Del rapimento di Stefano e del sacerdote che lo andò a cercare, calandosi con coraggio nella bocca dell’Inferno

Difficile dire quale fosse esattamente il problema che i Napoletani avevano col Vesuvio. Certo è che un problema ce l’avevano, stando a quanto scrive Alessandro di Canterbury, monaco benettino che conosciamo solo attraverso le sue opere: una raccolta di detti di sant’Anselmo d’Aosta (+1109), che lui aveva conosciuto personalmente; e poi (per nostra gran fortuna) una gustosissima compilation di miracoli assortiti. Miracoli come quelli che piacciono a noi, che sembrerebbero usciti da un romanzo fantasy: vediamone un esempio scorrendo assieme le pagine de Stephano rapto ed eius presbitero.

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«Un tale di nome Eustachio», ci spiega il narratore, precisando anche che «la sua testimonianza è attendibile», raccontò un giorno al nostro Alessandro una leggenda di cui aveva sentito parlare durante un soggiorno in Campania. In quella zona, era noto a tutti come il Vesuvio fosse una fonte inesausta di problemi; e non per quel dettaglio, tutto sommato trascurabile, d’essere un vulcano ancora attivo. Il vero problema era ciò che accadeva sul fondo del vulcano, in mezzo alla lava ribollente: perché, a quanto pare, quel peculiare ecosistema aveva attirato centinata di demoni dell’Oltretomba che avevano preso dimora all’interno del Vesuvio.

Difficile stabilire quali esattamente fossero le occupazioni di quei demoni. Secondo alcuni, il Vesuvio era una delle tante porte che collegavano la terra al regno di Satana; altri, più ottimisticamente, credevano di potersi illudere che al di sotto di quel mare di lava ci fosse il Purgatorio, e non l’Inferno. La pia speranza – ci informa Alessandro – prendeva le mosse dall’osservazione empirica per cui, puntualmente, «ogni sabato, verso l’ora nona, un’innumerevole moltitudine di uccellini fuoriesce da quel luogo infernale simile alla bocca d’una fornace, e rimane nelle boscaglie cresciute lungo il crinale fino al lunedì mattina, con grande gioia». Probabilmente, questi uccellini erano le anime dei penitenti che scontavano in Purgatorio la loro pena, e che ottenevano il permesso d’una libera uscita ogni domenica, nel giorno del Signore. O, alternativamente: non è vero nulla e quella dei Napoletani era solo una pia speranza; ben più infernali erano le occupazioni cui si dedicavano i demoni che vivevano dentro al Vesuvio.

Perché non c’era dubbio che di demoni ce ne fossero un sacco, quale che fosse la loro occupazione: torturare i dannati o spurgare le anime penitenti. Poco ma sicuro, i demoni c’erano, ed erano anche belli incattiviti: per la precisione, «a tal punto era cresciuta la loro insana crudeltà, che talvolta li si poteva vedere rapire nelle case e nei campi uomini e animali, che poi trascinavano con sé sul ciglio nel monte».

Messa di fronte alla concreta possibilità d’essere rapita da un demone e poscia venir gettata viva nella bocca d’un vulcano attivo, la gente normale avrebbe cominciato a vivere i suoi spostamenti quantomeno con una certa cautela, a voler usare un eufemismo. Ma il nostro amico Stefano – lo sfortunato protagonista di questa storia – non doveva essere quel tipo di persona che si preoccupa troppo delle conseguenze delle sue imprudenze; e infatti eccolo lì, mentre se ne va a caccia proprio nei boschi che crescono a ridosso del Vesuvio.

Alessandro ce ne tratteggia un ritratto in poche parole eloquenti: «costui era un tale che possedeva molti beni e che tormentava i suoi dipendenti con eccessiva cattiveria». Forse prevedibile (e tuttavia non meno stupefacente) ciò che accadde nel momento in cui Stefano si addentrò nel bosco: «una turba di soldati apparve dal nulla e lo rapì; e dopo averlo rapito scomparve repentinamente, così com’era arrivata». Poiché neppure il più duro allenamento militare ha il potere di donare il teletrasporto alle truppe armate, ai testimoni fu immediatamente chiaro ciò che era successo: «a tutti risultò evidente che era stato rapito dalla turba infernale».

La vedova (?) inconsolabile non se ne dava pace, piangendo giorno e notte e supplicando i concittadini di partire in missione per liberare l’uomo dall’Inferno. Forse – diceva lei – suo marito non era morto: forse era ancora vivo, in balia di quei crudeli torturatori; e forse, qualche uomo di buon cuore avrebbe potuto scendere in suo soccorso…?

Diciamo pure che calarsi all’interno della bocca dell’Inferno per andare a recuperare un criminale sequestrato dai demoni sembra il materiale per una quest di Dungeons & Dragons, più che una richiesta ragionevole da fare (con insistenza!) ai poveri cittadini napoletani. Ma abbiamo già appurato che l’ambientazione di certe leggende medievali non differisce poi così tanto da quella di un romanzo fantasy, sicché ecco saltar fuori un volenteroso che s’offrì di portare a termine la missione. Non si trattava d’un cavaliere in armatura scintillante, ma «di un sacerdote: il cappellano della famiglia di Stefano, cui il signore aveva concesso molti beni».

«Un giorno», ci spiega Alessandro, «dopo aver celebrato la santa messa» (che è sempre una buona idea, quando stai per andare a sfidare le orde infernali), «il sacerdote si avviò da solo verso il monte». Se fossimo in una partita di D&D questo sarebbe il momento giusto per elencare l’equipaggiamento dell’eroe, ed evidentemente Alessandro da Canterbury conosceva bene il regolamento: l’autore ci spiega infatti che, dopo aver celebrato la messa, «il sacerdote si era tolto la casula ma aveva tenuto indosso tutti gli altri paramenti» e si era armato d’un crocifisso, «portando in mano il segno della croce vivificante».

Il topos letterario dell’armatura spirituale che è più forte e più resistente di qualsiasi metallo umano è davvero onnipresente nell’agiografia medievale (e ne avevamo già visto un esempio nella storia di Owein, un altro che si prese la briga di calarsi nell’Oltretomba), e il sacerdote si riteneva ragionevolmente certo d’essere intoccabile agli occhi dei demoni. Avanzò dunque con relativa serenità, pronto alla missione: «giunto quasi alla sommità del monte, vide sul fianco della montagna un pertugio dal quale era possibile accedere alla voragine interna e dal quale iniziò subito l’audace impresa. In quel pertugio», mirabile visu!, «trovò il suo signore, seduto su uno scranno ardente». Non esattamente la sistemazione più comoda; e non esattamente lo scenario ideale per un coraggioso salvataggio ultramondano, vien da aggiungere. Con grande smacco del sacerdote, «non appena Stefano poté rivolgerglisi lo rimproverò aspramente, esclamando ‘idiota, quale follia ti ha condotto qui? Ci tieni tanto a dannare te stesso prima del tempo? Hai tentato una impresa troppo alta, sei stato presuntuoso. Se non fossi ricoperto di indumenti sacri, non ti sarebbe stata concessa alcuna dilazione per le tue pene; perciò, stai attento a non deporre mai questi paramenti a meno di non indossarne immediatamente di altri, perché soltanto il rispetto che i demoni debbono ai tuoi abiti sacri ti ha impedito di essere incatenato seduta stante e condotto al nostro stesso supplizio. Se un giorno ignorerai questo mio ordine, sappi per certo che verrai trascinato qui dentro. Io infatti ho avuto il permesso di parlarti per un’unica ragione: per darti questo avviso. Ma adesso scappa: tornatene indietro, se non vuoi morire!’».

Comprensibilmente allarmato «il sacerdote tornò indietro preso da gran timore», abbandonando al suo destino il povero Stefano (bell’amico!). «Raccontò più volte e con voce tremante ciò che aveva visto, e per due anni rispettò gli ordini che aveva ricevuto. Ma quando si avvide di aver ormai trascorso molto tempo senza subire alcun danno, ritenne di poter trascurare l’ammonimento ricevuto per concedersi un po’ di piacere»: che, come ben riconoscerete, è la ricetta perfetta per una catastrofe annunciata.

In realtà, ci sarebbe da spezzare una lancia a favore del prelato, visto il tenore dei piaceri corporali che facevano smaniare il nostro amico. Tenuto conto del fatto che ‘sto povero cristiano aveva passato gli ultimi due anni della sua vita indossando giorno e notte, 24h/24, tutti i paramenti sacerdotali d’alta ordinanza (che a questo punto secondo me erano molto prossimi a cominciare a camminar da soli, e non per miracolo celeste), mi sembra tutto sommato anche comprensibile il suo smodato desiderio di andare a farsi un bagno. E così (magari in un’assolata giornata estiva come queste: o così, almeno, mi piace immaginare), «avendo a lungo desiderato di recarsi ai bagni, vi entrò, dopo essersi spogliato dalle vesti». Vi inviterei peraltro a visualizzare per un attimo l’immagine di ‘sto prete fracido di sudore, che va in spiaggia, o peggio ancora entra in uno stabilimento privato, conciato come se fosse in procinto d’andare a dir Messa, sotto gli sguardi perplessi di tutti gli altri avventori. In ogni caso, «rimase lì solo un momento. Non appena si fu spogliato, subito infatti apparvero dal nulla uomini neri che lo tirarono fuori dal bagno completamente nudo, davanti agli occhi di tutti, mentre lui supplicava e gridava, e lo portarono con sé in quel luogo di tormenti».

The end.

La morale di questa sconfortante storia? Secondo Alessandro di Canterbury, è ben chiara: «di qui è dato comprendere che anche il sacerdote doveva essere in combutta col suddetto Stefano» (notoriamente un gran peccatore, come s’è detto), «e che in virtù di ciò il giudizio di Dio Onnipotente lo associò a lui nello stesso luogo di sofferenze». Fosse stato un santo, a calarsi nell’Inferno, l’epilogo sarebbe stato del tutto diverso. Ma in fin dei conti, questa non è un’agiografia: è solamente una leggenda medievale.


Per approfondire: I miracoli di Alessandro da Canterbury sono editi in: Anselmo d’Aosta nel ricordo dei discepoli. Paraboli, detti, miracoli (Jaca Book, 2008)

4 risposte a "Del rapimento di Stefano e del sacerdote che lo andò a cercare, calandosi con coraggio nella bocca dell’Inferno"

  1. Avatar di Whitewolf

    Whitewolf

    Credo che la logica sia stata che siccome Stefano era stato un grande peccatore, alla fine la sua dannazione era stata scritta da Dio, quindi chi fosse andato a salvarlo (sia pure per missione pastorale) avrebbe contraddetto le previsioni celesti e di conseguenza si sarebbe associato alla sua condanna.
    Associato questo al valore sacrale dei paramenti, sembra suggerire che la missione pastorale del parroco fosse un impasse nemmeno da poco. Di solito quando in un mito o in una leggenda appaiono questi impasse è il momento per trasmettere un messaggio simbolico assai interessante e in questo caso il senso è: “sutor ne ultra crepida”. Ci sta che tu voglia ricondurre la tua pecorella all’ovile, ma quantomeno fallo prima che sia tra le fauci del lupo, che lì è competenza delle altre anime.

    Non so, sono in pieno mood pre esame quindi sparo ipotesi a cavolo

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