In tempo di epidemia, tu mostra le caviglie!

O tempora, o mores! Tra le tante paure, più o meno razionali, che ci paralizzano in questi giorni, non siamo ancora riusciti a farcene venire una che invece atterriva le generazioni prima di noi.
E cioè, la paura dei vestiti infetti che diffondono l’epidemia.

***

Avete presente quella triste pagina della Storia statunitense che vede i coloni di Fort Pitt donare ai nativi americani le coperte nelle quali erano stati avvolti i soldati malati di vaiolo, con la speranza di contaminarli?
La buona notizia è che il piano criminale non ha funzionato (non sono state le coperte a causare l’epidemia; il vaiolo era già arrivato nei villaggi dei nativi). La cattiva notizia è che questa storia non è una leggenda nera: davvero i coloni americani hanno tentato di infettare i nativi attraverso le coperte usate.
Il che – non so a voi – a me fa inarcare le sopracciglia. Fra tutti i modi creativi di fare guerra batteriologica, come ti viene in mente di usare un plaid come arma di sterminio di massa?
Voglio dire: se proprio, io cercherei di contaminare il cibo, per dirne una. Mica ‘na coperta. Gli avveleni un sacco di grano e stai a posto.

Ma io sono una donna del nuovo millennio, con idee ragionevolmente chiare sulle modalità di trasmissione delle malattie. Non si può dire altrettanto per i coloni di Fort Pitt e per gli uomini della loro generazione – individui che, in materia di epidemiologia, avevano molti dubbi e poche certezze, una delle quali era giustappunto questa: la stoffa è un potente vettore di contagio.

E non avevano nemmeno tutti i torti. In quel libro delizioso che è Fashion Victims. The Danger of Dress, Past and Present, Allison Matthews David evidenzia come, in alcuni casi, abiti “infetti” siano realmente stati vettori di contagio. Nel 2009, ad esempio, la scoperta a Vilnius di una sepoltura di massa di soldati dell’esercito napoleonico ha permesso agli studiosi di stabilire – analizzando la polpa dentale dei cadaveri – che i soldati erano stati uccisi dal tifo e dalla febbre da trincea. Sono i pidocchi a trasmettere all’uomo queste malattie; e infatti, minuscoli pidocchi risultati a loro volta infetti furono trovati sui frammenti di tessuto delle divise che i soldati avevano indosso.
Sono state le divise a uccidere i soldati di quel battaglione? Difficile dirlo, naturalmente, ma mettiamola così: se intorno a te infuria il tifo, e tu sei miracolosamente scampato al contagio, ma poi ti tocca indossare una giacca nella cui stoffa si annidano schiere di pidocchi infetti, le tue probabilità di cavartela diminuiscono drasticamente.

Altro esempio. Storicamente, le prime vittime del colera nelle grandi città sono sempre state le lavandaie: per una malattia che si trasmette per via oro-fecale, è terribilmente facile diffondersi attraverso panni sporchi, lavati senza le adeguate precauzioni.
Storicamente – come ben sa il Griso – era pericolosissimo cercare l’affarone comprando a basso prezzo, da un robivecchi, gli abiti appartenuti a un morto di peste: se tra le pieghe del tessuto si annidava ancora qualche pulce, ti saresti pentito ben presto del tuo acquisto in saldo.

Insomma: per non capirci niente, la gente dei secoli passati era giunta alla conclusione che i vestiti sono pericolosissimi, in tempi di epidemia (tant’è vero che, spesso, si ordinava di incenerire l’intero guardaroba del defunto).
Naturalmente ciò non è sempre vero (tutto dipende dalle modalità di trasmissione della singola malattia, evidentemente) – ma, nei secoli passati, la contagiosità dei vestiti era data per acclarata. E la teoria dei germi di Pasteur, parlando di microscopici agenti patogeni invisibili all’occhio umano, sembrò confermare questa convinzione.
Nacque così, verso la fine dell’Ottocento, una vera e propria campagna di costume che, in virtù della prevenzione sanitaria, se la prendeva con… la moda femminile.
E, in particolar modo, con la moda assai diffusa di indossare abiti con lo strascico.

Quello scampolo di stoffa che lambiva i marciapiedi, raccattando chissà quante schifezze, cominciò ad essere additato come emblema della cieca vanità muliebre. Inutile, pericoloso per la salute pubblica e, oltretutto, costoso, lo strascico divenne il simbolo di quel lusso ostentato che mira unicamente a essere status symbol.
E di conseguenza cominciò ad essere preso di mira da una campagna che non usò mezzi termini.

Nel 1900, la rivista Puck diede alle stampe l’immagine di una donna di servizio che, disgustata, provvedeva a rassettare la lurida gonna della sua padrona, impregnata di “germi”, “microbi”, “influenza” e altre schifezze raccattate nel corso della passeggiata di piacere dipinta nella striscia in alto. Gli inermi bambini che assistono alla scena fungono da tetro presagio su chi possa aver preso di mira la Morte, che, grazie alla vanità materna, già si aggira per la casa sfregandosi le mani ossute.

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Di tutt’altro tenore erano le immagini di cui presto si riempirono i quotidiani. Ammantandosi di un’allure scientifica, l’illustrazione apparsa nel 1900 su un giornale newyorkese mostrava, “ingranditi al microscopio”, i microbi che potevano raccogliersi sullo strascico di una gonna durante una giornata come tante.

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Nel 1905, il San Francisco Cronicle arrivava a scrivere che la messa al bando degli strascichi avrebbe ridotto del 20% i contagi nelle grandi città.

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Persino articoli scritti da personale medico imploravano le donne: “accorciate gli orli per prevenire la tubercolosi!” – il che, peraltro, era una richiesta non da poco, in un’epoca nella quale le regole del decoro raccomandavano alle donne di non scoprire le caviglie per nessuna ragione al mondo.

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Magari, qualche donna coraggiosa sarebbe anche stata disposta a infrangere le regole della modestia in nome della salute pubblica.
Molte meno, però, dovettero essere le donne disposte a infrangere le regole della moda per la medesima ragione. Quando, nell’ultima decade dell’Ottocento, nacquero in diverse città degli USA i “Rainy Days Clubs”, gestiti da femministe che incoraggiavano l’uso di gonne più corte almeno nei giorni di pioggia, l’autorevole voce di Harper’s Bazaar frenò gli entusiasmi femminili domandandosi “e che ne è della vocazione muliebre di perseguire la bellezza?”.

Ahimè: non è facile convincere le persone ad abbandonare una moda, se non si riesce a dirottare le masse verso una moda ancor più cool. In tal senso, fu brillante (e di successo) il tentativo fatto da alcuni stilisti, che, all’aprirsi del nuovo secolo, cominciarono a proporre modelli nei quali il lungo strascico poteva essere sollevato da pinzette reggigonna.

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Cominciò a diventare di moda tener sollevata l’intera gonna per mostrare un secondo strato di stoffa sottostante, ovviamente decorato con le attenzioni più minuziose.

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In alcuni casi, le pinzette reggigonna erano addirittura provviste di una catenella regolabile che permetteva alla dama di tener sollevata la gonna mentre camminava per strada, per poi riabbassarla non appena raggiunta la meta dai pavimenti ben lavati.

La moda sarebbe durata poco, non v’è dubbio. Con la seconda decade del Novecento, le gonne femminili avrebbero improvvisamente cominciato ad accorciarsi con orli sempre più vistosamente alti. Eppure, secondo la storica Allison Matthews David, sbagliano coloro i quali attribuiscono unicamente questo fenomeno ai movimenti femministi e al nuovo ruolo sociale acquisito dalle donne nel corso della Grande Guerra. Indubbiamente, il femminismo e la ridefinizione dei ruoli femminili giocarono un ruolo importante nel ridisegnare la moda femminile. Ma, come osserva Allison Matthews David, “anche le preoccupazioni di natura sanitaria ebbero un ruolo importante, seppur  oggi dimenticato”.  

3 risposte a "In tempo di epidemia, tu mostra le caviglie!"

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