’autunno e l’inverno), anche
la festa di San Giuseppe rappresenta un passaggio stagionale importante: arriva alla vigilia dell’equinozio di primavera; l’inverno, coi suoi rigori, è alla fine, la bella stagione si annuncia. Nelle tavolate si consumano le scorte invernali: le farine per il pane, i legumi secchi. A tutto si dà fondo, per propiziare simbolicamente i raccolti a venire. Non a caso la festa è accompagnata pressoché ovunque da grandi falò, simboli di distruzione e rigenerazione.
E allora piace anche a me allinearmi alla tradizione e portare in tavola, ogni anno, qualche piatto tipico della festa. Se quelli più popolari (cioè zeppole, frittelle e dolciumi vari) includono ingredienti da cui di solito m’astengo durante la Quaresima, mi diverto ogni anno a spaziare tra focacce, minestroni e piatti salati. Di magro, ça va sans dire.
Quest’anno, ho provato a cimentarmi nella mia personale versione del ruccolo, una focaccia salata tipica della Puglia, che, secondo la ricetta originale, è una sorta di ciambellone di pasta sfoglia arrotolato su se stesso, attorno a un ripieno succulento.
Io – che avevo l’esigenza di farne un piatto pratico da mangiare in ufficio: che non ungesse le mani e che non perdesse pezzi in giro – ho reinterpretato la ricetta a modo mio, trasformando il tutto in una focaccia ricca, molto ricca, con l’impasto infarcito di numerosi ingredienti extra. Ne è uscito un pane soffice, profumatissimo e con un gusto tutto particolare, dato dal curioso mix degli ingredienti che compongono tradizionalmente il ripieno. Sapeva di cose genuine e buone d’altri tempi, e sapeva davvero di “piatto di festa, povero ma buono, rappezzatto buttando dentro una ciotola tutti gli avanzi che si trovano in una dispensa ormai mezza vuota, alla fine dell’inverno, avvicinandosi la primavera”.
Per chi volesse cimentarsi, lascio qui la ricetta che ho provato io. Per un picnic, per una pausa pranzo o per una cena diversa dal solito, assicuro che è una ricettina da considerare.
Mercuriade
Lo nota anche Goethe nel suo “Viaggio in Italia” che a Napoli San Giuseppe è considerato il patrono di tutti i “frittaroli”.
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senm_webmrs
Il “piatto di festa, povero ma buono, rappezzatto buttando dentro una ciotola tutti gli avanzi che si trovano in una dispensa ormai mezza vuota, alla fine dell’inverno, avvicinandosi la primavera” esiste davvero.
http://www.abruzzo-vivo.it/le-virtu-teramane/
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