Contrariamente a quanto si potrebbe forse immaginare, un tempo non era la Messa di mezzanotte ad essere il clou delle celebrazioni liturgiche del Natale. Certamente non lo era nel Medioevo, e a dirla tutta non lo fu per molti secoli a venire: le tradizioni popolari legate alla Messa notturna (come quella che Mani di pasta frolla racconta oggi sul suo blog) sono tutte piuttosto recenti, frutto di un’epoca storica in cui l’illuminazione pubblica delle strade rendeva ragionevolmente agevole camminare in piena notte senza fare brutti incontri (e, soprattutto, senza finire in una fossa). Ma fino all’Epoca dei Lumi (una indicazione cronologica da prendere in senso molto letterale, in questo caso!) era piuttosto raro che le chiese si riempissero di gente nel cuor delle tenebre; la Messa “nella notte di Natale” esisteva già, ma era tendenzialmente un lusso per pochi: il prete, la sua famiglia, la perpetua, qualche fedele che abitava lì vicino e qualche parrocchiano particolarmente fervoroso. La gran parte dei fedeli partecipava alle Messe che si tenevano il 25 dicembre, in orari meno scomodi e più urbani.
La Messa di mezzanotte celebrata dal papa? Valeva più o meno lo stesso discorso: certamente, veniva celebrata fin da epoche remote (è probabile che il primo a introdurla sia stata Sisto III nella prima metà del V secolo) ma non era il clou delle cerimonie natalizie. Si teneva in piena notte, nella basilica di Santa Maria Maggiore, alla presenza di alti dignitari e di qualche esponente del clero romano: in ogni caso, non era la Messa più partecipata della giornata (e, per la cronaca, non fu nemmeno la Messa in cui Carlo Magno fu incoronato imperatore, con buona pace di ciò che talvolta ci insegnano a scuola).
Già un po’ più affollata era la Messa all’aurora. Fu probabilmente papa Giovanni III (+ 574) a inaugurare la consuetudine di celebrare, alle prime luci dell’alba, una Messa piuttosto informale che aveva luogo nella basilica di Sant’Anastasia, con tutti i rappresentanti della comunità bizantina a Roma.
In effetti, sant’Anastasia di Sirmio, che ancor oggi il martirologio ricorda il 25 dicembre, è una santa molto popolare in Oriente (e anzi: per chi volesse approfondire la questione: qualche settimana fa ho scritto per Aleteia questo pezzo assai curioso che parla di voli spaziali, missione per la pace e amicizia russo-italiana ai tempi della Guerra Fredda… tutto grazie a sant’Anastasia!). Vista l’enorme popolarità di cui la santa godeva nelle chiese orientali, al papa dovette piacere l’idea di onorarla con una veloce Messa natalizia nella chiesa che le era stata dedicata al Palatino, affinché la festa del Natale non offuscasse del tutto la memoria di Anastasia. Si trattava d’una comparsata veloce, occasione per un rapido scambio di auguri con tutti i membri della comunità bizantina che proprio in quella chiesa si radunavano d’abitudine: senza trattenersi troppo, il papa scambiava qualche parola coi presenti. Direzione: la basilica di San Pietro, dove si sarebbe tenuta la vera Messa di Natale in pompa magna.
Si teneva a metà mattina, alla presenza dei cardinali, del coro e della popolazione. Era la grande Messa della giornata: quella celebrata con tutta la solennità liturgica del caso (e quella durante la quale, nel Natale dell’800, Carlo Magno fu incoronato imperatore). Al termine, impartita la benedizione, il papa si preparava per fare ritorno a San Giovanni in Laterano per un meritato pomeriggio di riposo… ma non prima di aver svolto un ultimo rito, sicuramente il più bizzarro della giornata: quello in cui il papa, per festeggiare il Natale, appiccando fuoco ai colonnati delle chiese.
Sì, davvero.
Il primo a darci testimonianza di questa singolarissima tradizione è il canonico Benedetto, vissuto a San Pietro tra il 1140 e il 1143. Stando a quanto racconta il cronista, il rituale aveva luogo due volte l’anno, nel giorno di Natale e in quello di Pasqua: il 25 dicembre, di buon mattino, il papa celebrava la prima Messa della giornata nella chiesa di Sant’Anastasia e poi si spostava a San Pietro seguendo un percorso processionale che lo avrebbe portato a toccare tutte le vestigia della Roma imperiale.
Seguiva la grande Messa di metà mattina, dopo la quale il pontefice riprendeva il suo cammino processionale per raggiungere il Laterano… ma, strada facendo, si fermava davanti a Santa Maria Maggiore, il cui colonnato era stato decorato da lunghi striscioni di lino, appesi da capitello a capitello, a mo’ di ghirlanda. Quando il papa faceva il suo ingresso nel presbiterio della chiesa, il sacrestano gli rendeva omaggio e gli passava un lungo bastone sulla cui punta era stata fissata una candela accesa: incredibile ma vero, il papa lo usava per dare fuoco agli striscioni di lino. Dopodiché, come se niente fosse, evidentemente appagato da questo atto di piromania, salutava tutti quanti, augurava buon appetito, belle cose e buone feste… e se ne andava così com’era venuto.
Il Medioevo era davvero un’epoca sorprendente!
Ma qual era il senso di questo assurdo rituale, che ai nostri occhi pare una via di mezzo tra un atto di vandalismo degno del Grinch e il rudimentale tentativo di creare (aehm) le prime luminarie natalizie della Storia?
In realtà, mettendo da parte l’ironia, è facile immaginare che l’immagine del lino bruciante avesse, agli occhi dei presenti, un sapore escatologico, volto a richiamare alla mente il fuoco che avvolgerà il mondo, nei tempi ultimi. La stoppa di lino (che, in effetti, si infiamma con particolare facilità e viene consumata dalle fiamme in pochi secondi) veniva frequentemente citata nella Bibbia, e proprio in questa accezione: «mucchio di stoppa è una riunione di iniqui; la loro fine è una fiammata di fuoco» recitava il Siracide (21, 9); e Isaia (1, 31) gli faceva eco promettendo che, alla fine dei tempi, «il forte diverrà come stoppa, la sua opera come scintilla; bruceranno tutte e due insieme e nessuno le spegnerà».
Significativamente, nello stesso periodo storico in cui il papa festeggiava il Natale appiccando fuoco alle chiese romane, una ritualità molto simile aveva luogo a Costantinopoli durante le cerimonie di incoronazione degli imperatori bizantini. La corona si era posata da pochi istanti sul capo del regnante, quand’ecco giungere due prelati per omaggiarlo con sinistri doni: un vaso pieno di cenere e un vassoio colmo di ossa. Di lì a poco, seguiva un accolito che reggeva un lungo bastone metallico, al cui vertice era stata fissata una striscia di lino: al cospetto dell’imperatore, la stoffa veniva incendiata; e mentre le fiamme se ne impossessavano, consumandola in pochi secondi, il governante era invitato a riflettere sulla caducità del suo potere terreno – effimero e di breve durata; dunque, da utilizzare con saggezza e al meglio delle possibilità.
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Verrebbe da chiedersi: ma quanto realmente era popolare questo bizzarro rituale natalizio, e per quanto restò in vigore?
Difficile dirlo, anche perché le fonti storiche ne parlano di rado e in maniera discontinua: nel XII secolo, Onorio d’Autun lo descrivendolo come un rito che aveva luogo nel giorno di Pasqua (come se, entro quella data, la tradizione natalizia fosse ormai scomparsa o comunque già in declino); per contro, vanno in direzione totalmente opposta le parole di Lotario di Segni (futuro Innocenzo III), che qualche decade più tardi ne parlava come di un gesto che, nel giorno di Natale, aveva luogo a Roma «in alcune basiliche»: una definizione che ci autorizzerebbe a immaginare una ritualità diffusa, presumibilmente effettuata in diversi punti della città da celebranti che non necessariamente erano il papa.
E, in effetti, un indizio a sostegno di questa tesi ci viene fornito dalle cronache della cattedrale Besançon: sappiamo per certo che, sotto il vescovado di Ugo I (1031-66), qualcosa di simile accadeva in cattedrale, e in ben quattro occasioni (Natale, Santo Stefano, Pasqua e Pentecoste). L’arcidiacono raggiungeva il vescovo al termine della Messa presentandogli dei panni di lino a cui veniva dato fuoco, pronunciando le parole «reverendo padre: così passa il mondo, così la tua vita».
Un memento mori piuttosto esplicito, in questo caso, di cui il celebrante era destinatario e non più latore. E, verso la metà del Duecento, qualcosa di simile aveva cominciato ad accadere anche alla corte pontificia: è Stefano di Bourbon il primo a descriverci una nuova rielaborazione dell’antico rituale del lino infuocato, che entro il XIII secolo si era già guadagnato spazio nel corso delle cerimonie di incoronazione pontificia. Similmente a quanto accadeva agli imperatori di Bisanzio, anche papa riceveva un monito della sua caducità mortale, mentre un giovane chierico gli presentava un panno di lino infuocato recitando le parole «in questo modo passa la gloria del mondo; dunque anche tu dovrai considerarti cenere e mortale».
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Nel corso dell’esilio avignonese, i papi portarono con sé i loro panni infuocati: abbiamo (saltuaria) testimonianza di come questo gesto simbolico continuasse a essere ripetuto (almeno di tanto in tanto) durante le principali feste liturgiche, e (senza dubbio con regolare continuità) durante le cerimonie di incoronazione. E anzi: alcuni cronisti del XIV secolo raccontano di come una gestualità simile si riproponesse anche nelle cerimonie che portavano al potere i “normali” re d’Europa; il gallese Adam of Usk racconta, per esempio, di come il re appena incoronato si vedesse presentare un vassoio pieno di pezzetti di marmo ricevendo la domanda «principe eccellentissimo, con quale di questi desiderate che venga costruita la vostra tomba?».
E, in quest’accezione, la ritualità del lino infuocato sopravvisse a lungo: continuò a essere riproposta in tutte le cerimonie di incoronazione pontificia fino a quella di Giovanni XXIII; e anzi, potete ammirarla “in diretta” grazie a questo spezzone della trasmissione video di quel momento.
Fu la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II a far cadere in disuso quest’usanza secolare: a partire dall’incoronazione di Paolo VI, questo gesto fu abbandonato.
E il gesto di incendiare i festoni di lino nella tarda mattinata del giorno di Natale? In questo caso, la ritualità fu soppressa da un’altra riforma liturgica: quella seguita al Concilio di Trento.
Del resto, non c’è di che sorprendersi: spinti dal desiderio di uniformità, i padri conciliari cancellarono con un colpo di penna molti riti e molte cerimonie che, fino a quel momento, avevano caratterizzato le liturgie di singole diocesi o di singole zone d’Europa: e in tal modo sparirono (ahimè) molte di quelle bizzarrie medievali che tanto ci hanno fatti ridere e sorridere.
Di loro, però, resta la memoria: e nel leggere le cronache di quei tempi antichi, io mi diverto spesso a lavorare di fantasia cercando di ricreare nella mia mente le scene che ci vengono descritte. E – lo confesso – quella che ho appena raccontato è probabilmente una delle mie preferite, soprattutto se mi metto nei panni di un passante che non ha idea di ciò che sta per succedere: è la mattina di Natale, la chiesa è decorata a festa; il papa entra, piglia una candela, appicca fuoco a cose a caso, e poi se ne va senza dire una parola, in mezzo alle ovazioni festanti del popolo.
Ah, il sapore indimenticabile di quei bei Natali di una volta!
Per approfondire:
The Pope’s body di Agostino Paravicini-Bagliani (University of Chicago Press, 2000)
The Oxford Handbook of Christmas a cura di Timothy Larsen (Oxford University Press, 2020)
In copertina:
Una stampa sul rito del lino infuocato durante la cerimonia di incoronazione di papa Pio VI (dunque, di per sé, non la cerimonia natalizia che abbiamo descritto. Di quella, ahimè, non sembrano esistere immagini!)
Emilia
Questo rito mi ricorda un po’ quello che in diocesi di Milano si usa ancora nelle parrocchie dedicate ai martiri: all’inizio della Messa, precisamente dopo che la processione d’ingresso è arrivata ai piedi dell’altare, il sacerdote celebrante prende un’asta su cui sono poste tre piccole candele e dà fuoco a un globo che ha un’intelaiatura di fil di ferro, è imbottito di bambagia ed è ricoperto di carta velina con disegni di croci e stelle. Si chiama “rito del Faro”: in giro per il web c’è ampia documentazione fotografica e filmata.
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Emilia
Dimenticavo: l’idea è ravvicinabile al “sic transit gloria mundi” perché il martire, di fatto, disprezza la gloria terrena per assicurarsene una più duratura. Un’altra interpretazione è che il Faro incendiato rappresenta l’estremo sacrificio a cui il martire è andato incontro.
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Lucia Graziano
E’ verissimo!!
Ci avevo pensato brevemente anch’io, mentre scrivevo: non ho mai avuto il piacere di assisterci di persona, ma ne conoscevo l’esistenza e in effetti somiglia parecchio a quello che ho descritto (almeno per certi versi). Confermandosi la mia antipatia (cioè, non è antipatia, è invidia 😂) che è riuscito a mantenere intatte tante delle sue particolarità nonostante la scure del Concilio di Trento, in effetti mi (e ti) chiedo: ci sono informazioni più precise su questo rito, storicamente?
Sicuramente sì, sono io che non saprei dove andarle a cercare.
Sarebbe interessante sapere se nasce prima o dopo questi rituali natalizi papali e vescovili, per esempio. La derivazione, in effetti, sembrerebbe essere simile, se non la stessa.
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Emilia
Il sito del Duomo di Milano, la cui parrocchia è intitolata a santa Tecla, venerata da sempre come martire anche se sopravvisse al martirio, riporta: “Questa usanza deriva certamente da una tradizione più antica, risalente probabilmente al VII secolo e, in ambito milanese, proprio in riferimento alla liturgia del Duomo, almeno al XII secolo”.
https://www.duomomilano.it/it/event/2019/09/22/rito-del-faro-nella-solennita-di-santa-tecla/291/
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Emilia
Rettifico: non c’è certezza che Tecla sia sopravvissuta al martirio.
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