Influencer di inizio secolo e medici-testimonial: ecco come nacque il mercato dei prodotti per l’infanzia

Sui social, non è infrequente leggere sfoghi divertiti sulle linee di: “ho speso 200 euro per comprargli il gioco all’avanguardia, e lui che fa? Me lo schifa e si mette a giocare con la scatola”.
“Lui”, in genere, è un bambino piccolo oppure un gatto. Per oggi lasciamo perdere il gatto e focalizziamoci sul bambino piccolo.

Come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i pargoli: i bambini, soprattutto se in tenera età, si divertono come matti giocando con qualunque cosa. Da piccola, io ero una grande fan delle pigne, della pasta cruda e dei rotoli di carta igienica. La figlia di un mio amico ha seriamente destato preoccupazione nei suoi genitori per l’ossessiva maniacalità con cui apriva e chiudeva una striscia di velcro, a ripetizione. Ogni giorno, nei più remoti angoli del mondo, genitori rassegnati spendono soldi sonanti per comprare giocattoli ai loro bambini piccoli, al solo scopo di scoprire che i giovani virgulti sono molto più incuriositi dalla carta di imballaggio.

Stando così le cose, come diavolo ha fatto l’industria del giocattolo a convincerci che sia una buona idea spendere barcate di soldi in balocchi per la prima infanzia?
Se ci pensate, c’è riuscita solo in anni recenti. Diciamo, nel corso dell’ultimo secolo: non prima.

Con la possibile eccezione del giocattolo che veniva regalato una o due volte l’anno, in occasione delle grandi feste (e a patto che la famiglia potesse permetterselo, naturalmente) i nostri progenitori trascorrevano i loro anni da bambino dilettandosi con balocchi veramente semplicissimi. Si giocava con i gusci di noce, con gli oggetti di casa, persino con gli scarti di macellazione; ma non è che esistesse un vero e proprio mercato di giocattoli per bambini.

La motivazione, naturalmente, era dettata almeno in parte da ragioni economiche… ma solamente fino a un certo punto. Alla fin fine, non costa mica tanto produrre una bamboletta senza troppe pretese. Il vero ostacolo allo sviluppo delle vendite nel settore infanzia era, per così dire, psicologico: alla gente non veniva proprio in mente che fosse opportuno dedicare troppo tempo ed energie alla ricerca di qualcosa con cui far giocare un bambino piccolo. Tendenzialmente, i bambini piccoli si arrangiano benissimo da soli.Per dirla con le parole di Jan Whitaker, autrice di Service and Style. How the American department store fashioned the Middle Class,

fino al 1900 circa, il negoziante-medio non guardava ai bambini come a potenziali clienti: era più facile che li guardasse come a forza-lavoro.

In effetti,

il bambino-consumatore, come categoria di mercato, era pressoché inesistente. Persino nei grandi magazzini, l’assortimento di prodotti per l’infanzia era molto scarso; oltretutto, i pochi prodotti presenti non erano radunati in un unico reparto, bensì mescolati ai prodotti analoghi per adulti.

Fra l’altro,

con l’unica eccezione per le calze e la biancheria, le madri ci tenevano a preparare in prima persona i vestitini per i loro figli. Il reparto giocattoli era inesistente, o comunque aveva dimensioni minime, tranne che nel periodo di Natale.

E in effetti: se la mamma si fa vanto di creare personalmente il guardaroba per i suoi figli e i bambini sembrano perfettamente felici nel giocare con i loro balocchi home-made a costo zero, come diamine fai a convincere le famiglie a sborsare soldi in superflui orpelli di cui non hai sentito il bisogno?

Facile, disse un genio del marketing a inizio ‘900.
Tutto sta nel convincere i genitori che quegli orpelli non sono superflui proprio per niente.

***

Nei primi anni del ‘900, la percezione popolare dell’infanzia fu pesantemente influenzata da due fenomeni diversi.

Il primo era di matrice politica: con lo svilupparsi dei movimenti che lottavano per l’abolizione del lavoro minorile, si cominciò a dipingere l’infanzia come una età dorata e innocente, che i bambini avevano il diritto di vivere protetti dalle brutture del mondo.
Contestualmente, le coppie della media e medio-alta borghesia cominciarono a fare gradualmente meno figli. Restavano assai prolifiche le famiglie povere, ma quelle di certo non interessavano ai pubblicitari; molto più interessante era invece l’osservazione per cui le coppie in condizioni economiche medio-alte si trovavano improvvisamente con meno figli da sfamare… e, quindi, con un tetto di spesa pro-capite decisamente più alto di prima. Insomma: il potenziale consumatore era stato individuato, e aveva anche soldi da parte. Adesso si trattava solo di trovare un modo per convincerlo a spenderli.
E il modo fu trovato: si decise cioè di cominciare a organizzare nei grandi centri commerciali eventi, luoghi di ritrovo e persino servizi “a misura di bambino”, curati da professionisti del settore sulla base delle ultime scoperte scientifiche circa le fasi di sviluppo della prima infanzia. Naturalmente, ognuno di questi appuntamenti era corredato da utili e disinteressate proposte commerciali sull’abbigliamento e sui giocattoli più adeguati per accompagnare i pargoli nelle varie tappe della loro crescita. Del resto, quale educatore non sarebbe disposto a tendere una mano amica a quelle madri spaesate che cercavano di mettersi al passo con il progresso degli studi medici?Negli Stati Uniti (che fecero scuola – ma pian piano il trend arrivò anche in Europa) cominciarono a fiorire le iniziative commerciali note come Baby Days o Baby Weeks. In questi periodi speciali, preannunciati da ampio battage pubblicitario, i centri commerciali organizzavano eventi aperti al pubblico durante i quali la clientela avrebbe potuto ascoltare i consigli di levatrici, puericultrici, medici specializzati in malattie dell’infanzia. Ammantate di quell’aura quasi sacrale che all’epoca avvolgeva chi si intendeva di medicina, queste figure fornivano consigli igienico-sanitari alle madri piene di ammirazione: e – intendiamoci – si trattò di iniziative benemerite che ebbero davvero il pregio di divulgare tra il grande pubblico conoscenze vere e indubbiamente utili. Ma, naturalmente, queste iniziative non erano del tutto disinteressate: e i professionisti avevano cura di buttare lì ad hoc anche qualche suggerimento che potesse portare guadagno all’azienda che li aveva assunti. “E comunque, per tener lontani i pidocchi, si è dimostrato perfettamente efficace il prodotto che vedete esposto lì nello scaffale a destra. Toh!, solo per oggi è pure in saldo, che prezzaccio, di solito costa almeno due volte tanto!”.

L’approccio era universale: signore, qui nessuno sta cercando di arricchirsi sulla pelle dei vostri bambini; qui vi stiamo fornendo un servizio sociale alla luce delle più recenti scoperte scientifiche sulla prima infanzia. Ciò che prima si pensava potesse andare bene per un bambino, adesso non è più accettabile; quindi, mamme: se volete il bene del vostro figlio, piantatela con il fai-da-te e con i vestitini di seconda mano e affidatevi ai professionisti studiati. Noi sì che saremo in grado di aiutarvi per il meglio.

E, in molti casi, l’aiuto arrivava per davvero. Alcuni grandi centri commerciali assunsero come commesse per il reparto infanzia delle puericultrici professioniste: effettivamente una mano santa per una mamma inesperta, che non aveva più bisogno di imbarazzanti code nello studio del medico per potersi togliere quel dubbio che l’impensieriva. In altri casi, le donne in gravidanza che varcavano le porte del grande magazzino sapevano di poter contare sulla consulenza di levatrici, pronte a guidarle nell’acquisto del corredino: un servizio senz’altro utile anche a livello psicologico, per la spaventata gestante che sempre più di frequente doveva affrontare la dolce attesa lontana dalle attenzioni delle altre donne della sua famiglia (andare a vivere lontano da casa, ormai, era un’abitudine). Tra il serio e il faceto, eventi periodici come il “concorso di bellezza per bambini” permettevano alle madri di far esaminare i loro pargoli da un team di professionisti del settore… e, cosa non da meno, permettevano ai professionisti del settore di spiegare al grande pubblico concetti non sempre facili, tipo “percentili di crescita”. In altri casi, beh… l’ipocrisia era un po’ più evidente.
Sotto lo slogan “giocare è il lavoro dei bambini”, originariamente nato in seno alle campagne politiche per l’abolizione del lavoro minorile, l’industria del giocattolo cominciò a sfoderare, mese dopo mese, una pletora di balocchi sempre nuovi. Che venivano presentati ai genitori non per quello che il più delle volte erano (e cioè graziosi balocchi da regalare al bambino; punto a capo) ma che venivano spacciati per giocattoli educativi alla massima potenza – roba che, se li regalavi a tuo figlio, quello ti diventava il novello Mozart. Se lo lasciavi senza, l’insuccesso scolastico sarebbe stato quasi assicurato.Studi scientifici sull’importanza del movimento e del gioco all’aria aperta venivano pubblicati, a pagamento, vicino alle pubblicità di scivoli, altalene e biciclette. Sulle riviste femminili cominciarono ad apparire articoli tipo “la tua casa è veramente a misura di bambino? Il tuo giardino è davvero in grado di favorire un sano sviluppo psicofisico?”, sottintendendo che solamente una abitazione adeguatamente arredata secondo le nuove norme sarebbe stata nido accogliente per le future generazioni. Si tentò addirittura di creare una Giornata del Bambino su modello del Giorno degli Innamorati o della Festa della Mamma, con la speranza che essa potesse pompare le vendite di giocattoli in un periodo economicamente difficile per il mercato dell’infanzia: quello di inizio estate. Istituita verso la metà degli anni ’20, fu fissata il 18 giugno, nella speranza di dare una spinta alle vendite di quei giocattoli marcatamente estivi di cui era antieconomico stoccare l’invenduto a fine stagione.
In realtà, la festa non prese piede. Forse il pubblico reagì con scarso entusiasmo perché, alla fin fine, la Giornata del Bambino esortava i genitori a fare ciò che ormai tutte le buone famiglie facevano quotidianamente: e cioè coccolare, vezzeggiare, ricoprire di doni il bebè di casa. Trecentosessantacinque giorni all’anno; altro che 18 giugno!

***

Verrebbe da dire che gli esordi di quest’operazione commerciale furono quantomeno discutibili, se non proprio manipolatori; eppure va sottolineato ancora una volta che l’iniziativa portò numerosi benefici. Ho già parlato di quelli immediati: trasformare un centro commerciale in un consultorio medico pieno di levatrici e infermiere pediatriche è una scelta quantomeno singolare… ma sicuramente fu una manna dal cielo per tante madri, che fra l’altro permise loro di aggirare l’ostacolo psicologico del dover andare dal medico per avere un chiarimento su un dubbio di poco conto.

Ma il fatto che il mercato dell’infanzia avesse cominciato a muoversi e a crescere perfettamente in sincrono con le più recenti e più innovative teorie pedagogiche del momento ebbe effetti importanti anche nel lungo periodo. Nel suo piccolo,

anche questo giocò un ruolo non da poco nel far cadere nell’oblio le idee puritane che miravano a sopprimere ogni forma di spontaneità nel comportamento dei bambini – incluso, ad esempio, il loro amore per i colori accesi. Aree gioco e negozi di balocchi festosamente decorati in toni infantili suggerivano ai genitori nuove modalità per arredare le camerette, e set per il disegno e i lavori manuali finirono col liberare la creatività dei bambini.

5 risposte a "Influencer di inizio secolo e medici-testimonial: ecco come nacque il mercato dei prodotti per l’infanzia"

  1. Avatar di klaudjia

    klaudjia

    I bambini oggi hanno troppi giocattoli. Mia madre negli anni 80 guardava sconcertata le mie 6 bambole Barbie ed esclamava “sei Barbie!!! Sono tante!!!!”. Mia figlia ne ha circa 20 (solo di quelle). Ora mi dirai….perché gliele hai comprate? Semplice….ne avrò comprate forse tre. Le altre tutte regalate ai vari compleanni/natale/varie ed eventuali. Questo soprattutto perché i bambini sono pochi: mia figlia ha ricevuto un giocattolo anche dalla nonna di una zia acquisita che avrà visto una volta l’anno durante il pranzo natalizio. Ma su cinque nuclei familiari seduti a tavola (tra scapoloni, coppie purtroppo senza figli, ecc.) C’erano complessivamente tre bambini a fronte di 15 adulti. Ora è ovvio che se i bambini “scarseggiano”, quelli che ci sono vengono riempiti di ogni giocattolo/coccola/attenzioni

    Piace a 1 persona

  2. Avatar di Murasaki Shikibu

    Murasaki Shikibu

    Ecco, quel che da esterna mi colpisce molto in tanti giocattoli, soprattutto quelli “intelligenti” ed “educativi” è che si tratta di roba assolutamente insulsa. Salvo poi lamentarsi che i bambini non li apprezzano perché sono viziati, oppressi da troppi giocattoli, abituati a coltivare l’avere e non l’essere, incapaci di appassionarsi a lungo a qualcosa… Ma gli danno certa roba che proprio non riesco a immaginare come potrebbero entusiasmarsi, povere creature. Ovvio che un incarto fatto bene gli interessa di più, ha qualcosa da raccontargli e da insegnargli.
    Comunque il Lego è stata un’invenzione geniale 😃

    Piace a 2 people

  3. Avatar di Mariella

    Mariella

    Concordo sul fatto che i pochi figli e i tanti parenti hanno come risultato caterve di giochini in triplice copia; inoltre occorre tenere presente che, complici il benessere e la produzione made in China, i giocattoli sono alla portata di tutte le tasche. La stessa cosa è accaduta per i vestiti da bimbo: 30/40 anni fa si faticava a trovare un cappottino o un abitino decente nei 2/3 negozietti del settore, oggi si va dalle cinesate a 5 € ai capi firmati a 200 e oltre…
    Comunque occorrono nervi d’acciaio al genitore contemporaneo per far fronte all’assalto dei produttori di giocattoli… preparatevi per fine ottobre, quando inizierà l’attacco frontale di Natale: bombardamento pubblicitario con tutti i giochi possibili e immaginabili, presentati come indispensabili per lo sviluppo del pupo, con spot ossessivi e accattivanti ogni 15 minuti (sperimentato con i nipotini, che pure hanno permessi assai restrittivi per vedere la tv); ovvio che la loro prima reazione sia “Che bello, lo vorrei per Natale!” Fortunatamente mia figlia tiene duro su due fronti, quello infantile e quello nonnesco (aspettate di essere nonni, e vedrete come diverrete rammolliti! 😄),con diktat draconiani su qualità e quantità!
    Amo anch’io i Lego, dai tempi in cui c’erano solo mattoncini blu, rossi bianchi e basta; però devo dire che gli ultimi prodotti, predisposti per costruire una sola figura, castello o nave spaziale, ecc…,tolgono parecchia fantasia: praticamente non si può inventare nulla, è come costruire un puzzle: questo è il limite di molti giochi odierni.
    Intanto il nipotino mi ha chiesto di conservargli gli anelli di chiusura dei tappi delle bottiglie in plastica, perché gli servono per giocare…😄

    Piace a 1 persona

Lascia un commento