Mangiare molto, mangiare insieme, mangiare quando si può: festeggiare il Natale nel Medioevo (ma anche dopo)

C’è un motivo se, ancora oggi, a Natale ci abbuffiamo come se non ci fosse un domani e a Capodanno mangiamo cotechino e lenticchie nella speranza che portino soldi e abbondanza. Tutto s’aggancia all’idea antica e universale per cui la ricchezza attira la ricchezza, dunque è molto meglio non farsi trovare con la tavola vuota in un periodo dell’anno (o della vita) in cui si cerca d’attirare su di sé la fortuna e l’abbondanza.

Nel Medioevo, questa idea aveva un nome, un volto e una pessima reputazione presso i teologi. Si chiamava Dama Abundia, con un richiamo piuttosto esplicito all’idea di abbondanza che era cucita addosso a lei fin dal nome, ed era una presenza notturna che – secondo una credenza sorprendentemente diffusa attraverso i secoli e le nazioni – si aggirava per le case, nottetempo, durante il periodo di Natale. Tendenzialmente non entrava mai a mani vuote, ma se uscendo aveva vuoto lo stomaco: beh, lì iniziavano i problemi. Per accoglierla come si deve, bisognava lasciare la tavola imbandita con pane, carne, dolci e cibo in abbondanza, in una muta offerta silenziosa che girava attorno a un concetto molto chiaro: se mangia lei, ci donerà abbondanza, e quindi mangeremo anche noi godendo dei frutti della sua visita.

La Chiesa, ovviamente, non apprezzava questa superstizione. Guglielmo di Auvergne, nel XIII, annota queste pratiche popolari scuotendo il capo e sottolineando il grave errore teologico sottinteso: non è forse Dio l’unica fonte della vera abbondanza? Non è dunque peccato grave lasciare offerte a una specie di inesistente spettro notturno da trattare come un idolo da tenere a bada? E se il vescovo parigino è solamente la voce più autorevole (e più ricca di dettagli) tra le molte che attraverso i secoli si soffermarono su questo malcostume, l’usanza doveva essere davvero diffusa, a giudicare dal numero di fonti che ne parlano. (Per inciso, finì col mandare a processo anche qualche malcapitata, come raccontavo nel mio libro sulla caccia alle streghe – ma questa è un’altra storia, di cui potete leggere un sunto qua, se interessati).

È difficile, per l’occhio un po’ allenato a studiare il folklore, non riconoscere qualcosa di molto familiare in queste usanze antiche. Lasciare offerte di cibo a entità invisibili che amiamo pensare ci entrino in casa nella notte di Natale per dispensare doni, cucinare più del necessario manco se qualcuno dovesse aggiungersi all’ultimo momento, mangiare come se non ci fosse un domani proprio allo scopo di garantire che un domani ci sia, e ricco di abbondanza: gira e rigira, sono gesti che abbiamo continuato a ripetere attraverso i secoli e che probabilmente molti di noi stanno compiendo anche in questi giorni, svuotati ovviamente del loro apparato mitologico ma non della loro logica profonda. Cambiano i nomi ma il principio resta intatto: non si scherza con l’abbondanza, soprattutto quando un ciclo volge al termine e bisogna fare tutto ciò che è possibile per propiziarsene uno nuovo, ancor più ricco del precedente.

E da qui, forse, vale la pena di partire per capire quali siano le radici delle nostre abbuffate natalizie, molto meno consumistiche e molto più medievali e antropologiche di quanto saremmo istintivamente portati a pensare. Da secoli, l’esperienza insegna che l’abbondanza va accolta quando arriva – e possibilmente va nutrita, per invogliarla a ritornare.

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Sui social, gli storici amano spesso condividere questa vignetta dedicata ai nostri pregiudizi sul Medioevo. Lo faccio anch’io, perché mi sembra il miglior modo per introdurre un concetto che andrà chiarito una volta per tutte, prima di procedere: no, la gente medievale non viveva in condizioni di perenne carestia; i bambini del Burundi, purtroppo, stanno messi molto peggio dei loro coetanei vissuti nell’Europa medievale.

Certamente, il Medioevo conosceva la fame. La temeva, la evocava nei racconti come uno spauracchio, la esorcizzava con le sue fantasie sul paese di Cuccagna e la vedeva arrivare a ondate ogni volta che una regione precipitava (o anche solo rischiava di precipitare) nella carestia a causa di un cattivo raccolto, una stagione secca, una guerra condotta con particolare ferocia.

Ma temere la fame perché l’esperienza insegna che essa può arrivare da un momento all’altro non significa viverci dentro ogni giorno della propria vita. Anzi: con l’unica eccezione dei trecent’anni che vanno dall’XI al XIV secolo (quelli sì, periodi particolarmente duri, con carestie frequenti e ravvicinate accompagnate da morie di bestiame), le fonti storiche ci mostrano un mondo in cui il cibo circola con una regolarità e un’abbondanza che quantomeno stonano con il nostro immaginario di un Medioevo perennemente povero e affamato.

Soprattutto a partire dal tardo Trecento (epoca in cui la peste nera aveva dato una sfoltita decisa alle bocche da sfamare ma non alle terre coltivabili), la classe media cominciò ad adottare una dieta che oggi farebbe metter le mani nei capelli ai nutrizionisti… ma non per le ragioni che immagineremmo. Abbiamo evidenza storica del fatto che, nelle Fiandre del XV secolo, i popolani consumassero ogni giorno qualcosa come mezzo chilo (!) di carne a persona; e non parliamo poi dell’aristocrazia, che ne mangiava quantità così enormi da rendere la gotta un problema diffuso a livello endemico.

Difficile continuare a immaginare una popolazione perennemente affamata quando maiale, manzo, salsicce e pollame comparivano con una certa regolarità persino sulle tavole delle classi povere: né del resto furono solo gli anni immediatamente post-pandemici a portare tutta questa abbondanza nelle case della brava gente. Eredi di quella tradizione di matrice germanica per cui la virilità e la possenza di un uomo andavano di pari passo con le sue abbuffate, anche gli uomini dell’alto Medioevo si davano alle scorpacciate non appena ne avevano l’occasione: e se non tutti potevano permettersi la dieta in vigore alla corte di Carlo Magno (dove, a detta di Jacob von Maerlant, il re poteva arrivare a mangiare in un solo giorno un quarto di pecora!), un po’ tutti cercavano – non appena se ne presentava l’occasione – di festeggiare in compagnia, in uno di quei grandi banchetti conviviali che erano al tempo stesso festa, celebrazione e augurio di abbondanza.

E l’occasione si presentava più spesso di quanto penseremmo, specie in un’epoca in cui era socialmente accettato che chi aveva la fortuna di possedere un surplus di cibo lo condividesse coi vicini di casa, a buon rendere: la macellazione del maiale, un raccolto singolarmente fortunato, persino disgrazie come una grandinata improvvisa che costringeva a consumare in fretta tutta la frutta ormai tocca caduta in terra – tutto questo era, potenzialmente, occasione di scorpacciate di gruppo che farebbero invidia a certi cenoni di Capodanno.

Questo pragmatismo, che potremmo etichettare come “mangiare quel che c’è finché c’è, sennò vedi che poi te ne penti”, trovava una cornice ancor più solida quando si guardava al calendario. In un’epoca in cui (tra quaresima, vigilie e astinenze varie), alcune zone d’Europa arrivavano a qualcosa tipo centocinquanta giorni all’anno in cui la Chiesa prescriveva una dieta di magro, i periodi festivi diventavano valvole di sfogo in cui l’eccesso era socialmente tollerato proprio perché, di lì a poco, il calendario liturgico (e i ritmi di Madre Natura) avrebbero costretto tutti a una rinnovata moderazione. Nel Medioevo, insomma, c’erano momenti in cui si mangiava molto proprio perché fino a poco prima s’era mangiato poco; si esagerava perché prima si era stati contenuti. E, tutto sommato, la cosa era funzionale: quindi, andava bene così.

Il Carnevale, da questo punto di vista, è semplicemente il caso più vistoso di un meccanismo che, a ben vedere, funzionava tutto l’anno. Si mangiava molto, si mangiava insieme, ma non (solo) per festa e ribellione: c’era anche una ragione molto concreta, quella per cui bisogna pur finire le scorte prima che iniziasse la Quaresima con tutti i suoi rigori. Di certo, il cibo non può andare sprecato!

E qualcosa di simile accadeva anche in quel periodo che oggi descriveremmo come quello delle feste di Natale. In modo forse controintuitivo, eppure vero, l’inverno è il tempo dell’abbondanza relativa: gli animali che non si intende far arrivare a primavera vengono (necessariamente!) macellati (se non altro per risparmiare sul mangime); le dispense, se l’annata è stata buona, sono colme da scoppiare – e, per chi fa il contadino, il lavoro rallenta o si ferma del tutto. È il momento perfetto in cui stare in casa, festeggiare per giorni di fila e mangiare come se non ci fosse un domani: e infatti la gente si tappava in casa, mangiava e festeggiava, anche più a lungo e più intensamente di quanto molti di noi abbiano modo di fare oggi.

In una società fortemente agraria come era quella medievale, primavera ed estate sono tutta un’altra faccenda, e impongono lavoro duro, consumo più misurato e attenzione alle risorse (bisogna raccogliere i nuovi frutti, per riempire di nuovo la dispensa): ma in inverno, beh… se l’anno è stato buono, si può scialare. In questo ciclo, l’abbuffata invernale non è una deviazione ma una fase: un po’ come la semina e la mietitura, se vogliamo. Occorre, è necessaria.

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E probabilmente è proprio qui che il Medioevo smette di sembrarci così lontano: perché le nostre abbuffate di fine anno funzionano ancora secondo lo stesso principio antico – mangiare molto, mangiare insieme, mangiare adesso. Perché probabilmente anche noi, sotto sotto, abbiamo una relazione piuttosto ansiosa con l’idea che il tempo dell’abbondanza possa finire (o con l’idea molto concreta che finisca presto quell’abbondanza di parenti che ormai solo eccezionalmente si trovano a sedere assieme attorno alla stessa tavola): e allora cuciniamo per un esercito, ci ingozziamo come oche e insistiamo perché tutti prendano “ancora un pochino”, come se lasciare il tavolo con la pancia piena fosse una forma elementare di assicurazione per l’anno che verrà.

E se oggi (quasi) nessun religioso ci rimprovera più per le nostre abbuffate, e nessun prete sano di mente si sognerebbe di criticare il piatto benaugurale di lenticchie e cotechino, abbiamo anche noi le nostre autorità morali che ci fanno dire, con un sorriso un po’ colpevole, “a gennaio dieta”, “ma sì, giusto perché è Natale”, “il 7, però, tutti in palestra”. Per non parlare poi dell’immancabile moralista che grida al consumismo dei nostri giorni tristi evocando i Natali frugali del bel tempo antico, ma senza riflettere sul fatto che la sua memoria storica familiare s’arresta ai tempi in cui l’Italia era sotto le bombe – il che, per fortuna, non è stato perennemente lo standard delle vite dei nostri avoli.

Insomma, cambiano le epoche, le accuse e le giustificazioni… ma l’idea di fondo che durante le feste ci sia da sfondarsi di cibo per farne arrivare d’altro e di più abbondante: quella sembra avere una tenuta storica notevole. E, che ci piaccia o no, probabilmente non cambierà mai; perché non è fatta per cambiare.


Per approfondire:

Herman Pleij e Diane Webb, Dreaming of Cockaigne (Columbia University Press, 2003)
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza (Laterza, 2003)
Massimo Montanari, Il formaggio con le pere (Laterza, 2014)

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