“Non dite altro”, esclamò Erhard fissando i due angeli che gli erano apparsi in camera da letto. E ripercorse febbrile i punti chiave del messaggio celeste che gli era appena stato recapitato: “ragazza di nobili natali, colpita come da una maledizione, strappata alla sua famiglia perché avesse salva la vita, fatta crescere nei boschi come figlia di un taglialegna, ignara delle sue origini e bisognosa del mio intervento?”. Il vescovo sentì il cuore iniziare a battergli forte e seppe in quel momento che era giunta la sua occasione. “Sto per entrare come personaggio secondario nella leggenda di una grande santa, non è vero?”.
I due angeli si scambiarono una occhiata: non confermarono e non smentirono, ma il loro sorrisetto valeva più di mille parole. In effetti, nell’agiografia medievale, esiste un set di elementi ricorrenti e ben precisi, che vengono messi a disposizione dell’agiografo quando lui sente il bisogno di far capire fin da subito che quella santa bambina è destinata a grandi cose. E diciamo pure che la piccola Ottilia ne aveva collezionati un buon numero, di questi elementi.
“Quindi devo incamminarmi verso la Borgogna per battezzarla?” ricapitolò il vescovo, impaziente. I due angeli annuirono e il sant’uomo si rimise subito in piedi, da inginocchiato che era stato fino a quel momento. “Ghe pensi mi”, annunciò ai messaggeri alati mentre correva a preparare il bagaglio: “consideratela già cosa fatta!”.
***
Convincere Ottilia fu impresa meno facile, se non altro perché quella se ne stava nel bosco, tutta cenciosa, aggrappata a un bastone nodoso, e rideva apertamente in faccia ai due emissari celesti. “In Borgogna a farmi battezzare da un vescovo?”, aveva detto con un sorriso. “Senti un po’, piantala di dir fesserie e levati di torno, ché c’ho da fare”.
L’angelo che era stato apostrofato in tal maniera lanciò una occhiata interdetta al suo collega alato. Quello si strinse nelle spalle e mormorò a bassa voce “ahò, mica è colpa sua se è cieca, poveraccia. Quella non ci vede, ci avrà scambiati per due cretini di passaggio”.
Per riportare Ottilia a più miti consigli convincendola ad assecondare la volontà celeste, ci volle del bello e del buono e persino qualche opportuno miracolo – tipo quello che le ridonò momentaneamente la vista, giusto il tempo di farle capire che il suo interlocutore era decisamente individuo degno di fede.
Ma, soprattutto, ci vollero una mezz’ora di tempo e una buona dose di diplomazia: quanto occorse, insomma, per rivelare alla ragazza la sua storia, che davvero non sfigurerebbe in un libro di fiabe.
Sgomenta, Ottilia venne a sapere che quelli che aveva sempre chiamato “madre” e “padre” non erano affatto i suoi genitori. Suo vero padre era Aldarich, il duca d’Alazia; sua madre era Bereswinda, sua legittima sposa.
In un libro di fiabe, la principessina che ha appena scoperto le sue vere origini mormorerebbe probabilmente un confuso: “ma come? E allora, perché sono stata cresciuta in un bosco da un taglialegna?”.
Ma nella agiografia di santa Ottilia, la duchessina non ebbe nemmeno bisogno di fare quella domanda. Si limitò a incassare il colpo abbassando verso il suolo i suoi occhi vuoti e spenti: ma certo, suo padre aveva deciso di sbarazzarsene per non dover sopportare l’onta di tenere a corte una figlia malnata.
Agli angeli toccò annuire senza dire altro. Il loro unico tentativo di confortare la ragazza passò attraverso l’unica gioia cui Ottilia potesse appigliarsi: se il padre aveva rifiutato di tenerla a corte non appena era emersa chiara la sua condizione, la madre aveva rifiutato di dare ascolto ai diktat del marito. Lui avrebbe voluto liberarsi di Ottilia inscenando un incidente mortale; lei voleva salvare a tutti i costi quella figlia che disperatamente amava. E ricorse così al più estremo dei sacrifici: rinunciare a lei, pur di darle una seconda volta la vita.
La fece sparire nottetempo, affidandola all’insaputa del marito alle cure di due boscaioli che conducevano una vita modesta e ritirata nella parte più remota e oscura della foresta, là dove nessuno avrebbe potuto notare l’arrivo improvviso di una bambina.
E, con discrezione, continuò a mandare soldi alla famiglia per permettere alla sua Ottilia di crescere serena; e, custodendo quel segreto nel cuore, sobbalzava di gioia tutte le volte che le giungevano notizie della sua amatissima figlia, che intanto cresceva in grazia, santità e bellezza.
***
Ed ecco: la piccola bambina, lentamente s’era fatta donna.
Come da miglior tradizione di un libro di fiabe, proprio nel giorno in cui comincia la nostra storia Ottilia festeggiava il suo sedicesimo compleanno: era giunto il momento per lei di assumere un ruolo da personaggio attivo. Gli angeli le parlarono con molta franchezza, e ai genitori adottivi dissero senza troppi giri di parola che era giunto il momento di lasciar volare quella tortorella che era stata affidata loro.
E così, l’indomani, Ottilia partì di buon mattino verso il monastero che le era stato indicato, con la scorta dei due angeli: e lì incontrò il vescovo Erhard che, tutto impaziente, non vedeva l’ora di amministrarle il battesimo.
Battesimo a una ragazza di sedici anni?, commenterà incredulo il mio lettore. Ebbene sì: e tra le tante licenze letterarie di questa agiografia, questo è il dettaglio meno problematico tra i molti. Nell’alto Medioevo, non era affatto scontato che i bambini venissero battezzati quando erano ancora in fasce – e se non vi bastasse la storia di santa Ottilia, vi inviterei a leggere quella di Cappuccetto Rosso.
E dunque, ancorché cresciutella, Ottilia s’apprestava infine a ricevere il rito di iniziazione. Mentre camminava verso il fonte battesimale, la ragazza era comprensibilmente emozionata… ma diciamola tutta: quello a cui davvero tremavano le vene e i polsi era il vescovo che stava per amministrare il sacramento.
Ché Erhard, se non si fosse capito, era un affezionato lettore di leggende agiografiche. All’idea di trovarsi al cospetto di una grande santa (del resto, i segni ricevuti erano inequivocabili), il vescovo sentiva letteralmente tremar le mani per l’emozione.
In effetti, le mani gli tremavano così tanto che i suoi gesti furono imprecisi. E così, una goccia del sacro crisma che avrebbe dovuto essere versato sulla fronte della giovane mancò la mira, cadde verso il basso, scivolò lungo la fronte e andò a finirle in un occhio.
E, oh prodigio!, oh miracolo incredibile! Quando riaprì gli occhi, Ottilia si rese conto di poter vedere.
***
“A margine”, disse quella sera uno dei due angeli lanciando pensieroso una occhiata alla ragazza, “lo sai che ‘sta cosa capita spesso pure ai maghi?”.
“Eh?” disse Ottilia, fissandolo con lo sguardo che si riserverebbe a un pazzo (adesso che finalmente poteva).
“Ma sì, sai? Ci ho fatto caso solo adesso, rileggendo il copione. Nella letteratura altomedievale, c’è un botto di maghi che acquisiscono i poteri magici dopo un incidente grossomodo simile. In genere, una goccia di una pozione magica prodotta dalle fate, che finisce accidentalmente nei loro occhi permettendo loro di vedere ciò che normalmente è celato alla vista”.
Ottilia gli lanciò una occhiata sospettosa. “E mo’ che c’entra? Qui stiamo parlando di cose serie, io sono stata miracolata dal sacro crisma, stiamo cercando di vivere un’agiografia qui dentro”.
L’angelo si affrettò ad annuire: “ma certo, ma certo. Era solo una noticina a piè di pagina. Lo dicevo perché la nostra agiografa (insomma Lucia, la blogger strana), ultimamente è entrata in fissa con ‘ste chicche. Magari ci si diverte”.
***
Il sacro crisma non è una pozione magica: senza dubbio aveva reso Ottilia una miracolata, ma non di certo una veggente in stile fantasy. Eppure, verrebbe da dire col sorriso sulle labbra che la ragazzina doveva avercelo per davvero, qualche potere straordinario, vista la bizzarra piega che avrebbe preso di lì a poco la sua già non banale storia.
Le buone notizie corrono veloci: ci volle poco tempo perché l’annuncio del prodigio arrivasse ai genitori adottivi di Ottilia e, per loro tramite, alla sua madre biologica. La poverina credette ingenuamente che la guarigione della ragazza fosse un elemento sufficiente per farla reintegrare a corte: si confidò con uno dei suoi figli (il fratello maggiore di Ottilia, ormai un giovane uomo) e gli diede ordine di partire al galoppo verso il monastero in cui dimorava la ragazza, per ricondurre a casa la giovane duchessa.
Purtroppo, gli happy ending esistono solo nei libri di fiabe… e questa, fino a prova contraria, è pur sempre una agiografia. E nelle agiografie possono capitare anche cose molto tristi e brutte: tipo, un marito che si sdegna nello scoprire il piano che era stato originariamente ordito per ingannarlo. O un padre che, trovandosi di fronte a quella figlioletta che aveva sempre creduta morta, riesce a pensare unicamente a una sola cosa da fare per mettere a frutto la situazione. E cioè, gettare Ottilia sul mercato matrimoniale dandola al miglior offerente: ché dopotutto, la figlia di un duca può fare gola a molti… anche se veste come una boscaiola ed è cresciuta in circostanze a dir poco dubbie.
Sfortunatamente, il padre aveva trascurato un dettaglio: e cioè, Ottilia era stata cresciuta come una donna del popolo, non come una dama di corte.
Abituata ad autodeterminarsi e a vivere nell’edenica libertà dei boschi, la ragazza non considerò nemmeno per un istante la prospettiva di ingabbiarsi, sedicenne!, in un matrimonio d’affari sancito per ragioni dinastiche.
E dunque scappò, abbandonando la casa paterna per la seconda volta; e quando il padre si mise alle sue calcagna, lei gettò al galoppo il suo cavallo per fuggire lontano. E per un attimo pensò di aver davvero guadagnato la salvezza… quantomeno, fino al momento in cui non si rese conto di aver imboccato, nella fuga, un vicolo chiuso. Davanti a lei si estendeva a perdita d’occhio una immensa parete di roccia; alle sue spalle, sentiva avvicinarsi il rumore degli zoccoli del cavallo di suo padre.
E allora, Ottilia smontò da cavallo e sollevò un braccio verso il cielo; ed ecco, la parete di roccia si aprì in due parti proprio come le acque del Mar Rosso si erano spalancate su comando di Mosè. La ragazza avanzò all’interno dell’insenatura nella roccia e supplicò suo padre di fermarsi, di desistere: lei non voleva sposare alcun uomo, lei voleva trascorrere tutta la sua vita in verginità, servendo Cristo suo signore.
Ma il padre non volle sentir ragioni e mandò il suo cavallo al galoppo oltre le due pareti di roccia. E fu a quel punto che Ottilia, con le lacrime agli occhi, si vide costretta ad abbassare la mano: e una gragnuola di sassolini, pietre e grossi massi cominciò ad abbattersi sul corpo di suo padre.
Che non morì, contrariamente ad ogni aspettativa.
O meglio: morì, poraccio, e anche in un mare di sofferenze, ma non prima d’essersi pentito delle sue passate colpe. Chiamò Ottilia al suo capezzale, le chiese perdono per tutto e volle farle dono del castello di Hohenbourg, l’imponente maniero di famiglia che sorgeva su quell’altura oggi nota come Odilienberg, “monte di santa Ottilia”.
Il monte di santa Ottilia esiste ancora, in Alsazia, ma sulla sua cima non troverete più un castello. Troverete una abbazia benedettina: quella che Ottilia volle fondare per ritirarsi a vita contemplativa in compagnia di un manipolo di amiche e consorelle.
E se i libri di fiabe scrivono che “tutti vissero felici e contenti” quando la giovane principessa si sposa col suo bel principe, l’agiografa dovrà forse utilizzare la stessa formula per descrivere il momento in cui la giovane duchessa prese il velo, diventando sposa del Signore. Il destino di Ottilia s’era compiuto infine: e davvero tutti vissero felici e contenti.
***
Che c’è di vero in questa storia?, potrebbe giustamente chiedersi il lettore.
Probabilmente molto poco, all’infuori di alcuni punti chiave: Ottilia è realmente esistita; nacque a Obernai attorno al 662 e morì nella sua abbazia sui monti Volgi, attorno al 720. Davvero suo padre, il duca di Alsazia, tentò di darla in sposa a qualche potente del luogo, e davvero Ottilia oppose un fermo rifiuto preferendo votarsi alla vita religiosa (senza che peraltro la famiglia mostrasse particolare ostilità nei confronti di questa scelta, considerato che realmente furono i suoi genitori a farle dono dell’imponente castello, che la ragazza trasformò in uno stupendo monastero degno di accogliere le figlie della più alta nobiltà renana).
Tutto il resto è probabilmente leggenda, a partire dall’aneddoto, totalmente privo di fondamento storico, che dipinge Ottilia come una cieca nata, guarita per miracolo celeste. Senza scomodare la medicina per tentare diagnosi a posteriori, basterà dare una veloce scorsa al martirologio per intuire i possibili “perché” di questa leggenda: la povera Ottilia muore il 13 dicembre, nella data in cui la Chiesa festeggiava già da tempo santa Lucia.
E, diciamolo, non c’è gioco: la santa di cui porto il nome è una concorrente irraggiungibile. In una ipotetica gara di popolarità celeste, Ottilia non sarebbe mai riuscita a far affermare il suo culto “ai danni” della santa siracusana. Vale a dire, “la santa festeggiata il 13 dicembre” era ormai da secoli, e per sempre sarebbe stata, la veneratissima, amatissima Lucia.
Come dice l’adagio: se non puoi vincerla, fattela amica; sicché, Ottilia decise che il modo migliore per non avere problemi con la concorrenza era… mettersi in società, per così dire. E infatti, cominciò a spartire con santa Lucia il patronato che le vuole entrambi come sante da invocare contro tutti i problemi della vista. La fiabesca leggenda agiografica di Ottilia sarebbe stata composta di lì a poco (attorno al XII secolo, all’incirca), e probabilmente aiutò la santa a divenire personaggio piuttosto popolare entro i confini dell’Alsazia.
Purtroppo, al di fuori di quella zona, quasi nessuno ne conosce la storia. Che è un peccato: personalmente, ho sempre provato una grande simpatia per Ottilia, personaggio così affascinante e così poco noto, schiacciato inesorabilmente dalla vicinanza con l’ingombrante santa di cui porto il nome.
Diciamolo pure: coi miei mille articoli sulla mia omonima, ho contribuito anch’io a eternare la dimenticanza collettiva ai danni della cara Ottilia, che pure mi sta così tanto simpatica. E così, per sdebitarmi, aspettavo da anni l’occasione giusta per rendere famoso il suo nome anche su queste pagine.
E ieri, l’occasione mi è stata servita su un piatto d’argento da nientemeno che papa Francesco, che ha dedicato a Ottilia alcune belle parole nella lettera con cui nominava un legato pontificio col compito di presiedere una Messa solenne in onore della santa, che avrà luogo il 4 luglio nella cattedrale di Strasburgo. Ché la diocesi, quest’anno, festeggia i milletrecento anni dalla morte di santa Ottilia, in onore della quale è stato indetto addirittura un giubileo.
…a onor del vero, i milletrecento anni sarebbero già passati: sarebbe stato corretto festeggiare l’anniversario nel 2020, ma è arrivata pure una pandemia a mettere in forse il momento di gloria di santa Ottilia.
Ma, in un modo o nell’altro, il grande giorno è infine arrivato. E allora: auguri per questa festa meritata, mia sfortunata, ma carissima, Ottilia!
mariluf
Bellissima storia!!!!!!
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Lucia
Fiabesca :-)))
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Anonimo
Ottilia è molto popolare in Tirolo.
Annalisa.
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