Cosa faceva uno speziale del Medioevo?

Chi preparava i farmaci, nel Medioevo?
Gli speziali, naturalmente: esperti conoscitori di quelle erbe e piante medicamentose che furono per millenni alla base della nostra farmacopea.

Ma come viveva, concretamente, uno speziale? Qual era – ad esempio – il suo ruolo all’interno di un ospedale? Il suo era un mestiere ben visto o sottovalutato? E come si articolavano le sue giornate? Tante domande a cui oggi cercheremo di dare una risposta grazie al mastodontico volume che John Henderson ha dedicato a L’ospedale rinascimentale.

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E allora, cominciamo proprio dagli ospedali, anche perché in effetti la curiosità è giustificata: in un contesto in cui, frequentemente, i farmaci andavano dosati e preparati sul momento, chi si occupava di metterli a punto e di somministrarli ai malati?

Gli speziali ospedalieri, naturalmente. Entro l’inizio del Quattrocento, tutti i più grandi ospedali italiani si erano dotati di una farmacia interna avente la duplice funzione deposito per le erbe officinali e di laboratorio per l’erborista incaricato di dosarle. Questa figura professionale aveva alle sue dipendenze alcuni assistenti che, oltre ad apprendere il mestiere, svolgevano funzioni di “segretario”. Vale a dire: seguivano i medici nel loro giro di visite, annotando la terapia prescritta ai vari pazienti. Successivamente, consegnavano allo speziale la… lista delle comande, assistendolo nel corso della preparazione dei farmaci.

Le preziose ampolle (tutte quante siglate in modo tale da riportare il nome del malato e il numero del letto) erano poi consegnate a un infirmario, una figura professionale non poi così dissimile da quella del moderno infermiere. Era lui a provvedere materialmente alla somministrazione del farmaco, avendo cura di monitorare le condizioni del malato e di comunicare a medico e speziale eventuali variazioni nel suo stato clinico.

Curiosamente, il ruolo dell’erborista non si esauriva tra le mura della farmacia. In numerosi ospedali, svolgeva anche funzioni, per così dire, di nutrizionista. Era proprio lui a stabilire quali alimenti somministrare ai vari malati, in un contesto in cui l’adozione di un certo regime dietetico era considerata importante tanto quanto un l’assunzione di un farmaco propriamente detto.
In alcuni casi, diventava nutrizionista e cuoco al tempo stesso. A inizio Trecento, ad esempio, l’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova acquistava regolarmente da due erboristi, ser Baldo e Naldo del Mercato Vecchio, una serie di sostanze che ben difficilmente noi saremmo inclini a definire “farmaci”. Accanto alle erbe officinali e ai medicamenti pronti all’uso, la farmacia dei due speziali forniva all’ospedale anche frutta candita, sacchi di zucchero, caramelle zuccherine e dolciumi di vario tipo. Evidentemente, erano in molti, a quell’epoca, a credere nel potere terapeutico della Nutella: del resto, avevo già raccontato come la prima pandemia influenzale della Storia (cioè quella che, nel 1580, colpì contemporaneamente il Vecchio e il Nuovo Mondo) fu curata in Italia attraverso il consumo intensivo di “cornetti ventosi e zuccaro candito e cose dolce”.
Di scarsa efficacia nella cura dei sintomi, se qualcuno se lo stesse chiedendo, ma probabilmente d’un certo aiuto dal punto di vista psicologico.

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La vicenda di Baldo e Naldo, che dalla loro sede presso il Mercato Vecchio rifornivano gli ospedali fiorentini, ci spinge a chiederci: ma, materialmente, com’erano inquadrati gli erboristi all’interno di un ospedale?

In termini moderni, verrebbe da dire che lavoravano in regime di libera professione. Vale a dire: quasi mai il contratto degli speziali li obbligava a un servizio a tempo pieno. Nella maggior parte dei casi, gli speziali lavoravano in ospedale con orario part-time, avendo cura di tenersi diverso tempo libero per un’attività assai più redditizia: cioè, la gestione di una bottega aperta al pubblico.

A giudicare dalle dichiarazioni dei redditi presentate dai cittadini fiorentini lungo tutto il corso del Quattrocento, il mestiere di farmacista-proprietario-di-bottega era uno dei più remunerativi della città. Del resto, non solo i malati avevano bisogno di recarsi nella bottega dello speziale: tra erbe, pomate e unguenti medicinali, trovavano spazio tra gli scaffali di un’erboristeria anche dolciumi, frutta secca, essenze profumate, spezie a uso alimentare e prodotti per l’illuminazione domestica.
Insomma: c’era in vendita una gran varietà di prodotti, in quelli che – a tutti gli effetti – erano locali multifunzione. Non era infrequente, infatti, che un’area dell’erboristeria fosse adibita a sala visite, nella quale i medici ospedalieri visitavano privatamente i pazienti che non potevano o non volevano recarsi in ospedale. Non c’è nemmeno bisogno di spiegare per quale ragione le erboristerie trovassero conveniente offrire questo servizio: presumibilmente, dopo la visita medica, il malato avrebbe comprato in loco tutti i farmaci prescritti.
Non a caso, la legge vietava a medici e farmacisti di mettersi in società, onde evitare che i primi prescrivessero ai malati farmaci particolarmente costosi per poter lucrare sul guadagno. All’atto pratico, l’assenza di contratti di lavoro tra medici e speziali non impediva alle parti coinvolte di stipulare contratti… d’altra natura, ad esempio matrimoniale. Quasi sempre, i professionisti che instauravano questo tipo di collaborazione erano (o diventavano) imparentati, attraverso matrimoni quantomai opportuni tra le due famiglie.

Del resto, uno speziale scapolo era un partito assai conteso. Come ho già detto, si trattava di un mestiere alquanto redditizio!
Curiosamente: tranne che in un caso. Se lo speziale accettava di lavorare a tempo pieno per un ospedale: in quel caso, doveva prepararsi all’idea di ricevere uno stipendio da fame.

Stipendio da fame solo parzialmente giustificato dal fatto che, in quel frangente, l’ospedale offriva al suo speziale la possibilità di vivere all’interno della struttura, in aree appositamente dedicate a ospitare il personale sanitario. Erano principalmente gli infermieri ad avvalersi di questa possibilità, ma non mancano casi isolati in cui era uno speziale a compiere la stessa scelta.
…con la differenza che un infermiere non era, all’epoca, un professionista propriamente detto, con un pacchetto di competenze facilmente spendibile in altro contesto. Lo speziale invece sì: sicché, appaiono non solamente offensivi, ma proprio difficilmente comprensibili, i miseri stipendi che gli venivano offerti dalle amministrazioni ospedaliere.

Joseph Henderson cita l’esempio di Angiolo di Luca da Cortona, speziale assunto nel 1408 per lavorare a tempo pieno in un ospedale fiorentino… dietro la corresponsione della vergognosa cifra di 15 fiorini all’anno.
Teniamo pure conto che, a quei 15 fiorini, andava sommata la possibilità di poter usufruire gratuitamente di vitto e alloggio (valore stimato: 14 fiorini annui, secondo l’amministrazione dell’ospedale). Resta il fatto che un guadagno di 30 fiorini all’anno era grossomodo la metà dello stipendio annuale cui avrebbe potuto ambire un operaio non specializzato lavorando all’interno di un cantiere (!).

Verrebbe da dire: ma allora, perché esistevano speziali che, nonostante una professionalità facilmente vendibile sul mercato, accettavano contratti così umilianti andando a consumare i loro anni all’interno di un ospedale?

Triplice, la possibile risposta.

In alcuni casi, il numero di anni consumati all’interno dell’ospedale era, a conti fatti, relativamente basso. Alcuni speziali accettavano questa gavetta per poter vantare, in un domani, un’esperienza importante all’interno di un ospedale rinomato. Ancor più: la sopportavano per poter creare, nel mentre, una rete di contatti con il personale medico in servizio – un elemento che, va da sé, gli sarebbe stato prezioso al momento di mettersi in proprio.

In altri casi, a prestare servizio stabile presso un ospedale erano professionisti di scarsa ambizione; individui che a una carriera sfolgorante preferivano la certezza di uno stipendio basso ma sicuro e la stabilità di un tetto sulle spalle, senz’altro modesto ma per sempre assicurato a vita.

Il caso più curioso? Era quello (non poi così infrequente) degli speziali che, provenendo da famiglie facoltose (che avrebbero certamente potuto supportarli nel momento di mettersi in proprio!) sceglievano nonostante tutto di prestare servizio per un ospedale e di vivere nelle sue modeste stanze. D’accordo che questi individui avevano già ereditato un buon conto in banca; e tuttavia, chi è il folle che disprezza il vil denaro fino al punto di condannarsi a un tenore di vita assai modesto (quale era, inevitabilmente, quello di chi viveva all’interno di una struttura ospedaliera)? Vien da pensare che chi agiva in questo modo fosse spinto da quella che noi moderni chiameremmo “vocazione”. Come già si è visto a proposito degli infermieri, la scelta di mettersi al servizio dei malati era spesso vissuta dal personale sanitario in un’ottica vocazionale: si sperava insomma di poter guadagnare il Paradiso attraverso il servizio ai più bisognosi. Bisognosi nel cui corpo martoriato sembrava di vedere un’eco delle sofferenze di Cristo – e del resto non era stato il Salvatore ad affermare che ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me?

10 risposte a "Cosa faceva uno speziale del Medioevo?"

  1. sircliges

    «Non a caso, la legge vietava a medici e farmacisti di mettersi in società per spartire gli introiti, onde evitare che i primi prescrivessero ai malati farmaci particolarmente costosi per poter lucrare sul guadagno. All’atto pratico, l’assenza di contratti di lavoro tra medici e speziali non impediva alle parti coinvolte di stipulare contratti… d’altra natura, ad esempio matrimoniale. Quasi sempre, i professionisti che instauravano questo tipo di collaborazione erano (o diventavano) imparentati attraverso matrimoni quantomai opportuni tra le due famiglie.»

    Vedo che certe costanti non cambiano proprio mai…

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    1. Anna.ida Neviani

      Ehm…secondo te, perché io avrei deciso di fare il medico di area critica a tempo pieno?
      Sono certa che una buona misura, pigiata, traboccante e scossa, mi sarà versata in grembo.

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      1. Lucia

        Quello di sicuro e non c’è alcun dubbio ❤️

        Però ecco, tu almeno ricevi in cambio uno stipendio sopra ai limiti della decenza ecco, gli speziali-da-ospedale nemmeno quello 😛

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      1. Elisabetta

        Se ben ricordo anche Dante era iscritto alla corporazione degli speziali solo per poter accedere a cariche pubbliche. Ma quindi poteva iscriversi chiunque anche senza arte né parte?

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        1. Lucia

          …in realtà, Elisabetta, è possibile e probabile che Dante fosse tutto tranne che uno sprovveduto senza arte né parte.
          O meglio: pare evidente che la sua iscrizione alla corporazione degli speziali fosse solo un mezzo per raggiungere gli altri suoi suoi obiettivi (non voleva di sicuro fare lo speziale a vita). Però è molto probabile che Dante avesse davvero alle sue spalle una buona formazione medica.

          A parte il fatto che, no, non è che potesse iscriversi alla corporazione degli speziali il primo cretino di passaggio (serviva comunque un minimo di conoscenze-base), ci sono alcuni studiosi che hanno osservato che sono davvero numerosi (e molto accurati e pertinenti) i rimandi medico-anatomici nella Divina Commedia. Per la loro precisione, fanno pensare a un autore che non era di certo un medico “praticante” ma doveva avere alle spalle degli studi abbastanza dettagliati in materia.

          Mentre cercavo su Google un qualche articolo da linkare ho trovato questo che sembra bellissimo, con tanto di mini-conferenza con una esperta!

          https://ilbolive.unipd.it/it/news/dante700-era-medico-sommo-poeta

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  2. Pingback: Manicaretti medievali per pranzi d’altri tempi – Una penna spuntata

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