Il folle Carnevale delle monache di Venezia

Un posto che davvero sarei curiosa di visitare, se potessi viaggiare su una macchina del tempo e se fossi in vena di darmi alla follia assaporando un po’ di eccessi carnascialeschi?
Incredibile ma vero: i monasteri femminili della Venezia della prima età moderna.

In quegli appartati sacelli su terra sacra, le religiose festeggiavano il Martedì Grasso dandosi ad attività che suonerebbero a dir poco inverosimili se a citarle non fossero fior fiore di processi canonici e di visite pastorali, equanimemente concordi nell’affermare che ‘ste monache erano completamente pazz gravi dissolutezze, motivo di grande allarme, avevano luogo là dove meno ci si aspetterebbe di incontrarne.

Tipo?
Per dire una: durante il periodo di Carnevale, le monache si vestivano da uomo.

E lo facevano di tutto punto, spingendosi addirittura a ordinare abiti maschili che si facevano consegnare in monastero, con comprensibile perplessità dei sarti che non potevano non interrogarsi sull’identità di questi misteriosi ospiti maschili per cui le religiose s’affrettavano a comprare vesti (di ogni taglia!).

La consuetudine doveva essere ben nota, e diffusa a macchia d’olio in tutti i monasteri della zona: ce lo suggeriscono alcuni indizi, tra cui uno particolarmente eloquente. Quando, nel 1608, una certa suor Clara fu accusata di aver ripetutamente portato un uomo nella sua celletta del monastero di San Vito, gli inquisitori vollero innanzi tutto sincerarsi sulla veridicità dell’affermazione: le sue consorelle erano assolutamente certe che la religiosa avesse condotto nelle sue stanze un vero uomo? Non c’era la possibilità che la donna fosse in compagnia di una consorella vestita in abiti maschili, come spesso capitava nei periodi di festa? E, di fronte ai sacerdoti che le interrogavano, le religiose del monastero di San Vito si videro costrette a precisare che, no: non avevano visto da vicino il compagno di suor Clara e non sarebbero state in grado di darne una descrizione fisica precisa, ma erano tutte concordi nel dire che, a motivo della sua corporatura e stazza, quell’individuo era chiaramente un uomo al di là di ogni ragionevole dubbio.

Miglior fortuna, nel 1614, ebbe suor Laura Querini, accusata di aver introdotto nottetempo numerosi uomini all’interno del convento di San Zaccaria. I passanti, esterrefatti, avevano avuto modo di intravvedere le sagome maschili attraverso i vetri delle finestre, scandalizzandosi per le danze, le risate e per l’atmosfera di confidenzialità intima che legava quegli intrusi alle pie (?) donne che avevano preso il velo. Scoppiò uno scandalo che portò le monache di San Zaccaria al cospetto delle autorità ecclesiastiche: ma, alla prova dei fatti, suor Laura non fece troppa fatica nel dimostrare che quegli uomini erano in realtà suore proprio come lei, facenti parti della sua stessa comunità. Semplicemente, avevano scelto di vestire abiti maschili nei giorni di Carnevale, per concedersi un po’ di innocente follia: e, di fronte a queste argomentazioni, le autorità ecclesiastiche si videro costrette a levar le mani (limitandosi tutt’al più a qualche occhiata di disapprovazione).

***

Beninteso: non erano solamente le monache veneziane a darsi al cross-dressing carnascialesco. All’epoca, andarsene in giro indossando abiti del sesso opposto era uno dei più diffusi divertimenti di Carnevale, portato avanti con una leggerezza innocente che nulla ha a che vedere con la voluta provocatorietà delle drag queen dei nostri giorni. In un divertito ribaltamento dei ruoli, uomini, donne e persino bambini giocavano, semplicemente, a “cambiar sesso” per qualche giorno, facendo ricorso a quello che, dopotutto, era il costume più facilmente ricreabile a partire da ciò che ogni famiglia aveva in casa.

Ma, naturalmente, non tutto ciò che è divertimento innocente per il laicato può trasformarsi con la medesima facilità in un passatempo adatto a donne che hanno consacrato la loro vita a Dio: al di là di ogni altra possibile considerazione, la consuetudine di vestirsi da uomo rischiava di esporre l’intera comunità a pettegolezzi odiosi, per di più infondati.
E il fatto che alcuni conventi avessero preferito la consuetudine di mascherarsi con i normali costumi femminili che ancor oggi associamo al Carnevale di Venezia non faceva un granché per migliorare la situazione. Anzi, poneva problematiche di altro tipo: perché, in questi casi, se non erano vincolate all’obbligo di clausura, amavano uscirsene in strada a piccoli gruppi, prendendo parte ai festeggiamenti o noleggiando una gondola per un giro tra le calli.

Intuibilmente, tanto bastava a creare grattacapi non da poco. Naturalmente, non v’è nulla di peccaminoso nell’indossare una maschera di Carnevale e nel partecipare con innocenza ai festeggiamenti cittadini; d’altro canto, una suora che se ne va a zonzo indossando un travestimento è, per definizione, una donna che tiene celata la sua vera identità. E chissà quanti giovanotti, agendo in buona fede, avevano tentato approcci inappropriati con donne che in realtà erano spose del Signore!

Non v’era dubbio: occorreva regolamentare in qualche modo la situazione – se non per tutelare la moralità delle suore, per non rischiare che questo malcostume potesse infangare il buon nome di Venezia!
Il 15 gennaio 1593, il doge Lorenzo Priuli dedicò al tema alcuni Ordini e avvertimenti, esordendo con una precisazione piena di cautela paterna: nessuno aveva intenzione di privare le monache veneziane di quei passatempi «onesti e virtuosi» con cui esse erano solite festeggiare il Carnevale. E tuttavia, era assolutamente necessario dare un giro di vite a certe esagerazioni che ormai erano fin troppo note anche tra il laicato: da quel momento in poi, l’abitudine di coprirsi il viso con una maschera, agghindarsi con barbe finte o indossare abiti secolari (di foggia femminile, o peggio ancora maschile) era da considerarsi peccato morale (ellamiseria). E, in quanto tale, sanzionabile con pene non da poco: le fiamme dell’inferno, ma anche (e soprattutto?) l’interdizione immediata dal parlatorio. Insomma: le suore che avessero esagerato con le loro mascherate carnascialesche sarebbero state punite col divieto di avere visite; un’ammenda gravissima, estremamente dolorosa per chi la subiva.

Per contro – faceva notare il doge – c’erano molti altri svaghi cui le religiose avrebbero potuto dedicarsi con profitto e divertimento. Innanzi tutto, nulla vietava di concedersi una dieta più ricca del solito, festeggiando in allegria con frittelle, dolci e piccole prelibatezze. In secondo luogo, il doge proponeva alle religiose di sublimare la loro passione per le maschere organizzando piccoli spettacoli teatrali in costume, magari basati sulle vite dei santi o sugli episodi più importanti delle Sacre Scritture. In fin dei conti, anche questo è un modo per mascherarsi!

***

L’idea era buona, almeno sulla carta.
Spiace dire che non tutti i monasteri s’affrettarono a seguire queste sagge indicazioni: lungo tutto il corso del XVII secolo, sacerdoti e confessori crescentemente esasperati tuonarono contro le infrazioni che, or qua e or là, continuavano a essere segnalate da queste irriducibili monache festaiole. Con buona pace di chi dice che una volta la Chiesa era più seria e che nessuno avrebbe fatto certe brutture che si vedono ai nostri giorni, signora mia!

Solo nel corso del XVIII secolo, gradualmente, le autorità religiose riuscirono a debellare una volta per tutte queste usanze carnascialesche, convincendo le monache e le suore a dedicarsi a divertimenti più composti e più ordinati. Ma fino ad allora, erano stati ben selvaggi i Carnevali delle religiose veneziane!


Per approfondire: Isabella Campagnol, Forbidden Fashions. Invisible Luxuries in Early Venetian Convents (Texas Tech University Press, 2020).

8 risposte a "Il folle Carnevale delle monache di Venezia"

  1. Francesca

    Sentitamente Grazie per questo post! (detto da una “di parte” in quanto cresciuta a metà strada tra territorio trevigiano e veneziano).
    La storia non la conoscevo ed è proprio pazzesca! LOL. Però diciamo che… [battuta:] Adesso, dopo decenni, finalmente ho capito perché le suore che gestivano la scuola materna che ho frequentato non hanno fatto una piega (ma proprio neanche commentato nulla, zero) quando io, a 4-5 anni, e una mia cugina coetanea una volta ci siamo presentate all’asilo alla festa di Carnevale con costumi tipici da maschietti. Da dire anche che le nostre stesse mamme (sorelle) non hanno obiettato niente, nemmeno loro… Considerato che hanno pure dovuto acquistare qualcosina in negozio. E ripensandoci adesso… per quanto riguardava i nostri sentimenti di bambine (anni ’70 del secolo scorso), l’atteggiamento o approccio era quello che hai descritto tu:
    “In un divertito ribaltamento dei ruoli, uomini, donne e persino bambini giocavano, semplicemente, a “cambiar sesso” per qualche giorno” – che poi per noi era limitato solo a qualche ora durante le feste organizzate il Giovedì, il Sabato o Domenica e il Martedì Grassi… Al di fuori delle quali, … Beh, io ad esempio (un esempio paradigmatico di com’ero tutti gli altri giorni) sono svenuta lunga distesa sul pavimento perché una parrucchiera mi aveva tagliato i capelli troppo corti, quindi troppo confondibile con un maschietto! Però di punto in bianco a Carnevale potevo giocare con vestiti maschili e femminili, indifferentemente, senza sentirmi svenire 😄 ma anzi divertendomi un sacco.
    E garantisco che tutti quelli intorno a me vivevano proprio così il Carnevale.
    E, come dire… Che sia stato tutto merito di un’onda lunga culturale proveniente da quelle suore pazze veneziane?
    Mi piacerebbe sentire altre esperienze in giro per l’Italia. Finora, il mainstream attuale, incentrato sulle “discussioni gender”, mi ha solo fatto conoscere (in rete) esperienze di bambini e bambine con i ben noti problemi di “identità di genere”, i quali anche a Carnevale venivano guardati di traverso se osavano invertire i sessi/ruoli durante la stagione carnascialesca. Questa cosa – tralasciando il problema più grave della condizione della persona – mi ha sempre stupita. Mi chiedevo: ma come? Neanche a Carnevale era permesso travestirti come ti pareva?

    Grazie Lucia, e buon inizio di Quaresima 😇

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    1. Ago86

      Più che altro in passato mascherarsi per carnevale era visto come una semplice carnevalata, senza che coinvolgesse teorie pseudoscientifiche o ideologie politiche. Oggi viene dato valore psicologico o di rivendicazione ideologico/identitaria ad ogni cosa, come se i bambini ragionassero con la mente degli adulti invece di giocare e scherzare. E credo sia questo il motivo per cui si vede in maniera diversa il mascherarsi – che ormai non è più innocente perché non c’è nulla che non venga toccato da qualche ideologia pseudoscientifica.

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      1. Francesca

        In effetti è così, ma probabilmente (anzi, senza probabilmente) le atmosfere, gli ambienti e gli atteggiamenti bisogna averli vissuti di persona (oppure studiati molto bene, come fa Lucia) per capirli… Per poterli confrontare con quelli di oggi.
        Devo anche dire che nel mio commento precedente sono passata da un tono scherzoso (che arriva fino alla frase “Che sia stato tutto merito di un’onda lunga culturale proveniente da quelle suore pazze veneziane? Mi piacerebbe sentire altre esperienze in giro per l’Italia”) …ad un tono serio che introduce una problematica molto seria. E allora magari sembra che mi stessi interrogando su qualcosa che in realtà già so. Sono sicura che ovunque, e non solo intorno a Venezia ☺️, finché non è arrivata una certa ideologia, i bambini potessero giocare a Carnevale con tutti i costumi che volevano. Come già detto da Lucia quando parla dell’atteggiamento del laicato – adulti e bambini – durante il Carnevale.
        Visto che ci sono: ringrazio qui Lucia anche per l’articolo apparso su Aleteia, sul perché tanti santi lungo storia sono stati (a ragione!) contro i festeggiamenti carnevaleschi.

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        1. Lucia Graziano

          Intanto, grazie per i ringraziamenti! 😀
          Lascio anche qui il link dell’articolo in questione. In effetti si scoprono Carnevali molto… selvaggi, come dire 😂

          https://it.aleteia.org/2023/02/22/perche-cosi-tanti-santi-criticavano-il-carnevale/

          Per il resto: adesso dirò forse una cosa impopolare, che però comunque secondo me va detta, e anzi andrebbe detta un po’ più di frequente come sano spunto di riflessione. E’ vero che, come dice Ago86, oggi viene dato un valore di rivendicazione ideologico/identitaria praticamente a qualsiasi cosa, ma a me pare francamente che questo atteggiamento non sia proprio unidirezionale.

          Ricordo ancora il vivo sconcerto provato, (ormai parecchio) tempo fa, nel leggere sui social una surreale discussione in cui un gruppetto di allarmate mamme si scagliava contro la moda recente di vestire i neonati con abitini beige, perché chiaramente c’è dietro una ideologia gender, e dove andremo a finire signora mia?, una volta i bambini venivano vestiti con vestiti azzurri per i maschi e rosa per le femmine e non era tutto molto più bello?, che amarezza di mondo asettico siamo lasciando in eredità ai nostri figli, oh poveri tapini.

          Lo dicevano sul serio, eh. E qui mi sembra persino superfluo specificare che, per buona parte della storia umana, tutti i neonati sono cresciuti in vestiti unisex di colori neutri, se non altro per la valida ragione che questi dovevano essere riutilizzati spesso, e che usare i vestiti rosa e azzurri “come s’è sempre fatto” (cit.) è una moda che risale grossomodo agli anni ’70, quando i figli hanno cominciato a essere sufficientemente pochi, i conti in banca sufficientemente alti, e la diagnostica prenatale sufficientemente precisa da permettere ai genitori da crearsi un guardaroba personalizzato per ogni figlio. Se guardi i ritratti di certi bambini (anche già grandicelli in età scolara) del Sei- e del Settecento, a prima vista fai fatica a capire se sia un maschio o una femmina (anche perché spesso anche i maschietti usavano tunichette e “gonne”, più comode per il cambio pannolino e anche perché è più facile allargarle man mano che il bambino cresce).

          Ora: se bisogna mettersi a fare polemiche persino sui vestiti beige per neonati, che secondo me vanno di moda perché banalmente in questo periodo va di moda la vanilla aesthetic (anche nell’arredamento e nell’interior design, per dire), mi sembra francamente che si stia esagerando nel senso opposto vedendo ideologia anche dove non c’è. Che è una reazione sociologica molto comprensibile e anche ben nota agli storici, per carità, però a me non sembra esattamente desiderabile (e, fra parenti, mi spiacerebbe se adesso, in conseguenza di questo, i figli di genitori eccessivamente allarmati venissero privati di tante sane esperienze che invece sono state tipiche della nostra infanzia).

          Comunque, una volta, le mascherate per cambiare sesso erano frequentissime a Carnevale, ma non solo. Si riproponevano anche in tutti i momenti carnascialeschi del calendario medievale, ad esempio anche in occasione della festa di san Luca. Ovviamente era solo una mascherata senza secondi fini, cioè ci si mascherava da donna come noi ci mascheriamo da astronauta o dinosauro, senza nessuna rivendicazione dietro per l’appunto, ma si faceva frequentissimamente! Anche perché, ovviamente, poteva facilmente essere fatto coi vestiti che qualsiasi famiglia aveva normalmente in casa.

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