Swoon Suit: il “due pezzi” che serve la patria

Il primo bikini della Storia? Lo vedete nello scatto sottostante: siamo a Parigi, nel 1946, e il coraggioso stilista a firmare questo capo è il signor Luis Réard.
La modella, ancor più coraggiosa, si chiamava Micheline Bernardini ed era in realtà una spogliarellista: tutte le indossatrici professioniste, all’epoca, avevano categoricamente rifiutato di apparire in pubblico così conciate. Troppo succinto il bikini; troppo scandalosa la tenuta.

In effetti, diciamo pure che suonano quantomeno discutibili alle nostre orecchie anche le motivazioni con cui Luis Réard aveva creato questo capo. Chi dovesse immaginare una presa di posizione a favore dell’empowerment femminile, resterebbe probabilmente assai deluso: lo stilista si era messo a lavorare al bikini dopo una scommessa fatta con un collega, su chi dei due fosse riuscito a realizzare un costume da bagno usando meno stoffa possibile. Il bikini di Réard vinse a pieni voti, con una superficie quadrata di 194 cm totali.

Tuttavia, Réard e amici non avevano inventato il concetto di bikini.
Accantonando i costumi che si ammirano nei mosaici di piazza Armerina, che fanno storia a parte, si può dire che il primo due-pezzi della Storia sia stato inventato negli U.S.A., nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, e per cause dichiaratamente belliche
Mai sentito parlare dello Swoon Suit?


Progettato dalla ditta Cole, e immesso sul mercato nel 1944, lo Swoon Suit aveva ben poco a che vedere col bikini di Réard. Certo: entrambe i produttori avevano il preciso scopo di usar meno stoffa possibile nel confezionamento del costume; ma se Réard voleva usare poca stoffa per progettare un costumino sexy, la Cole of California voleva usare poca stoffa per il semplice fatto che gli U.S.A. erano in guerra.
A causa dell’economia di guerra, tutte le azione dovevano sottostare a rigide restrizioni che fissavano un tetto massimo alla quantità di materiale che poteva essere utilizzato a fini civili. Vale a dire: se abbiamo a disposizione dieci metri di stoffa, ne useremo una piccola parte per far vestiti alle signore e destineremo la grande maggioranza del prodotto al confezionamento di divise per i marines, bende per soldati feriti al fronte, paracadute per l’esercito… e così via dicendo.

Lo Swoon Suit nasce proprio in questo contesto storico. È un costumino assai succinto, ma d’altra parte bisogna risparmiar stoffa: larga parte del busto è lasciata nuda, e le mutande possono essere strette o allargate mediante un sistema di laccetti ai fianchi per sprecare meno stoffa (e immettere sul mercato una serie di costumi rigorosamente di taglia unica. Zero rischio di invenduto).
Ne esce fuori una decisamente più sexy del normale? Certo che sì, e lo sanno anche i produttori, che ammettono la provocatorietà del modello fin dal momento in cui lo brevettano: lo chiamano “Swoon Suit” – “costume che manda in estasi”, tradurremmo in Italiano.

Ma lo Swoon Suit, di base, non nasceva con l’intenzione di essere un costume provocatorio. Per essere un due-pezzi, era pure castigato: non si rivolgeva, diciamo così, alle femme fatale dell’epoca, quanto più ai tanti angeli del focolare che potevano pensare, in questo modo, di aver dato il loro modesto contributo alla causa bellica che tratteneva i padri e i mariti al fronte. E infatti, come ci tenevano a rimarcare le pubblicità dell’epoca, lo Swoon Suit veniva prodotto con la stessa identica stoffa con cui si producevano i paracadute: disponibile sul mercato in tutti i parachute colors, rappresentava una sorta di legame fra i soldati al fronte e le loro donne che devotamente li aspettavano oltreoceano.

Non a caso: they wear the same label, “indossano lo stesso marchio”, ci teneva a precisare una pubblicità diffusa sulle riviste femminili nell’estate del ’44. Quanto il gioco si fa duro, anche un costume da bagno può diventare patriottico.

12 risposte a "Swoon Suit: il “due pezzi” che serve la patria"

  1. Mariella

    Sempre interessante leggerti…
    Comunque confermo l’uso sartoriale dei paracadute: mia suocera, sartina in quel di Alessandria durante la guerra, trovò un paracadute americano di seta e ne ricavò delle camicette, preziose data la scarsità di stoffa – oltretutto scadente – della tessera annonaria…

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    1. Lucia

      Caspita, bel colpo di fortuna deve aver avuto!! Un paracadute intero, a occhio, direi che è pure bello grosso… insomma, un bel metraggio di seta, mica male!

      Invece a me una volta era stato detto da un commesso del negozio Kipling (quello delle borse con la scimmietta) che le borse Kipling sono confezionate con lo stesso nylon di cui oggi sono fatti i paracadute. Me lo diceva per sottolinearne la resistenza all’uso (chissà poi se è vero).
      I corsi e i ricorsi della storia 😉

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  2. senm_webmrs

    Noto con soddisfazione che nessuno più legge «La ragazza di Bube» di Carlo Cassola. Come tutte le opere letterarie “gonfiate” ad arte per motivi ideologici (edizioni Einaudi, quis habet aures audiendi audiat) il tempo inesorabile l’ha buttato nel dimenticatoio, meritatamente.

    Tutto questo pistolotto per dire che il Bube del titolo regala alla ragazza della “seta di paracadute” per farci appunto una camicetta. Nell’immediato dopoguerra toscano. Sulle successive vicende del protagonista stendiamo un velo pietoso.

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    1. Lucia

      In effetti, ne ignoravo anche solo l’esistenza.
      Però il problema è che la tua recensione così disgustata ha suscitato in me l’effetto opposto: adesso sono curiosa di leggerlo per vedere se davvero fa così schifo XD

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